“C’è qualcosa di strano in questi quadri”.
Nella piccola sala, la numero 3, del neonato museo intitolato alla memoria del pittore locale Luca Scacchi, Fred Cossa continuava a fissare incuriosito il dipinto di Arturo Sfinzi intitolato “Restare al freDdo, per sempre”. Davanti a sé l’immagine sfocata di una casa grigia, un cielo plumbeo e una natura spoglia esplicitamente invernale, tutto realizzato con pennellate rapide e grossolane. Accovacciato, in parte coperto dalla parete destra dell’abitazione, un cane nero reso con pochissimi tratti. In lontananza, quasi al termine di un sentiero che si perde nello scuro fondale, eseguiti con tocchi più delicati, in contrapposizione alla tecnica pittorica principe, due piccole figure, a prima vista un uomo che volta le spalle ad un bimbo. Infine, in basso a sinistra, la firma A. S. e il titolo dell’opera.
Fred fece tre passi verso sinistra e si soffermò nuovamente sul quadro che aveva osservato pochi minuti prima: Il regno delLa fede. Una distesa verde, figure umane e animali stese sull’erba, un uomo al centro, in piedi, candido, braccia protese verso l’alto. Sullo sfondo, su di una montagna, quasi impercettibile alla vista, spuntavano le due figure dell’uomo e del bambino, stessa posa e stessa tecnica contrastante del precedente dipinto. In basso firma e titolo. Fred non notò le due figurine e, dopo alcuni minuti riflessivi, proseguì il giro antiorario.
“Mmm, osserviamo di nuovo anche questo quadro”.
Un paesaggio notturno, primaverile, illuminato dalla luna piena, e tra i fiori ragazze danzanti, tutto sempre reso da quei tocchi corposi che ne deformano i lineamenti. Anche qui, tra gli alberi posti in lontananza, fanno la loro comparsa l’uomo e il bambino. E anche qui, in basso a sinistra, sigla, A. S., e titolo, “La lunA fredda non è”.
“Forse è solo una mia sensazione ma direi che qui c’è qualcosa che ho già visto negli altri due dipinti”.
Si avvicinò ancora di più al quadro in cerca di quel dettaglio probabilmente ricorrente ma intuì subito che sarebbe stata un’impresa non semplice date le misure del dipinto che, come gli altri, superava il metro e sessanta nel lato corto.
Sconfitto si diresse verso l’opera collocata sulla parete opposta, “Un luogo fResco per Diana”. Lo esaminò per lunghi minuti, scorrendo sotto il suo attento sguardo ogni singola pennellata. Osservò la custode delle fonti immersa sino alla vita in un ruscello azzurro, alcuni quadrupedi non facilmente riconoscibili che bevevano da quelle limpide acque, il verde e i fiori colorati che avviluppavano la scena idilliaca. Fu allora che, spostando la sua vista verso gli alberi lievemente accennati sullo sfondo, notò quelle due piccole figure.
“Forse ho capito. Non vorrei sbagliarmi ma queste due forme, che credo siano un uomo e un bambino, compaiono anche sugli altri quadri”.
Alla riflessione seguì istintivamente un nuovo spostamento. Tornò alla parete precedente e cercò il particolare sul quadro “La lunA fredda non è”. Pochi secondi e le due figure comparvero davanti ai suoi occhi. Erano identiche, queste, forse, solo leggermente più piccole. Continuò la ricerca e ritrovò l’immagine anche nei due precedenti dipinti. Poi si diresse verso i restanti due quadri posti sulla parete opposta, la sala ospitava complessivamente sei opere dell’artista, “Lo zolFo rende schiavo” e “L’Africa, il solE e Dio”, e anche in questi casi il dettaglio si palesò.
“Strano. Sembrano dipinti da altre mani o comunque si discostano nettamente dalla tecnica pittorica di base. Chissà perché e chissà come mai l’uomo volta le spalle al bambino. E poi quelle lettere scritte con diversa grafia nei titoli. Doveva essere piuttosto bizzarro questo Sfinzi”.
Non trovando una spiegazione plausibile, in realtà quella caccia al dettaglio reiterato era stata più una sfida alla sua memoria fotografica che una vera “caccia al mistero”, decise di tornare a casa.
Prima di uscire, però, lesse nuovamente la scarna scheda biografica dell’artista posta accanto all’ingresso della sala ma non trovò nessun accenno a quel dettaglio pittorico né tantomeno a quelle lettere graficamente discordanti dei titoli.
«Ciao mamma, sono tornato».
«Ciao Fred. Vieni in cucina, ho preparato la torta con le carote che ti piace tanto».
«Si, arrivo subito».
Entrato in cucina, baciò sua madre sulla gota destra, poi si fiondò sul dolce. Ne mangiò avidamente un pezzo enorme.
«Fantastica come sempre mamma» disse con la bocca ancora piena Fred.
«Grazie tesoro» rispose sorridendo Carla evidenziando quelle rughe intorno agli occhi che negli ultimi anni si stavano moltiplicando rapidamente.
«Lo senti anche tu mamma?».
«No, cosa?».
«Il divano! Mi sta chiamando!».
«Vai a riposarti, vai» e così dicendo diede una pacca affettuosa sulla spalla del figlio.
Era tornato a casa in licenza dopo i primi tre mesi di servizio militare a settecento chilometri di distanza e dopo quei primi, duri, tre mesi Fred Cossa non desiderava altro che riposare un po’. La visita al nuovo museo era stata una piccola eccezione giustificata dalla sua passione per l’arte.
Alto un metro e ottanta, fisico asciutto caratterizzato da quel viso spigoloso ereditato da sua madre Clara, dimostrava qualche anno in più rispetto alle sue quasi diciannove primavere.
«A noi due!» disse ad alta voce osservando con occhio di sfida il divano.
Stava letteralmente per tuffarvisi sopra quando il suo sguardò incrocio, come sempre, quel tassello familiare della parete settentrionale del salotto di casa Cossa, un dipinto.
“Ma questo è un quadro di Sfinzi” pensò dopo aver letto per l’ennesima volta nella sua vita la sigla A. S. e il titolo “La frOde”. Non osservò l’immagine principale, conosceva a memoria quella scena in cui un uomo teneva per mano un bambino, mentre poco oltre si notava la presenza di una donna col capo chino, ma si fiondò con lo sguardo in cerca di quel dettaglio celato nel paesaggio scuro caratterizzato da pochi elementi distinguibili. Lo trovò.
“Perché un dipinto di Sfinzi é in casa nostra?”.
Era in procinto di chiamare sua madre quando l’istinto lo convinse a sganciare la tela dal muro. A causa delle sue dimensioni e del suo peso non fu impresa semplice. Lo poggiò delicatamente a terra sul lato lungo inferiore. Tenendolo ben saldo con una mano vi girò intorno. Fu allora che scorse quel piccolo elemento vergato nell’angolo inferiore sinistro del retro. Stese allora il dipinto sul pavimento e lesse:
Forse dovrei dirti altre cose o forse no. Forse meglio terminare tutto qui.
Scusami figlio mio, meriti un padre migliore.
Ciao Alfredo
Restò disorientato e immobile per diversi secondi. “Ciao Alfredo? Parla di me?”.
«Mamma!» urlò con veemenza.
Clara corse subito in salotto. «Che succede?» chiese allarmata.
Poi s’accorse del riquadro vuoto sulla parete. «Cosa ci fa il quadro per terra?»
«Mamma, perché il dipinto parla di me?» la domanda diretta di Fred.
«In che senso?».
«Qui, leggi».
Lesse, le si gelò il sangue e non disse nulla. Fred s’accorse del repentino mutamento d’animo di sua madre.
«Cosa c’entra Sfinzi con me, con noi? Perché questo quadro è sempre stato qui?» la incalzò.
«Ti prego, non chiedermi nulla» e a capo chino lasciò il figlio con i suoi interrogativi.
Fred, confuso, osservò sua madre uscire dalla stanza senza aggiungere altro. Lesse nuovamente quelle parole, poi si diresse in camera sua lasciando il quadro in quella posizione inconsueta. Restò lì un’ora, sul letto, fissando un punto sul soffitto. Saltò il pranzo. Di scattò, poi, si alzò.
“Tornerò al museo”.
«Buongiorno. Avrei una richiesta particolare da farle».
Alla biglietteria non trovò la ragazza simpatica incrociata poche ore prima. «Buongiorno a lei. Mi dica pure».
«Ecco, vede, le sembrerà strana la mia richiesta ma dovrei staccare uno dei dipinti della sala di Sfinzi». L’idea era semplice, verificare se anche sul retro degli altri quadri c’erano tracce di quella che sembrava una lettera incompleta.
«E perché dovrebbe, mi scusi?» chiese un po’ stupito l’addetto museale.
«Perché sto facendo una ricerca sulle sue opere e vorrei constatare se per caso l’autore ha lasciato traccia di sé anche dietro le tele. Non pochi sono gli artisti che hanno tracciato segni o parole dietro le proprie opere» mentì Fred.
«Guardi, pur rispettando la sua ricerca, mi è impossibile accontentarla».
«Perché? Si tratta solo di pochi minuti».
«Le tele non si possono toccare, dovrebbe saperlo».
«C’è il direttore? Posso parlare con lui?».
«Un direttore esiste solo sulla carta ma qui non c’è mai» rispose con un misto di sarcasmo e irritazione l’operatore.
«Allora proverò dal sindaco».
«Faccia pure».
Lasciò il museo sconfitto.
Fu una cena silenziosa. Fred notò sul volto di sua madre evidenti segni di sofferenza e decise che per il momento non avrebbe infierito.
La mattina seguente, dopo una notte insonne, decise di effettuare un nuovo tentativo al museo sperando, innanzitutto, di trovarvi la ragazza e auspicando in una sua collaborazione.
Il primo desiderio fu esaudito: la ragazza c’era. Tentò nuovamente la carta della ricerca. Lei, bionda, corpo esile, voce sottile e dolce, nella sostanza rispose come il suo collega.
«Guarda, sarò sincero, so per certo che dietro le tele c’è scritto qualcosa e vorrei scoprire cosa. La prego, un solo tentativo e se non troviamo nulla andrò via».
«Mi spiace molto ma non posso» rispose quasi sentendosi in colpa la ragazza.
Decise allora di dirle tutto, sperando nella sua comprensione e nella sua curiosità. «A casa ho un quadro di Sfinzi, dietro ho trovato queste frasi» e le porse un foglietto. Poi riprese «Sai come mi chiamo? Alfredo».
La ragazza fu leggermente spiazzata dalla lettura del biglietto e dalla rivelazione.
«M-mi spiace, non posso davvero aiutarla».
«Ti prego, solo un quadro, poi, se non troviamo nulla vado via, promesso».
«Non posso proprio, non insista».
«Ti prego, uno solo. Ora che non c’è nessuno nel museo».
La ragazza rilevò nello sguardo di Fred la sincerità e una nota di dolore che la convinsero.
«Uno solo, rapidamente. Se ci scoprono rischio il posto».
«Grazie, grazie! La colpa sarà solo mia, tranquilla».
Raggiunsero rapidamente la sala 3. Si diressero verso il primo quadro posto alla sinistra dell’ingresso.
«Alziamolo lentamente dai lati» disse Fred.
Delicatamente e con non pochi sforzi, soprattutto da parte della ragazza, il dipinto fu sganciato e posato con accortezza sul pavimento.
«Reggilo in piedi, io do un’occhiata sul retro e poi lo riposizioniamo».
La ragazza sudava copiosamente, sia per lo sforzo sia, soprattutto, per ciò che di irregolare stava compiendo.
«Fai presto» bisbigliò.
Fred si chinò e rimase di sasso.
«Allora?» chiese preoccupata la ragazza.
«C’è» fu l’unica risposta di Fred.
«Cosa?» chiese la ragazza dimenticando il perché di quella surreale situazione.
«Il testo, c’è».
«Ah» non rispose altro.
Fred trasse dalla tasca una penna ed un foglio, era certo di trovare qualcosa, e trascrisse quelle frasi:
Meritate una vita migliore senza un peso come me. Questi sono e saranno i miei ultimi dipinti, gli altri li ho distrutti tutti. Una volta terminato l’ultimo sparirò per sempre. Non cercatemi.
Poi i due risistemarono il quadro.
«E ora?» domandò la ragazza. I ruoli s’erano improvvisamente invertiti, adesso era lei che voleva proseguire quella caccia al tesoro.
«E ora credo che l’unica cosa da fare sia staccare tutti i dipinti».
Fu un lavoro faticoso ma i due riuscirono nell’impresa. Dopo circa quaranta minuti Fred aveva tra le mani sei foglietti con altrettanti testi, nella parte alta di ognuno aveva trascritto anche il titolo dell’opera.
«Non so davvero come ringraziarti» disse sorridendo alla ragazza.
«Beh, per ringraziarmi potresti risolvere con me questa specie di mistero» rispose ingenuamente la ragazza.
«Vorrei ma prima devo capire delle cose da solo. Mi spiace».
L’espressione della ragazza diventò malinconica, dopo quello sforzo fisico e il grosso rischio corso pensava di meritare un altro premio. Disse solo «Capisco».
«Cercherò di tornare presto con qualche risposta. Te lo prometto… Ma qual è il tuo nome? Non te l’ho ancora chiesto, scusa».
«Giulia».
«Grazie infinite Giulia» e uscendo aggiunse: «Beh, hai capito che il mio nome è Alfredo, ma puoi chiamarmi Fred».
Rientrato rapidamente a casa raggiunse la sua camera e dispose sulla scrivania i sette biglietti.
“Il testo del nostro quadro sembra essere la chiusura di una lettera. Questo che inizia con ‘Caro Alfredo’, invece, deve essere la parte iniziale. Ora devo solo ricostruire le altre parti”.
Rilesse i vari frammenti provando a ricomporre a caso i tasselli. Poi l’occhio cadde sui titoli delle opere, in particolare su quelle lettere scritte con grafia irregolare. “Il primo pezzo ha una A maiuscola, l’ultimo una O”. Trascrisse anche le altre lettere, D, L, E, F, R, e le fissò per qualche minuto.
“Ma… ma queste sono le lettere del mio nome!”.
Quella rivelazione ne fece nascere subito un’altra: “Vuoi vedere che l’ordine del testo segue le lettere del mio nome?”. Aveva ragione. Un paio di minuti dopo davanti ai suoi c’era il testo integrale scritto dal pittore. Lo lesse:
Caro Alfredo,
non so se leggerai mai questa mia lettera ma il mio cuore, scrivendola, si sentirà più leggero. Difficile trovare un inizio, vorrei dirti tante cose, vorrei dirle a tua madre, ma la mia mente razionale m’ha ormai abbandonato. Avevo un sogno, è stato distrutto. La mia vita era tra tele e colori ma solo tua madre m’ha compreso, o almeno spero. Troppe sconfitte, non ho retto. Gli unici a pagare siete voi due e la colpa è solo mia. Trascinarmi così non avrebbe avuto senso e allora ho deciso di ferirmi in modo definitivo: lasciare tua madre, lasciare te. Perché? Meritate una vita migliore senza un peso come me. Questi sono e saranno i miei ultimi dipinti, gli altri li ho distrutti tutti. Una volta terminato l’ultimo sparirò per sempre. Non cercatemi. Ho chiesto a tua madre di esaudire solo tre miei ultimi desideri e spero, ma sono certo, sia stata leale: custodire per sempre il mio ultimo quadro, non parlarti di me e, soprattutto, chiamarti Alfredo, come mio padre.
Forse dovrei dirti altre cose o forse no. Forse meglio terminare tutto qui.
Scusami figlio mio, meriti un padre migliore.
Ciao Alfredo
Terminata la lettura la sua mente si svuotò. Non capiva chi fosse quell’uomo e perché avesse dedicato quella lettera ad un Alfredo. Era solo certo che quell’Alfredo fosse lui.
Dopo esser rimasto inerte per un tempo non quantificabile, Fred si diresse in cucina. Senza dir nulla porse alla madre il testo completo della lettera che aveva trascritto in precedenza. Una spiegazione ora era d’obbligo.
Bastò leggere le parole “Caro Alfredo”, gli occhi di Clara furono inondati immediatamente dalle lacrime e dai ricordi.
La donna terminò con estrema fatica la lettura, poi fissò negli occhi il figlio. Fred non disse nulla.
«Si, Arturo è tuo padre». Clara, con voce tremante, giunse subito al punto.
Fred subì il colpo, anche se inconsciamente prevedibile, e restò impassibile e in silenzio. Attendeva una spiegazione più dettagliata che era certo sarebbe arrivata nell’immediato. E arrivò.
«Io e Arturo siamo stati fidanzati per dodici anni, eravamo felici. Lui lavorava nel bar di famiglia e dipingeva. Era appagato dalla sua passione, i pennelli, le tele, i colori, i suoi occhi luccicavano quando era nella sua bottega, uno spazio ricavato nell’ampia cantina di famiglia. Tutto andava bene fino al giorno in cui un suo conoscente non lo persuase ad esporre i suoi quadri in una mostra. Lui non amava esibire la sua arte ma quella volta si lasciò convincere. Qui iniziò il nostro calvario. La mostra fu una delusione per Arturo ma ancor peggio furono i commenti dei visitatori. Le sue opere furono derise dal paese intero. La sua mente s’incrinò. Si chiuse in sé stesso, passò le sue giornate nella bottega a dipingere e poi distruggere le sue opere. La stessa sorte era toccata anche a tutti i quadri esposti in quella mostra. Quell’anno, prima di cadere nell’abisso, avevamo deciso di sposarci, sia perché ci amavano sia perché stavi per arrivare tu». Qui Clara fece una pausa.
Fred continuò a tacere.
Riprese: «Giorno dopo giorno Arturo diventava più introverso, scontroso, non usciva più dal suo rifugio. Ormai era giunto sull’orlo della follia. Ho provato ad aiutarlo, a fargli capire che non erano importanti quei giudizi, che lui doveva dipingere solamente per sé e per me ma non servì a nulla. Così un giorno decise di lasciare tutto: me, te, l’arte, il paese. Anche in questo caso non riuscii a fargli cambiare idea, ad aiutarlo a sconfiggere i suoi fantasmi. Fu una sofferenza atroce. Non ho mai saputo dove sia andato, non so dove sia ora, non so se sia ancora vivo».
La seconda interruzione nel flusso di amari ricordi concesse alla donna qualche attimo per rifiatare.
«Non immagini quanto ho pianto il giorno in cui ho saputo che nel nuovo museo sarebbero state esposte anche le opere superstiti di tuo padre, pianto di rabbia. L’ultima volta che lo vidi ci incontrammo nella sua bottega. Mi chiamò lui alcuni giorni prima, voleva donarmi qualcosa prima di sparire per sempre. Al mio arrivo stava ultimando il quadro che poi mi regalò, quello che da anni ci tiene compagnia in salotto. Lo osservai mentre lo ultimava, stava aggiungendo quell’ultimo particolare, l’uomo che volta le spalle al bambino. La sua foga, la rabbia con cui eseguiva le pennellate, quel modo nervoso di stendere il colore che non aveva mai avuto prima di quella sciagurata mostra, in quel momento scomparve. Dipingeva quella minuscola scena morbidamente. “Penso a lui e il mio tratto s’addolcisce” disse carezzando con delicatezza la mia rotondità materna. “E poi penso alla mia decisione e… ed eccomi lì, volto le spalle e vado via”».
Fred non disse nulla, abbracciò solamente sua madre mentre una goccia gli solcava il viso.
(pubblicato nell’antologia “L’inganno” – SensoInverso Edizioni, 2017)
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