Osmose (1970)
Ohr
Atmosfere cupe ed estranianti, divagazioni cosmiche e sperimentali, elementi jazz e psichedelici, strumenti “violentati” e cori deliranti, è questo, e molto altro, Osmose, l’album d’esordio dei tedeschi Annexus Quam.
La band nasce nei dintorni di Düsseldorf nel 1967, ma solo nel 1970 riesce a concretizzare su disco le proprie idee grazie alla neonata etichetta Ohr di Rolf-Ulrich Kaiser, specializzata in krautrock e musica sperimentale e cosmica, che tra le sue produzioni annovera, tra gli altri, band del calibro di Tangerine Dream, Cosmic Jokers e Ash Ra Tempel, a cui la musica dei nostri può essere avvicinata.
Gli Annexus Quam sono un settetto e ogni elemento, oltre al suo strumento di competenza, suona anche le percussioni e prende parte ai cori, ad accezione di Ove Volquartz, cui sono affidati esclusivamente sax e flauto. Ad Uwe Bick è affidata la batteria, a Jürgen Jonuschies il basso, a Werner Hostermann clarinetto e organo, a Peter Werner la chitarra, a Hans Kämper chitarra spagnola e trombone, ad Harald Klemm il flauto.
Il prodotto del loro lavoro, come detto in apertura, è qualcosa di molto particolare, fuori dai canoni, senza una struttura regolare. Il disco è interamente strumentale, ad eccezione degli inserti vocali di soli cori non proprio angelici. Particolari alcune atmosfere à la Faust, ma ci sono anche minimi richiami, se vogliamo, floydiani.
L’album è formato da quattro brani che, nell’edizione originale, non presentano titoli, ma sono definiti Seite (lato, in italiano) 1 A-B-C e Seite 2. Nelle edizioni seguenti saranno utilizzati Osmose I-II-III-IV (è così che chiameremo i brani in questa recensione). È considerato da molti come uno degli album migliori pubblicati dalla Ohr.
Copertina molto particolare con quattro alette che possono essere ripiegate e formare altre immagini o creare una piramide in modo da poter vedere tutti i disegni.
Avvio con fiati quasi malinconico per Osmose I. Dopo una breve pausa entrano in scena una chitarra distorta e dei piatti che vanno ad “incattivire” il brano. La chitarra di Werner va in loop (a tratti lo fa anche la batteria, subentrata molto presto). Su di loro fiati, organo e “rumori” vari, si divertono a creare un’atmosfera quasi spettrale (una sorta di anticipazione di “Meer” dei Faust).
Osmose II. Apertura piuttosto jazz con ritmiche e sax in evidenza (forse il momento più vivace dell’album). Il tutto s’incupisce velocemente con l’arrivo di voci “sguaiate” provenienti dall’aldilà e un campanaccio che scompaiono solo nel finale.
È una batteria molto lenta, in 4/4, che funge da sottofondo ai giochi d’improvvisazione di chitarra e fiati, quella che occupa i primi due minuti di Osmose III, prima di vivacizzarsi. Anche qui si “intromettono” dei cori lugubri degni dei precedenti (i cori, col sottofondo di organo, sembrano quasi una “storpiatura” dei vocalizzi di Ian Gillian in “Child in time”). Intorno ai cinque minuti, dopo alcuni secondi di calma, la chitarra prende le redini del brano, con un’esecuzione che, cammin facendo, diventa sempre più ossessiva e inquieta, così come i fiati che l’accompagnano. Il clima che emerge può essere definito di matrice psichedelica.
Osmose IV occupa l’intera seconda facciata del disco ed è una lunga suite di oltre diciotto minuti. Suoni di un piano, prima cupi, poi più aperti, ci accolgono. A seguire il brano prende un andamento jazz, con fiati e chitarra che si divertono ad improvvisare sulla base di batteria (quasi un richiamo all’intro del brano precedente). Continuando nell’ascolto ci accorgiamo che l’atmosfera tende a farsi sempre più tenebrosa, grazie ai cori cupi di Bick & Co. e al trombone “violentato” di Kämper. Non dura molto perché presto la batteria riprende la scena e “sperimenta” in compagnia di chitarra e fiati. Questo segmento un po’ folle ci tiene impegnati per alcuni minuti, prima di lasciare spazio ad un sax triste e ad un flauto piuttosto dolce. Finale leggermente ansiogeno.
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