«H-ho fatto un s-sogno».
«Padre Serafin, fratello Calixto si è svegliato» bisbigliò fratello Facundo all’orecchio del suo superiore.
«Come ti senti fratello Calixto?» chiese padre Serafin avvicinandosi lentamente all’uomo il quale, al momento, era sdraiato in un letto che a malapena conteneva i suoi oltre centottanta centimetri di statura e il fisico corpulento.
«Sto bene, padre Serafin. Perché mi chiedi questo?» rispose fratello Calixto mentre il suo viso appariva rigato da esili rivoli di sudore che, incontrando le ferite ancora fresche, assumevano un colore rossastro.
Padre Serafin sorrise senza dire una parola e il quadro di rughe che caratterizzava come la corteccia di un vecchio albero il suo volto, modificò temporaneamente la sua configurazione.
«Ho fatto un sogno» riprese fratello Calixto.
«Sì, raccontamelo fratello» replicò con voce attenuata il superiore.
Intanto fratello Facundo aveva accostato una sedia malmessa al letto e aiutato padre Serafin a prendervi posto, non senza difficoltà. Poi si era spostato di qualche metro e, stringendo con forza un rosario tra le mani piagate, aveva dato il via ad una nenia recitata stretta tra i denti.
«Cammino a passo svelto per le strade della nostra amata Ciudad de México, accanto a me tanta gente, urla, confusione. Credo di essere lungo Calzada de los Misterios perché mi ritrovo dopo poco tempo davanti al santuario consacrato a Nostra Signora di Guadalupe».
Fece una pausa, poi chiese dell’acqua.
Fratello Facundo immediatamente si avvicinò, lo aiutò a sollevare quel poco che bastava il capo e gli porse una borraccia lignea colma di acqua che non era più fresca già da un po’ di ore.
Padre Serafin lo osservò bere, le mani che tremavano non sembravano inviare un buon segnale.
«Cerco di accedere al santuario ma un muro umano mi tiene a distanza. All’improvviso odo un forte boato e, pochi secondi dopo, una colonna di fumo si alza dall’edificio sacro. È il panico. Una moltitudine di persone cerca di scampare alle fiamme che rapidamente stanno investendo la casa di Nostra Signora di Guadalupe, grida isteriche avviluppano il mio cervello sino quasi a farlo scoppiare. Poi vengo travolto via dalla calca e mi ritrovo catapultato nuovamente sulla Calzada de los Misterios».
Si fermò nuovamente e il respiro divenne pesante.
«Non stancarti troppo fratello Calixto» disse paternamente padre Serafin.
L’uomo abbozzò un sorriso, poi continuò la sua narrazione.
«Senza accorgermene, cammino, vengo trascinato per chilometri sino a ritrovarmi dinnanzi al Templo de San Felipe Neri La Profesa. Provo a divincolarmi dall’abbraccio umano ed entrare in chiesa ma, a pochi passi dall’accesso, vedo il portone spalancarsi bruscamente e uscire alcuni uomini armati che trattengono con modi bruschi dei nostri confratelli». Si bloccò e un fremito attraversò la sua schiena.
«Basta così fratello Calixto. Ora riposati» sussurrò padre Serafin.
«No, devo proseguire. Dopo aver assistito a questa scena dolorosa, cerco di nascondermi tra la gente e fuggire via. Con fatica raggiungo un grande piazza, credo fosse el Zócalo, non ne sono certo, e due cose mi bloccano: una folla oceanica rabbiosa che occupa tutti gli spazi della piazza e una bizzarra installazione collocata al centro dell’immensa area. Due alte colonne affrontate, quella alla mia sinistra, di foggia classica, è sovrastata da un water, l’altra, di fattura moderna, sorregge un trofeo. Tra i due oggetti vi è una corda che sostiene, esattamente a metà lunghezza, un abito tradizionale precolombiano».
Padre Serafin, dopo aver ricostruito nella sua mente la stravagante immagine, cercò di non tradire emozioni ma il suo volto assunse, per un istante, l’immagine del dubbio. Dietro di lui, imperturbabile, fratello Facundo proseguiva con il suo lamento recitato a fil di voce.
«Mi volto e, dietro di me, individuo due uomini con la divisa militare. Inizio a tremare. Loro non mi vedono. Li sento confabulare e riesco a intercettare solo queste frasi:
“Le nostre tradizioni sono appese lì, ad un filo, tra una fine ingloriosa…”.
“…di merda”.
“Una fine ingloriosa, ripeto, e un successo epocale”.
“E cosa tocca fare quindi?”.
“Cacciarli tutti, con le buone o con le cattive”.
«Poi un nuovo flusso umano mi urta e mi trascina via. Vengo travolto, qualcuno mi colpisce, più e più volte, ma non riesco a distinguerne il volto né la direzione da cui provengono i colpi che raggiungono soprattutto il mio viso. Poi tutto si fa buio e mi risveglio qui, in questo letto».
Un colpo di tosse squassò il petto di fratello Calixto mettendo, per il momento, la parola fine alla narrazione.
Padre Serafin lo fissò negli occhi, le labbra serrate, il respiro quasi impercettibile. Allungò lentamente un braccio e pose la sua mano sulla fronte del fratello.
«Guardati intorno. Sai dove siamo?».
Fratello Calixto, con uno sforzo, alzò di poco il capo, esaminò per pochi attimi parte del campo visivo che si apriva davanti a lui e poi ricascò pesantemente sul cuscino.
«N-no, non sono nella mia stanza?».
«No, fratello».
Fratello Calixto non rispose, cercò di stringere le palpebre e mettere a fuoco qualcosa di familiare nella parete alla sua sinistra, verso il suo superiore, invano.
«Non è un sogno ciò che hai raccontato. È tutto vero, o quasi» aggiunse padre Serafin.
«Non ci credo».
«Fratello Facundo, avvicinati e aiuta fratello Calixto ad osservare fuori dall’oblò».
Terminata istantaneamente la sua preghiera, e posato con uno scatto il rosario su di un piccolo tavolino, fratello Facundo s’avvicinò e aiutò fratello Calixto ad alzare la testa e a volgerla verso destra.
«Guarda fuori. Sai dove siamo?» chiese padre Serafin.
«N-no, non può essere… Quella… quella è la Statua della Libertà…».
«Sì, fratello Calixto. Siamo su una nave diretta a New York. Tu hai vissuto tutto quello che hai appena raccontato. Noi l’abbiamo vissuto. Questo è ciò sta accadendo nella nostra amata Ciudad de México» disse mestamente padre Serafin.
Il capo di fratello Calixto ricadde nuovamente sul cuscino e due lacrime andarono ad ingrossare i rivoli di sudore che, senza sosta, proseguivano il proprio percorso mutando colore su quel viso martoriato.
(pubblicato nell’antologia “Pennelli e parole” – Montegrappa Edizioni, 2019)
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