«E anche oggi questa pioggia mi farà arrivare tardi a lavoro».
Ugo Tilli, nella sua monovolume blu elettrico, come ogni mattina, costeggiava la Basilica di Santa Maria Maggiore immettendosi poi su Via Merulana in direzione Piazza S. Giovanni in Laterano. Qui, lasciati alla sua sinistra l’Obelisco Lateranense e tutti gli edifici che costituivano il complesso della Basilica di S. Giovanni in Laterano, la tozza figura dal caratteristico viso tondeggiante e dal riporto fin troppo evidente, imboccava Via dell’Amba Aradam per dirigersi poi, con la solita difficoltà dovuta al traffico, sulla grande arteria della Cristoforo Colombo. Il suo ufficio, in cui svolgeva l’attività di contabile, era in Via Dessì, con vista sul Parco delle Tre Fontane.
«Accidenti! È mai possibile che ogni volta che piove in questa città si aprano delle voragini nell’asfalto?» urlò dopo aver sussultato con la sua auto in Via Druso.
Intanto la lunga colonna di autovetture con i tergicristalli in preda ad una crisi isterica, quasi impotenti nel respingere la copiosa pioggia che cadeva dal cielo, era praticamente immobile. Un concerto di clacson accompagnava la lenta marcia.
In poco più di venti minuti riuscì ad immettersi su Via delle Terme di Caracalla notando un paio di automobili in panne, con le ruote anteriori forate a causa dell’impatto con una profonda buca comparsa all’improvviso.
“Ci sarebbe da fare causa al Comune ogni due passi” rifletté.
Fermo nella sua auto, stava osservando affascinato i resti delle imponenti Terme, quando il suolo sotto la sua vettura iniziò a cedere.
«Ma che diavolo succede?!».
Di scattò iniziò a strombazzare con il suo clacson ma le macchine che lo inscatolavano non gli permisero di spostarsi quel tanto che bastava per togliersi da quella complicata situazione. Anche l’auto che gli era accanto bloccò l’apertura dello sportello arrestando la sua volontà di fuga.
“Sono in gabbia!”.
Le luci rosse del freno dell’auto che lo precedevano, ad un tratto, si spensero.
«Dai, dai!».
Innestò la marcia ma, appena azionò l’acceleratore, l’asfalto cedette di schianto. L’auto volo verso il basso per un tempo indefinito tra le urla disperate di Ugo.
Nessuno schianto seguì alle sue grida. Ugo si rialzò da terra smarrito, si toccò il corpo per capire se ci fosse qualcosa di rotto, non trovandola fortunatamente. Poi alzò lo sguardo e notò una serie di edifici caratterizzati da colonne e blocchi di marmo bianco o laterizi rossi, un pavimento lastricato e alcune figure che vi si dirigevano parlottando tra loro.
«Ma… ma… ma quelli parlano in latino! Dove diavolo sono finito?!» esclamò quando il piccolo gruppo di persone gli fu a pochi metri.
D’istinto cercò di nascondersi tra due edifici scontrandosi contro un uomo avvolto da una bianchissima toga e dal clavus, la striscia in porpora che indicava l’alto rango dell’individuo.
Ugo restò impietrito mentre l’uomo l’osservò per qualche secondo, poi un coro di «Ave Caesar!» lo indussero ad andare oltre, verso il Senato.
Tremante, l’uomo s’appoggiò ad un muro, notando in seguito i suoi indumenti, una tunica in lana marroncina legata in vita da una cintura in cuoio.
«Ma come sono vestito? Che scherzo è questo?».
Restò nascosto per diversi minuti, poi delle urla invasero il relativo silenzio che lo avviluppava. Ugo si sporse per vedere cosa stesse accadendo e notò un nutrito gruppo di uomini che usciva correndo dall’edificio in cui poco prima era entrato l’uomo chiamato Caesar. Tra le loro mani dei pugnali insanguinati.
«Oddio! Ma… ma quello era Giulio Cesare! Smettetela con questo scherzo!» urlò.
Poi, vedendo l’accrescere della presenza umana dei pressi del Senato, decise saggiamente di allontanarsi. Un folto gruppo di guardie armate lo convinse successivamente ad entrare in un piccolo portone in legno aperto.
Adattatosi alla poca luce interna, incrociò lo sguardo di una donna intenta ad accudire il suo piccolo figlio. Si fissarono, poi le parole dal tono minaccioso della donna lo persuasero ad uscire ritrovandosi in una grande piazza. La prima cosa che notò fu la fisionomia dei palazzi che la cingevano, nettamente differente dagli edifici romani da cui fuggiva. Le linee, i colori, risalivano al ‘500. La lingua che si poteva distinguere nel forte vocio che proveniva dai banchi che occupavano la piazza, tra abili venditori e sonnolenti acquirenti, però, non era molto diversa dal suo italiano. Gli indumenti, notò anche i suoi, erano più colorati ma nulla che ricordasse il suo solito abbigliamento.
Ad un tratto il brusio terminò. Una colonna di uomini in tunica bianca e cappa nera comparve nella piazza. Tra di essi anche un uomo in catene. Il gruppo si avvicinò ad un palo circondato da sterpaglie nella parte inferiore e posizionato su di un lato del grande spazio. L’uomo fu denudato e in seguito legato al palo. Dopo alcune frasi pronunciate da uno degli uomini tunicati che Ugo non riuscì ad ascoltare per il costante afflusso di curiosi e il vociare che aumentava gradualmente, un suo consimile s’avvicinò con una torcia all’uomo e diede fuoco alle sterpaglie.
«Oddio! Questi sono matti!».
«A morte l’eretico!» urlò la folla che lo cingeva.
“L’eretico? Che sia Giordano Bruno?” pensò in un briciolo di lucidità.
«Ora basta! Non mi diverto!» e fuggì facendosi spazio a spallate tra la gente.
Corse per diversi minuti senza una meta, poi ad un certo punto si lasciò cadere e poggiò la schiena ad un muro, gli occhi si chiusero.
«Soldato, in piedi! I bersaglieri sono alle porte!».
«Cosa? Come?». Ugo si svegliò di soprassalto.
«In posizione, soldato!» continuò ad urlare l’uomo in divisa.
Di scatto, involontariamente, Ugo si alzò in piedi, notò la sua uniforme e, cosa che lo sconvolse, il fucile che impugnava tra le mani. Sbiancò.
«Dove… dove sono? Perché ho questo coso tra le mani?».
Si guardò intorno notando una gran confusione, soldati che correvano in ogni direzione. Poi una forte esplosione, seguita da altre, lo fece tremare.
«Soldati, in posizione! Difendiamoci!».
«No, io non c’entro nulla!» gridò, mentre da uno squarcio aperto tra le antiche mura, nei pressi di Porta Pia, un nutrito gruppo di bersaglieri lo raggiungeva con le baionette puntate.
«No! No!» strillò in preda al panico, «Non voglio morire così!». E si gettò a terra coprendosi la testa con le braccia.
Trascorse gli eterni secondi seguenti in attesa del colpo fatale che non arrivò. Allora, lentamente, rialzò la testa e osservò la situazione circostante notando una calma irreale. Molti dei gendarmi formavano dei piccoli assembramenti amichevoli e parlottavano tra loro. Intorno non vi erano evidenti tracce di battaglia.
Il suo sguardo, in seguito, fu attirato da quella breccia nelle mura e la sua mente in un attimo stilò il piano di fuga. Vi si avvicinò furtivo e con un rapido balzo fu dall’altra parte.
Appena i piedi toccarono terra, Ugo iniziò a correre. Fece pochi passi in realtà, poi ruzzolò rovinosamente. Con fatica si rimise in piedi osservando il motivo della caduta: una buca. Esaminò allora il suolo su cui si stava muovendo rilevando una serie infinita di crateri delle più svariate dimensioni che si aprivano su una distesa grigia. Intorno a lui nessun essere vivente.
«Sono sulla Luna?!» si chiese spaventato.
Facendo sforzo sulle gambe e sulla mente, Ugo tentò di compiere ancora qualche passo ma si bloccò nuovamente. I suoi occhi avevano abbandonato il suolo e ora fissavano il paesaggio post-atomico che si spalancava davanti a lui. Era circondato da una serie infinita di edifici distrutti.
«Ma… ma quello è il Cinema Europa!» esclamò osservando ciò che restava della sala cinematografica.
«Allora sono su Corso d’Italia!».
Restò impietrito per alcuni minuti, successivamente avanzò adagio senza staccare lo sguardo da quella desolante visione. Ancora pochi passi, poi un piede in fallo nell’ennesima voragine e Ugo cadde strillando all’interno della profonda cavità. I secondi divennero minuti ma il fondo non si palesava. Ad un tratto un insistente suono di clacson s’intromise tra le urla dell’uomo.
«Oddio, m’ero appisolato nel traffico!» e osservò il suo viso sorridente nello specchietto retrovisore.
Poi guardò fuori dal finestrino, le Terme di Caracalla erano ancora lì, affascinanti nel loro disfacimento, mentre la pioggia continuava incessantemente a cadere.
«Anche oggi arriverò tardi a lavoro. Pazienza!» disse sollevato.
Poi innestò la marcia ma, appena azionò l’acceleratore, l’asfalto cedette di schianto…
(pubblicato nell’antologia “Quanto sei bella Roma” – Montegrappa Edizioni, 2018)
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