«Italiano! Vieni qui!».
«Che succede?».
«Qualche stronzo ha vomitato nel cesso. Vai e pulisci».
«Ma io lavoro in cucina».
«No, tu sei un tuttofare e io sono il tuo capo. Vai e pulisci. Immediatamente!».
“Pezzo di merda”.
«E comunque io avrei un nome».
«E sarebbe?».
«Pierferdinando».
«Troppo lungo e troppo difficile. Mi basta chiamarti “italiano”, anche perché sei l’unico bianco ed europeo in questa marea di indiani che ho nel mio ristorante».
A testa bassa e scuro in volto, Pierferdinando Nappi, figura smilza, originario della provincia di Foggia, si sfilava con rabbia il grembiule grigio con il logo del ristorante in bella mostra sul petto, lo gettava su uno dei banconi colmi di stoviglie da lavare e abbandonava la cucina mentre alle sue spalle, Otto Von Daniken, corpulento proprietario ed ex chef del “Guter Appetit”, ghignava soddisfatto.
“Gliela farei mangiare questa merda a quello stronzo di tedesco”.
Intanto, mentre con uno straccio cercava di cancellare i resti dello sgradito regalo, il puzzo nauseante emanato dalla poltiglia giallastra rigurgitata da uno degli illustri ospiti che frequentava uno dei più rinomati ristoranti di Francoforte, stava per causare in Pierferdinando la stessa reazione.
«Ciao tesoro, com’è andata oggi?».
«Uno schifo».
Aperta la porta del miniappartamento, 35 mq, camera da letto, bagno, piccola sala da pranzo con angolo cottura, situata in uno dei sobborghi della città, Pierferdinando trovò ad attenderlo, come ogni sera, Lavinia, la sua compagna. Bassina, viso dai lineamenti lievemente accentuati e dalla pelle chiara, come i capelli, la ragazza lo accoglieva ogni sera con il sorriso.
«Ma almeno hai mangiato qualcosa?».
«No, m’è passata la fame».
«Perché?».
«Perché ho dovuto raccogliere del vomito dai cessi di quel posto di merda» rispose stizzito gettando a terra la borsa.
La sua rabbia non era rivolta a lei, e lei lo sapeva, ma alla situazione. Non il ristorante in particolare ma la loro presenza in Germania in generale. Erano lì da quasi due mesi e l’unica fonte di sostentamento che erano riusciti a trovare era quella non proprio appagante del “Guter Appetit”. Lui chimico, lei antropologa, decine di colloqui affrontati ma zero le risposte positive.
«Stai dimagrendo troppo» disse Lavinia accarezzandogli delicatamente gli zigomi sporgenti.
Lui inarcò le spalle.
Fu una cena non propriamente luculliana, come di solito accadeva, e molto silenziosa.
«Sai, ho ricevuto un’altra risposta via mail e domani ho un nuovo colloquio» disse il ragazzo mentre sparecchiava la tavola.
«Davvero? Sono contenta».
«Ho già chiesto il permesso e, dopo aver fatto storie, quello stronzo me l’ha accordato ma sarò costretto a recuperare le ore domenica».
«Lavori anche domenica?» chiese sconfortata Lavinia.
«Sì, purtroppo».
«Dai, allora speriamo questa volta vada meglio».
«Come d’accordo, io vado».
Il giorno seguente, erano da poco trascorse le quattordici, Pierferdinando riponeva il suo grembiule nel piccolo armadietto dello spogliatoio e si avviava verso l’uscita.
«E dove vai di bello?» chiese Von Daniken che, come ogni giorno, si aggirava con la sua figura imponente nelle cucine.
«Ho un impegno. Gliel’ho detto ieri e lei mi ha concesso il pomeriggio libero».
«E allora vai, vai. Tanto domenica recuperi tutto, caro il mio dottore!» esclamò divertito.
“Vaffanculo”.
«Allora, tesoro? Com’è andata?».
«Solito. Buon curriculum, tutto molto bello, ma il mio tedesco è una schifezza» rispose affranto.
Lei lo abbracciò materna.
«Dai, sono certa che la svolta sia dietro l’angolo» disse tenera la ragazza.
«Sì, ci raccontiamo questa favola da due mesi ormai».
«E allora consa vuoi che facciamo? Tornare in Italia?» chiese alzando leggermente il tono della voce.
«Lavoro undici ore al giorno dovendone fare solo otto, agli indiani va anche peggio, guadagno la paga minima prevista dalla legge che ci permette solo di sopravvivere, non sto imparando la lingua perché sono circondato da indiani e l’unico tedesco è quello stronzo del proprietario che, per fortuna, almeno, mi parla col suo schifoso inglese. Dovrei essere felice?».
«E allora torniamo in Italia» ribadì Lavinia.
«No, qui con un altro po’ di forza di volontà e un pizzico di fortuna il mio dottorato in Chimica e il tuo in Antropologia fisica ci porteranno a vivere la vita che vogliamo. In Italia quali sarebbero state le prospettive? Quel misero assegno di ricerca per un anno, qualche collaborazione pagata una miseria qui e là e poi? Nessuno sbocco professionale, nessuna azienda che punti su dei trentenni, nessun progetto da parte del governo per far rinascere il mondo del lavoro e zero investimenti sulle persone qualificate. O avrei dovuto sperare nel posto di portalettere a vita? Un anno è stato più che sufficiente. Il nostro paese non ci merita e per me può anche morire».
Lei non rispose nulla. L’argomento era stato affrontato fin troppe volte prima di decidere di abbandonare la terra natia e trasferirsi in Germania e non vi era altro da aggiungere.
«E tu, invece?» chiese poi Pierferdinando prendendo posto su una delle due sedie che s’affrontavano ai lati lunghi del piccolo tavolo.
«Risposte alle mail ultimamente zero ma la prossima settimana dovrò incontrare nuovamente il professor Heinze all’Università. Se tutto va come deve andare la sua cattedra potrebbe finanziarmi il progetto di ricerca per i prossimi tre anni».
«Davvero? Andrà tutto bene, ne sono certo».
«Lo spero. E se la cosa va in porto tu lascerai immediatamente quel ristorante».
«E poi?».
«E poi continuerai a cercare la tua strada. Nel frattempo, con il mio assegno di ricerca potremo vivere dignitosamente».
Si avvicinò a lei e la baciò teneramente.
«Domattina ho un nuovo colloquio».
Erano trascorsi altri giorni-fotocopia e, mentre Lavinia attendeva l’inizio della settimana seguente nella speranza di dare una svolta alla sua nuova vita, Pierferdinando prolungava la sua agonia al “Guter Appetit”.
«Hai avvisato il tuo capo?».
«No».
«Perché?».
«Perché oggi non avevo nessuna voglia di incrociare la sua faccia di merda».
«E se ti fa storie?».
«Pazienza».
Lei sorrise, era certa che la situazione sarebbe cambiata molto presto.
«L’unica cosa buona di questo paese, al momento, è che le aziende leggono tutte le mail di candidatura che ricevono e ti propongono il colloquio quasi sempre. In Italia è già tanto se uno su venti ti risponda col classico “Al momento non siamo alla ricerca di nuovo personale ma la sua candidatura verrà presa in considerazione e bla bla bla”» rifletté ad alta voce Pierferdinando mentre si spostava nella minuscola cucina per dare una mano con la cena.
«È stata una scelta ben ponderata la Germania, lo sai».
«Assunto!».
«Come? Cosa? Davvero?».
«Sì! Contratto a tempo indeterminato, 2600 euro al mese più benefit lo stipendio iniziale, sette ore e mezza al giorno dal lunedì al venerdì. Cosa vuoi di più?».
Lavinia, con le lacrime agli occhi, saltò addosso al suo Pierferdinando e lo tempestò di baci. Anche le pupille del ragazzo divennero umide di gioia.
«Hanno apprezzato moltissimo il mio curriculum, i miei lavori sui polimeri e il mio inglese. Sì, perché parliamo di una multinazionale in cui si parla esclusivamente inglese e non questa lingua del cavolo».
«E ora?».
«E ora si cambia vita. Ma prima gliela faccio pagare a quella merda d’uomo».
«Che hai intenzione di fare? Niente sciocchezze, Ferdi!».
«Tranquilla amore, sono un signore».
«Bello, se la mattina non vieni a lavorare mi devi avvisare. La prossima volta ti licenzio».
Il giorno seguente, con molta calma, erano quasi le undici, Pierferdinando si recò presso quello che ormai era il suo ex posto di lavoro trovando il suo ex datore di lavoro, nero in viso, pronto ad accoglierlo a muso duro.
«Tedesco, ora mi ascolti» disse risoluto fissandolo negli occhi.
«Con chi parli?».
«Con te, tedesco».
«Come mi hai chiamato?». Il tono del ragazzo colse alla sprovvista l’uomo.
«Come tu chiami, anzi chiamavi, me. Sei l’unico bianco ed europeo in questa marea di indiani. E, soprattutto, sei l’unico stronzo in questo locale».
«Ehi, amico. Cerchi rogne? Io ti sbatto fuori a calci!».
«Non ce n’è bisogno. Vado via io. Mi licenzio».
«E dove andresti di bello, eroe?».
«A fare il mio lavoro».
«A fare la fame andrai, pivello».
Senza ribadire altro, Pierferdinando diede le spalle all’omone e si avviò verso l’uscita.
«Ah, fossi in te inizierei a preoccuparmi» aggiunse voltandosi, mentre la mano era già sulla maniglia della porta.
«Perché?».
«Perché quelli cercano te» disse indicando con un cenno del capo tre figure in giacca e cravatta che, stringendo delle borse in pelle tra le mani, facevano il loro ingresso nel locale.
Il pomeriggio precedente aveva segnalato all’Ispettorato del lavoro le precarie condizioni lavorative che affliggevano soprattutto i suoi colleghi indiani e la denuncia era stata immediatamente presa sul serio.
E con un sorriso beffardo stampato sul volto Pierferdinando guadagnò la libertà.
(pubblicato nell’antologia “Fuori casa” – Montegrappa Edizioni, 2019)
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