Aldi dallo Spazio – QuasAr

ALDI DALLO SPAZIO

QuasAr (2018)

Autoproduzione

 

Aldi dallo Spazio, o meglio, Awesome Lysergic Dream Innovation dallo Spazio, questo il nome altisonante e decisamente progressivo del quintetto ravennate formato da Dario Federici (voce e tastiere), Simone Sgarzi (chitarra elettrica e acustica), Davide Mosca (chitarra elettrica), Marco Braschi (basso) e Lorenzo Guardigli (batteria). Nato nel 2015, il gruppo è giunto, agli albori del 2018, alla pubblicazione del suo esordio discografico: QuasAr.

Giovani, capaci e con tante buone idee, i cinque sono riusciti a condensare equamente in QuasAr l’amore per il prog e il concetto di musica rock che abbatte i muri eretti dai moderni canoni di genere. Naturalmente le influenze ammesse dalla stessa band si fanno sentire (dai Pink Floyd alla PFM, solo per citarne un paio, con puntate nella musica space ed ambient), ma la componente personale, autentica, riesce ad emergere senza fatica e il lavoro finale risulta interessante, spontaneo e mai prolisso, supportato anche da un apparato grafico onirico, e caratterizzato da una buona componente di eccentricità, che stuzzica di certo la curiosità.

Long time lover. Il brano d’apertura arriva da lontano, flebili bagliori che si fanno accecanti col trascorrere dei secondi acquisendo corpo e volume con un’andatura frizzante alla PFM. E, dopo qualche altro “calo di tensione”, prorompe in scena la voce da rocker statunitense di Federici che lancia un massiccio segmento che s’affaccia in territori Mötley Crüe, con tanto di assolo hard.

La prima delle due suite quadripartite, The distance, si apre con l’eterea Lost in Space (Part I) dove è l’elettronica schulziana di Federici la protagonista indiscussa del breve frammento. Sul finire emerge dalle nere acque l’acustica di Sgarzi che, avviluppato da veli plumbei e un canto sinistro, crea un’atmosfera magnetica e lovecraftiana deflagrando nel finale doom: è Lost in Space (Part II)Collision si affida alle ritmiche decise del duo Guardigli/Braschi e alle chitarre affilate di Mosca e Sgarzi, un episodio strumentale di una certa consistenza sonora e dalle tinte psichedeliche. A chiudere il capitolo troviamo Over the moltitude. Dopo un avvio dalla fisionomia neoprog alla Marillion, sono soprattutto chitarre e basso a monopolizzare la scena, con il recitato (in italiano) di Federici che s’inserisce bene tra le loro spire. Tutto si conclude in un flusso composito e denso che, sommato al resto, fa avvicinare il quarto movimento a quanto di buono proposto dai Basta! in “Elemento Antropico”.

L’anima di Little Piggy Will è per buona parte floydiana, ma si riescono a leggere anche sfumature di Beatles “potenziati” e di Jimi Hendrix. Grazie a pennellate vacue e diluite che ben si amalgamano a quelle più consistenti e policrome, il lavoro del collettivo riesce ad emergere senza sbavature.

Ecco giungere la camaleontica Santana (A freedom song). Dopo un piccolo omaggio “percussivo” a “La canzone della terra” di Battisti, e uno sprazzo che tende un occhio al jazz rock di Cadmo Cincinnato, il brano avanza elettrico e carico di verve, mutando ancora varie volte lungo il cammino.

A mettere la parola fine a QuasAr ci pensa la seconda suite: Epiphany. La prima parte, Departure, è essenzialmente space (Tangerine Dream docet), con tappeti eterei che avviluppano un recitato in inglese, e si configura quasi come un omaggio alla lunga coda del brano “L’esistenza di Dio” di Franco Battiato, dove, in un’atmosfera simile, troviamo il recitato di Helena Janeczek in tedesco (tratto dal “Trattato dell’Empietà” di Manlio Sgalambro). Con È già mattino gli Aldi dallo Spazio si proiettano verso la ballata folk-acustica-cantautorale, con il carezzevole canto di Federici in primo piano. È poi il basso di Braschi a “suonare la sveglia”, con le due chitarre che seguono interessate l’evolversi della questione. Gran mo(vi)mento Right until two, dalla spiccata identità floydiana e con vocalismi alla New Trolls davvero interessanti. Sul finire, poi, una breve scheggia dalle tinte klezmer, scombussola tutto. Si chiude con Gran finale, un crescendo solenne che, avviatosi con la sola chitarra diluita di Mosca, si fa imponente con l’ingresso in scena di tutti gli effettivi. Un perfetto (gran) finale.

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