«Incantevole vero?».
Dopo aver lasciato alle proprie spalle Piazza Matteotti e l’aria calda dell’estate biccarese, erano quasi le 15, la piccola utilitaria grigia con a bordo la giovane coppia aveva dato il via a quella ripida ascesa, i famosi “quattro chilometri”. Il premio di questa scalata si schiudeva davanti ai propri occhi poco dopo gli ultimi tornanti.
«Meraviglioso» fu il primo commento di Lidia.
«Questo è il lago Pescara, il nostro piccolo scrigno d’acqua» rispose Donato.
«Pescara? Qui in Puglia? Come mai?» chiese un po’ stupita lei dal nome esplicitamente abruzzese.
Lui sorrise, poi disse: «Si, è una domanda che fanno in tanti. Sembra che tale nome sia una sorta di storpiatura, un errore di trascrizione, del nome Peschiera, il termine che i miei avi attribuivano al bacino, forse per la sua abbondanza e qualità del pesce». Poi aggiunse: «Vieni, ti faccio fare un giro completo del lago».
Donato era nato a Biccari venticinque primavere prima, Lidia, invece, stesse primavere, era di origine calabrese. Era la prima volta che introduceva la sua compagna di vita nei territori Dauni e aveva scelto quell’estate per un solo motivo: la magia.
Lasciato quel lembo grigio con panchine che un po’ strideva con il verde circostante e raggiunto il posto diametralmente opposto al loro arrivo, la coppia si fermò.
«Guarda, proprio in questo punto, da piccolo, venivo spessissimo con la mia famiglia a pescare» disse Donato indicando una piccola insenatura attorniata da giunchi.
Lei ascoltava in silenzio alternando le sue parole ai suoni della natura.
«Ricordo ancora la mia piccola canna fissa, il minuscolo amo legato alla sottile lenza e le tantissime alborelle che tiravo su con mio fratello Giovanni. È nostro padre che ci ha trasmesso questa passione».
«Ma in tutta quest’erba si riesce a pescare?» chiese lei osservando l’enorme distesa di vegetazione che affiorava dall’acqua.
«Queste sono le Lingue d’acqua, una pianta che, nel bene e nel male, rappresenta questo lago. Tanti pescatori la odiano perché il rischio di incagliare il proprio amo è elevato, però, d’altra parte, il contrasto che crea con i riflessi dell’acqua ha un suo fascino».
Raggiunta nuovamente l’auto, dopo aver oltrepassato la cascina che per anni era stata un delizioso ristorante, Lidia e Donato si sedettero su una delle panchine in legno.
«Osserva di fronte a te, quella cima è il Toppo Pescara» e aggiunse: «Ora ricarica le tue forze perché tra poco ti porto sul Tetto della Puglia».
«In che senso?» chiese incuriosita Lidia.
«Ti porto in cima al Monte Cornacchia, la vetta più alta della nostra regione».
«E come ci andiamo? In macchina?».
«No, a piedi» e sorrise abbracciandola.
Lei, perplessa, lo guardò per qualche secondo, poi chiese: «Sarà faticoso?».
«Un po’ sì ma ne sarà valsa la pena, fidati».
Dopo aver trascorso qualche altro minuto carezzati dal piacevole vento che spesso accompagnava le giornate trascorse lassù, Donato chiese: «Hai notato quel sentiero che si inerpica tra il lago e la cascina?».
«Quale, quello vertiginoso? Non dirmi che dovremo salire lì!».
«E secondo te perché, prima di uscire, t’ho detto di vestirti comoda e sportiva? Dai, andiamo!».
Già prima di intraprendere la salita il volto di Lidia denotava fatica, il sol pensiero di dover affrontare quella ostica marcia la scoraggiava.
«Ehi, cos’è quest’espressione? Partiamo già sconfitti?» chiese dolcemente Donato.
«No, è che mi sembra davvero impossibile arrivare lassù» rispose un po’ dispiaciuta.
«Vista da qui sembra davvero arduo il percorso ma vedrai che sarà meno faticoso di quanto immagini. Fidati di me».
«Va bene, andiamo».
E dopo lo scambio di un tenero bacio rincuorante iniziò l’ascesa.
Come promesso, dopo un avvio impegnativo, l’azione completa non fu difficile da compiere.
«Visto? Siamo già su».
«Avevi ragione».
«Anche se… Monte Cornacchia è quello laggiù!» disse ridendo Donato.
«Ecco, lo sapevo!» e cercò di lanciargli un simpatico buffetto che lui bloccò sul nascere, attirando a sé Lidia per cingerla in un morbido abbraccio.
«Ora guarda giù, verso il lago. Sai cosa disse il mio amico Alessandro quando, alcuni anni fa, salimmo quassù? “Che scendi a fare… al Sud non c’è niente, dicono. A me sembra invece che ci sia tutto”».
«Ha ragione» rispose semplicemente inondando i suoi occhi con quella suggestiva visione.
Recuperate le forze, giunse il momento di proseguire.
«È lì che dobbiamo andare» disse Donato indicando la cima di fronte a sé. «Lasciamo a sinistra Monte Sidone e alle spalle il lago e raggiugiamo i 1152 metri di Monte Cornacchia. Ti porto al Rifugio».
«Cos’è il rifugio?».
«È il Rifugio forestale creato nel 1980 dalla Guardia Forestale, una struttura aperta e libera che può ospitare chiunque passi di lì».
Superarono le praterie seminaturali che si aprivano ai lati del sentiero, “peccato non sia primavera, avremmo visto delle straordinarie orchidee”, mentre tutt’intorno il paesaggio era avvolto dai folti boschi in cui il Cerro e la Roverella facevano la voce grossa. Intanto, su nel cielo, un nibbio reale accompagnava il loro cammino mentre qui e là alcuni cavalli sbucavano tra le onde dell’erboso terreno.
Poi comparve gradualmente davanti ai loro occhi la struttura in pietra del Rifugio.
«Ecco, ci siamo!» esclamò Donato.
Lidia, un po’ stanca, disse solo: «Finalmente!».
«O meglio, ci siamo quasi. Il Tetto della Puglia è quello lì» disse indicando una colonnina in cemento posta su una piccola collinetta accanto all’edificio.
«Cos’è quella?».
«Quello è un pilastrino in calcestruzzo posto lì dall’Istituto Geografico Militare. Marca un punto geodetico e, soprattutto, il punto più alto della Puglia».
Affrontato anche l’ultimo e più semplice sforzo, la coppia conquistò la cima.
«Adesso sì, ci siamo. Ammira il panorama, puoi scorgere anche il Gargano e la Maiella».
Lei osservò rapita quell’alternarsi di cime e vallate, quei colori cangianti. Poi chiese: «E quei piccoli paesi che si vedono lì sotto cosa sono?».
«Quelli sono Castelluccio, Faeto e Celle, i cosiddetti “tre paesi belli”» e sorrise.
«Perché li chiamate belli?».
«Perché anche in piccolissimi borghi come quelli c’è qualcosa di suggestivo».
Si sdraiarono poi sull’erba, nei pressi del Rifugio, a ricaricare le energie e ad ascoltare i suoni che li circondavano.
«Ora possiamo andare, ti porto verso i boschi, le sorgenti d’acqua e la magia».
«Quale magia?»
«Sai, in questi boschi, quando ero piccolo, in estate spesso accadeva un evento magico. Poi, negli anni, purtroppo, è svanito. Ieri mattina, però, ho incontrato il mio amico Celestino e, tra le tante cose, m’ha detto che finalmente la magia era tornata. È per questo che ti ho portato qui, devi solo avere pazienza e attendere che il sole tramonti e il manto di stelle ci copra».
«Va bene».
«E ora diamo il via alla discesa».
Raggiunto nuovamente il lago Pescara, la coppia salì in auto e intraprese il percorso asfaltato che si apriva sulla destra del bacino, prosecuzione fisica dei “quattro chilometri” ma denominata “otto chilometri” per la sua maggior estensione del tratto Biccari-lago.
Il percorso si apriva tra distese alberate, tra cui Il Boschetto e Bosco Triccari, e, tra curve e saliscendi, proseguiva verso Roseto Valfortore.
«Qui, in queste aree attrezzate per il pic-nic, ho passato molte delle mie estati, pasquette, dolci domeniche primaverili. È un paradiso» disse Donato raggiunta la zona verde contraddistinta dalla statua della Madonnina, molto venerata dai biccaresi, cui è dedicata la celebrazione del 15 agosto.
«Straordinario questo posto».
«Non solo. Spesso, qui ma anche nei boschi che si estendono verso Alberona, venivamo per raccogliere funghi, asparagi ed origano. Ricordi fantastici. Prima che faccia buio, però, ti porto a bere le fresche acque della sorgente San Leonardo. Poi torniamo qui per la magia».
Si addentrarono nel Bosco della Cerasa, inerpicandosi verso l’Orto di Zolfo e il Vivaio Forestale, sempre in direzione Roseto. Su di un piccolo slargo caratterizzato da strutture lignee coperte e tavoli, l’auto si fermò.
«Dai, scendiamo».
Un breve sentiero incastonato tra la vegetazione li guidò verso quel piccolo zampillo d’acqua cristallina che da sempre disseta i biccaresi.
«Meraviglioso questo scrigno verde. Sembra una piccola foresta incontaminata» disse Lidia dissetandosi e osservando la natura libera che avviluppava la fonte.
«Si, è incantevole questo posto».
Dopo esser rimasti per un tempo indefinito a contemplare quella visione, immersi in quel silenzio quasi irreale, disturbato dal solo getto d’acqua, i due risalirono verso l’auto. Solo allora realizzarono che la notte era giunta sulle loro teste.
«Però, quanto tempo siamo rimati laggiù? Ora possiamo andare verso la magia».
La discesa fu breve, parcheggiarono nei pressi della Madonnina e s’incamminarono verso l’alto, tra gli alberi.
Pochi minuti di cammino e già piccoli lampi luccicanti colpirono gli occhi di lei.
«Cosa sono?» chiese curiosa.
«Ancora un po’ di pazienza».
Superato un sentiero sterrato si aprì uno spazio relativamente pianeggiante. Fu allora che la vista della coppia fu inondata da quella luce insolita e magnifica: era la magia. Davanti a loro una distesa infinita di minuscole stelle luminose invadeva gli alberi e l’erba. Le lucciole erano tornate.
(pubblicato nell’antologia “Racconti pugliesi 2017” – Historica Edizioni, 2017)
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