«Mein Führer, è giunto un dispaccio dalla Russia».
“La svastica sventola nei cieli di Stalingrado. Mosca prossima alla capitolazione”.
Nel quartier generale nazista a Berlino, Adolf Hitler rilesse con piacere il documento, passando ripetutamente una mano nei capelli nero corvino.
«Ben fatto comandante Keitel!» disse poi ad alta voce, congedando con un gesto della testa il messaggero.
«E chiamami immediatamente Göring!» aggiunse mentre l’uomo in divisa dal fisico asciutto e chioma biondo-paglia, ariana, lasciava la stanza del Cancelliere del Reich.
Pochi minuti dopo il capo della Luftwaffe, in alta uniforme, appariva al cospetto di Hitler.
«È giunta l’ora di sferrare il colpo decisivo alla Gran Bretagna. Londra deve scomparire dalle carte!».
«Sarà fatto Mein Führer».
Se l’attacco del ’40 non aveva portato i frutti sperati, la nuova, possente, pioggia di bombe segnò la fine della capitale inglese. Era il 1942. L’intero Regno Unito e l’Irlanda vennero conquistati nel giro di un paio di mesi grazie anche al massiccio intervento dello Heer, la forza armata di terra della Wehrmacht, e della Kriegsmarine, la Marina militare. Winston Churchill, Re Giorgio VI e la regina Elisabetta vennero catturati e condotti nelle prigioni del Reich a Berlino.
«Quali stati in Europa non sono ancora stati assoggettati?».
Marzo 1943, nell’ampia sala del quartier generale del Terzo Reich, dinanzi al grande tavolo-planisfero, Hitler, circondato dai fedelissimi Hermann Göring, Heinrich Himmler, Joseph Goebbels, Wilhelm Keitel e Joachim von Ribbentrop, poneva il fondamentale quesito.
«Svizzera, Svezia, Spagna, Portogallo, Islanda e Italia, Mein Führer» rispose Göring indicando gli stati sulla carta.
«Troppi! Troppi!» urlò Hitler.
Un silenzio gelido avviluppò l’ambiente e i suoi ospiti.
«E l’Islanda sarebbe uno stato che vale la pena conquistare? Non fatemi ridere!».
Il Führer, poi, indirizzò la sua attenzione verso la mappa. Osservò con cura i paesi da conquistare e all’improvviso, esplose: «Perché la Finlandia e la Norvegia fanno parte del Reich e la Svezia è libera?».
Dopo la conquista russa, anche i suoi possedimenti, tra cui la Finlandia, erano passate sotto l’egida della svastica.
«La Svezia è un paese neutrale, come la Svizzera, il Portogallo e la Spagna». Il coraggio di rispondere lo trovò Himmler.
«Cosa significa “è un paese neutrale”? Cosa diavolo significa?» sbraitò.
Nessuno rispose alla domanda retorica.
«Nel giro di due mesi li voglio tutti nel Reich! Tutti! All’Italia ci penseremo infine».
Poco più di cinquanta giorni dopo, la Wehrmacht portava in dono ad Hitler i quattro stati.
«Mein Führer, gli americani sono sbarcati in Sicilia e stanno avanzando senza trovare un’effettiva resistenza da parte delle forze fasciste».
Era metà luglio, le forze statunitensi erano arrivate in Italia il 10 e in pochi giorni avevano già conquistato l’intera isola.
«Mussolini ha chiesto il nostro aiuto» aggiunse il vice-Cancelliere.
«E noi non lo aiuteremo» rispose secco Hitler fissando negli occhi Hermann Göring.
«E come intende procedere, Mein Führer?».
«Lasciamo gli italiani al proprio destino, per ora».
Il 25 luglio giunse la notizia dell’arresto del duce italiano, mentre gli americani proseguivano l’avanzata senza incontrare ostacoli degni di nota.
«Sono riusciti a ribaltare il governo di Mussolini. Personaggio insignificante. È giunto il momento di fare fuori quel peso morto e far capire a Roosvelt di aver fatto un grosso sbaglio ad entrare in casa mia!».
Hitler si avvicinò al tavolo-planisfero, spostò con veemenza una serie di documenti che oscuravano in parte la visione della geografia europea e puntò il suo sguardo sulla penisola italiana.
«Mein Führer, come ci muoviamo?». Göring attese alcuni minuti prima di porre il quesito.
«Attendiamoli sulla riva settentrionale del Po. Appena giungeranno gli americani li colpiremo di sorpresa per terra e aria. Devono pentirsi di aver attraversato l’Atlantico e aver messo piede sul territorio del Terzo Reich!».
«E con Mussolini come ci comportiamo?».
«Liberatelo e poi fatelo fuori. Voglio che muoia per mano nazista».
Per gli americani fu un massacro. L’8 settembre, le forze della Luftwaffe fecero cadere una pioggia interminabile di missili che fu seguita da un impressionante attacco da terra dello Heer. Delle truppe di Roosvelt rimase solo il ricordo.
Nel frattempo, il Führer aveva incaricato Otto Skorzeny, comandante di un corpo speciale di Kommando delle SS, di identificare la prigione del duce. Skorzeny non tradì le consegne e, individuato il luogo, Campo Imperatore sul Gran Sasso, riuscì a liberarlo e a portarlo in salvo con un piccolo aereo. Una volta in quota, uno dei portelli del velivolo si aprì e Mussolini fu spinto nel vuoto dallo stesso comandante.
«Mein Führer, abbiamo intercettato un messaggio in codice degli americani» e così dicendo il militare porse ad Hitler un foglio dattiloscritto. Era la primavera del 1944.
«Operazione Neptune pianificata. Procedere con attività aeree e navali. Sbarco su coste Normandia, 6 giugno 1944».
«Hanno deciso di suicidarsi? Vogliono suicidarsi? E noi li accontenteremo!» urlò battendo un pugno sulla scrivania.
«Voglio tutti a rapporto, immediatamente!».
Dieci minuti dopo la sala accoglieva una decina di figure in alta uniforme.
«Dobbiamo sterminarli! Tutti!» gridò dopo aver mostrato il messaggio ai suoi gerarchi.
«Li anticipiamo sulle coste della Normandia?» chiese Keitel.
«No, dobbiamo coglierli di sorpresa. Un’operazione più ampia e spettacolare di quella italiana».
Gli ufficiali si scambiarono occhiate interrogative, poi la parola la prese il solito Göring.
«Mein Führer, ha in mente di farli sbarcare per poi colpirli alle spalle?».
«Esatto! I pupazzi di Roosvelt arriveranno con le proprie portaerei. Lasciamoli avvicinare alle coste, lasciamoli sbarcare sulle spiagge. Noi, inizialmente, non saremo sulla terra ferma». Fece una pausa.
«All’improvviso toccherà alla nostra flotta sottomarina, comandata da Dönitz, iniziare le danze. Li prenderemo alle spalle e, mentre una serie di missili arriverà dal basso, la Luftwaffe oscurerà il cielo proseguendo l’operazione di affondamento delle navi nemiche spostandosi, infine, sulla terraferma per spazzare via gli americani che hanno osato posare i loro luridi piedi sui miei territori!».
Il programma nazista fu eseguito con precisione chirurgica. Gli americani sbarcarono poco dopo la mezzanotte non trovando resistenza. Poco dopo l’alba l’esercito di Hitler scatenò l’inferno. Il tramonto degli uomini di Roosvelt arrivò tre giorni dopo.
«Mein Führer, pensi sia giunto il momento di conquistare gli Stati Uniti?».
Pochi giorni dopo la vittoria in Normandia, Göring pose con fatica la domanda che da giorni cercava di uscire con forza dal suo cervello. Temeva la risposta. La potenza nazista era enorme, ma tentare un’operazione del genere era troppo rischioso.
«No, almeno non ora. Non sono così pazzo da mandare allo sbaraglio i miei uomini, di avventurarmi a cinquemila chilometri da casa senza conoscere i territori nemici, senza avere la possibilità di rifornimenti continui di uomini, mezzi, beni alimentari».
«Parole sagge, Mein Führer» rispose sollevato il vice-Cancelliere.
«Prima dobbiamo conquistare l’Asia».
(pubblicato nell’antologia “Andiamo in Ucronia” – Montegrappa Edizioni, 2018)
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