Annot Rhül – Leviathan

ANNOT RHÜL

Leviathan (2014)

Black Widow Records

 

A sette anni di distanza da “Lost in the Woods”, torna Annot Rhül, moniker dietro cui si cela il polistrumentista norvegese Sigurd Lühr Tonna, con Leviathan, album che segna il suo esordio per l’etichetta italiana Black Widow Records.

Negli anni che hanno diviso le due uscite Tonna si è dedicato alla lettura e allo studio degli scritti immaginifici di H.P. Lovecraft, soprattutto quelli legati al ciclo di Cthulhu, cercando in essi un nuovo stimolo compositivo. L’opera di Lovecraft, si sa, è da sempre fonte d’ispirazione in musica. Lunga, infatti, è la lista degli artisti che hanno attinto a piene mani dai lavori dello scrittore di Providence: dai francesi Shub-Niggurath alla band belga degli Univers Zero, sino ai nostrani Silver Key (solo per citarne alcuni), così come c’è stato in passato chi ha deciso di “rubare” il nome stesso dell’autore (vedi gli statunitensi H.P. Lovecraft).

Con Leviathan, dunque, Tonna dona un “corpo musicale” ai suoi studi sull’universo lovecraftiano, sviluppandoli tramite atmosfere scure e frangenti onirici che si muovono tra psichedelia, space rock e progressive di matrice britannica (numerosi sono, ad esempio, i richiami ai Pink Floyd), con rimandi espliciti ai temi (Leviathan Suite e R’lyeh) e alle opere dell’autore americano (The Colour out of Space e The Mountains of Madness).

Nutrita la schiera di collaboratori che hanno preso parte alle registrazioni dell’album: Halvor William Sanden (batteria), Burt Rocket (basso, sintetizzatori, voce), Erlend Naalsund (chitarra, EBow), Ingrid Velle (voce), Kjartan Nystad (voce), Lars Hyldmo (organo Hammond, Minimoog, piano), Stian Gjelvold (creative eqing), Sven-Arne Skarvik (voce, lap steel), Torfinn Belbo (percussioni), Alessandro Elide (percussioni), Jørgen Yri (voce), Asgeir Engan (voce), Organ Morgan (sintetizzatori, organo, tastiera), Jakob Tonna-Stadsnes (sintetizzatore), Lars Fredrik Frøislie (mellotron, effetti). Le mani di Tonna invece hanno dato vita ai suoni di un gran numero di chitarre, EBow, sitar elettrico, tastiere, campionatore ed effetti.

La “lettura” di Leviathan non può essere scissa dallo straordinario artwork di Halvor William Sanden. Nelle sue immagini visionarie si rivivono musica e parole dell’album (per visionarle tutte clicca qui).

Il via all’album è dato dai sette movimenti di Leviathan Suite in cui si narra dell’arrivo sulla terra di un’inquietante entità aliena che semina il terrore tra degli ignari marinai (fin troppo chiara l’ispirazione). The Traveller, part I. Suoni cupi, diluiti e rarefatti che creano atmosfere avviluppanti: i Pink Floyd che incontrano la Kosmische Musik. E ti lasci trasportare dal flusso sonoro. Il brano si “apre” con The Sailors, part I. Qui è il canto ad aggiungere una pedina importante nella scacchiera grazie al sinuoso intreccio vocale tra Ingrid Velle, Kjartan Nystad e Sven-Arne Skarvik. In Limbo at 5000 Fathoms è aperto da una chitarra gilmouriana avviluppata da suoni incorporei, anche il canto (da sottolineare gli interventi dell’eterea voce della Velle adagiata su un tappeto onirico) e il ritmo cadenzato appaiono di influenza floydiana. Labirintici i primi frammenti di Maybe they Sailed out too far?, prima che la chitarra riprenda la “pista inglese” tracciata sinora e sfoci in Between Scylla and Charybdis. Qui l’elemento nuovo, che si fa spazio in un’atmosfera più vivace e a tratti più aggressiva, è il synth dal suono ormesco che precede una sorta di “chiusura del cerchio” con la ripresa del secondo movimento (The Sailors, part II). Finito? Eh, no! Nell’ultimo minuto e mezzo (Interstellar FoeAnnot Rhül e soci danno fiato a tutte le energie “risparmiate” nei primi sei capitoli regalandoci una cavalcata trascinante degna della PFM.

Più briosa, almeno in alcune sue parti, The Colour out of Space, brano che si sviluppa verso due direzioni: una rapida elettrica-elettronica, rockeggiante e “spensierata”, un po’ alla Hawkwind, e una magnetica e rilassata. Protagonisti di entrambi i “mondi” sono chitarre, tastiere e ritmiche, tutte cangianti al punto giusto. Per questo brano Tonna ha preso spunto dall’opera omonima di Lovecraft, un racconto che narra della caduta sulla terra di un meteorite e degli strani accadimenti che ne seguono: le piante danno frutti dalle dimensioni eccezionali ma immangiabili; uno strano morbo s’impossessa degli animali portandoli alla morte; nascono piante mai viste e di un colore impossibile da descrivere. La causa verrà riconosciuta in una creatura proveniente dallo spazio che col passare del tempo colpisce anche il fisico e la mente degli uomini.

Un’atmosfera più inquieta si percepisce in Surya. L’intro con alcuni elementi alla Gobin, il canto “fosco” di Ingrid Velle e Jørgen Yri, le tastiere di Annot Rhül e Burt Rocket, i vari “ricami di corde” e il gorgo sonoro della parte finale sono gli elementi che trascinano il brano.

La batteria di Sanden lancia Distant Star, nuovo episodio dal clima sognante. Per circa tre minuti chitarre, tastiere e ritmiche si divertono nel ricreare paesaggi fantastici. Ci si ritrova distanti dai colori scuri lovecraftiani e più vicini all’universo multicolore di Michael Ende: sembra di essere con Atreiu e volare nei cieli di Fantàsia sul dorso di Fùcur.

Si torna in un limbo oscuro con The Mountains of Madness. Ancora una volta Tonna e soci riescono a tessere un ordito atmosferico dove l’elemento floydiano si fonde perfettamente con “muri sonori” neri e distorti. Il testo corposo rende il brano più “ciclico” rispetto agli altri cinque capitoli dell’album. Anche in questo caso Annot Rhül prende in “prestito” un’opera di H.P. Lovecraft: At the Mountains of Madness. Il romanzo narra della spedizione al Polo Sud di alcuni esploratori e il rinvenimento, in una caverna situata alle pendici di una catena montuosa altissima, di alcuni esseri mostruosi congelati ma ben conservati. Segue la scoperta e l’esplorazione dei resti di una città aliena situata al di là dei monti ma anche una serie di sventure che colpiscono il gruppo scientifico. Come sempre Lovecraft disegna angosce e gioca con la psiche dei personaggi e il brano è una “colonna sonora” perfetta per l’opera narrativa.

Brano conclusivo è la suite R’Lyeh, titolo ispirato alla città immaginaria che, nel mondo narrativo di Lovecraft, è il luogo in cui «il morto Cthulhu sogna e attende». Il primo movimento, The Elder Ones (dedicato verosimilmente ai Grandi Antichi), è un mix di serenità e tensione ed è caratterizzato da carillon e un’atmosfera gobliniana: sembra provenire direttamente da “Suspiria” di Dario Argento. Quello che sembra un urlo terrificante ci introduce nel paesaggio gotico di 47°9 S 126°43 W (le coordinate di R’Lyeh nell’Oceano Pacifico). Qui ad attenderci troviamo chitarre distorte e possenti amalgamate ai suoni sintetici scuri di Tonna & Co., tutti guidati dall’autoritaria batteria di Sanden. E, come se niente fosse successo, subito dopo ci ritroviamo nell’antitetica Every man for himself, episodio luminoso e “narcotizzante”, dove i soffici ricami di chitarra e mellotron, e i successivi vocalizzi incorporei, fanno ben presto dimenticare quanto accaduto poco prima. Ma si sa, la quiete non è sempre duratura… Ecco, infatti, irrompere In the Wake of Cthulhu con i suoi suoni ruvidi ed “eccessivi”, dalle tinte a tratti metal. Un vortice sonoro destabilizzante che perde “potenza” col trascorrere dei secondi, quando l’elettronica riesce a sopraffare le distorsioni e la batteria marziale, prima che le “sirene di Ulisse” prendano il sopravvento. Si chiude il “sipario” con i suoni cupi e di commiato di The Traveller, part II.

Un affascinante viaggio nel tempo e nello spazio che sorprende e coinvolge.

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