Symphonie pour le jour où brûleront les cités (1981)
Atem
Ancor prima di entrare a far parte del movimento RIO (vi entrano nella seconda “tornata” insieme ad Art Bears e Aksak Maboul) gli Art Zoyd hanno già nel DNA quelli che saranno i parametri richiesti da tale movimento: qualità della musica, estraneità alle logiche commerciali e generica appartenenza al genere rock.
Il primo parametro (che chiama a sé il secondo) è dato da un mix di prog, jazz, avanguardia e musica classica “stravolta”. È su queste basi che la band francese, formata da Thierry Zaboitzeff (basso, percussioni, voce), Gérard Hourbette (viola, violino, flauto), Jean-Pierre Soarez (tromba, percussioni) e Alain Eckert (chitarra, percussioni, voce), nel 1976 realizza il primo album Symphonie pour le jour où brûleront les cités (conosciuto anche come “3”).
Questo primo album è stampato in poche copie e, a quanto pare, la sua qualità audio non è delle migliori. Qualche anno dopo si decide di ripubblicare l’album, non limitandosi alla semplice ristampa dell’originale, ma registrando nuovamente i brani attenendosi il più possibile agli originali e inserendo alcuni ulteriori strumenti che rendono ancora più corpose le composizioni. Per riuscire nell’intento, accanto ai quattro elementi originali Zaboitzeff, Hourbette, Soarez ed Eckert, i quali limitano i propri compiti rispettivamente a basso e voce, violino, tromba e chitarra, troviamo Gilles Renard al sax, Frank Cardon al violino e Patricia Dallio al piano.
Le nuove registrazioni avvengono nel 1980, mentre l’album viene pubblicato l’anno seguente ed è questo lavoro che andremo ad analizzare.
Le caratteristiche della band sopracitate si ritrovano compiutamente all’interno del disco e, anzi, sono ulteriormente estremizzate. La band si diverte a giocare con i suoni e le atmosfere, alternando passaggi irriverenti ad altri più quieti. È soprattutto l’uso eterodosso degli archi e degli ottoni, oltre ai guizzi vocali allucinanti di Zaboitzeff, l’elemento portante dell’opera. Forti i richiami agli Henry Cow o agli Univers Zero, così come ai “momenti folli” dei Magma, dei Can o di Frank Zappa.
L’album si apre con la suite Symphonie pour le jour où brûleront les cités e i suoi tre movimenti. Il primo di essi è Brigades spéciales. Dopo un avvio “selvaggio”, con la voce indemoniata di Zaboitzeff che blatera suoni incomprensibili su archi e tromba che lo assecondano, assistiamo a continui cambi di rotta che disorientano l’ascoltatore. A stati di quiete, con archi solitari e malinconici, si alternano stati confusionari, con ottoni, archi, piano e basso che creano intrecci inquieti e indissolubili. In alcuni punti sembra di scorgere un’anticipazione di quello che faranno di lì a poco gli Univers Zero nell’album “1313”. Il secondo movimento, Masques, è contraddistinto dal lungo segmento pacato iniziale, con i suoi sprazzi di vitalità, dovuti agli inserti di ottone ed archi, che vanno a minare quella calma apparente. A metà brano sale l’angoscia a causa di vocalizzi tetri e sottofondo in linea con essi, prima del culmine tensivo dei minuti finali, una sorta di Henry Cow più oscuri. Il terzo ed ultimo movimento, Simulacres, apre il lato B dell’album. È la tromba invasata di Soarez la protagonista dei secondi iniziali, prima che sia affiancata dagli archi e dal piano dal tono non certo rassicurante. I minuti centrali creano una suspense cinematografica, sembra quasi che da un momento all’altro qualcuno debba coglierci di sorpresa alle spalle. Gli ultimi minuti del brano sono tra quelli più “ortodossi” dell’intero album. Sono sax, violini, basso e piano coloro che provano (e riescono) a mettere su una specie di “melodia” cupa, un po’ alla Magma.
La seconda suite dell’album, Deux images de la cité imbécile, prevede due movimenti. Les fourmis (il primo movimento) è il brano più vivace dell’opera. Soprattutto la prima parte è quella più esuberante, con i ghirigori di violino, basso e tromba. Al minuto e mezzo un attacco di follia vocale alla Ruins di Zaboitzeff lascia spiazzati (sembra quasi che Tatsuya Yoshida sia l’ospite imprevisto del brano). Il brano poi prosegue il suo viaggio per vie impervie che lasciano lo spazio anche ad Eckert di “sfogarsi” con la sua chitarra distorta. La suite si chiude con Scènes de carnaval. Come successo per il movimento di chiusura della prima suite, anche in questo caso è la sfrontata tromba di Soarez ad aprire le danze. A seguire tutto il gruppo gli dà manforte. Nei quasi nove minuti del brano troviamo sprazzi simil-jazz e momenti romantici, violini ronzanti e chitarre improvvisate. Stupendo l’intreccio tra il basso di Zaboitzeff e il piano della Dallio quasi ai quattro minuti, il frangente più “serio” dell’album. Non potevano mancare gli estranianti interventi vocali i quali vengono centellinati lungo il percorso. Probabilmente è questo il brano più strutturato del disco.
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