HAUTVILLE
Mater Dolorosa (2016)
Autoproduzione
Avevamo lasciato gli Hautville, nel 2013, con l’album “Le Moire” ed eccoli tornare, dopo tre anni, con un nuovo lavoro: Mater Dolorosa. Dopo le dee del destino, il trio formato da Simona Bonavita (voce), Francesco Dinnella (basso e tastiere) e Leonardo Lonigro (chitarra folk ed elettrica) punta tutto sull’archetipo della mater dolorosa: archetipo che esprime un paradosso nella vita della donna […]. La donna che dà la vita è anche destinata a soffrire non solo nel dare la vita al figlio, ma ancora e di più nel sapere che il figlio è destinato a soffrire e morire (testo tratto dall’articolo “Mater Dolorosa archetipo della vita” di Maria Pia Rosati, Psicologa analista e Direttrice della rivista di Psicoantropologia simbolica e tradizioni religiose Átopon).
La lettura sonora degli Hautville prende le mosse direttamente dal lavoro precedente con uno spettro esecutivo e atmosferico che, tenendo fermi quella “oscurità luminosa” menzionata nella precedente analisi e i frequenti rimandi folkeggianti, ne esce notevolmente ampliato grazie anche alla presenza di un nutrito gruppo di ospiti: Arturo Stàlteri (piano), William Matteuzzi (voce), Rebecca Dallolio (violino), Daniela Caschetto (violoncello), Giulio Amico Padula (tromba) e David Bisetti (timpani e percussioni).
La cura dei testi, non semplici corollari ma elementi fondamentali nell’economia dei brani, delle vere e proprie poesie legate tra loro da un sottile filo scuro e “indossate” perfettamente dalla “voce di cristallo” di Simona, a tratti una Jacqui McShee (Pentangle), rende il quadro ancor più affascinante.
Gli Hautville hanno la straordinaria capacità di riuscire a dilatare il tempo: un brano può durare un minuto o dieci, difficilmente chi ascolta riesce ad “orientarsi” restando “imbrigliato” piacevolmente nelle spire del trio (più ospiti).
Davvero azzeccato anche l’artwork di Roberto Sivilia e Mirko Lucchini, con i dipinti di quest’ultimo, “L’antica città di YS” (in copertina) e “Il frutto del più antico degli alberi” (all’interno del libretto), che illustrano ottimamente il clima atemporale creato dal gruppo.
Dis pater. È subito poesia per il brano d’apertura dedicato alla divinità latina del mondo sotterraneo e alle sue ricchezze (nominata anche Dite), con l’ordito dalle tinte folk creato da chitarra, violino e batteria, e quel velo chiaroscuro già apprezzato nel precedente lavoro. Poi la voce carezzevole e magnetica di Simona Bonavita ci conduce in un luogo senza tempo e spazio. È tutto “non invadente”, anche i momenti in cui gli Hautville spingono di più. Il marchio di fabbrica della loro musica idilliaca. Per il testo, qui e oltre, vale quanto detto sopra: Lampo dal cielo risplende una nuova realtà / fiorisce il pianto di città / fra terra e cielo il serpente divora le età / brucia in silenzio l’anima / Nasce la storia e conati di gloria / crescon le attese di braccia protese / verso il dio degli schiavi / che potere non ha […].
Toni più malinconici per Artemide (si rimane sempre in ambito mitologico con la dea della caccia e degli animali). Gli archi permeano sottopelle, mentre la chitarra di Lonigro si fa ipnotica e la Bonavita diviene sempre più eterea. Dal fondo un suono risale / di forze oscure che di vivo / hanno solo il livore di belve assetate / Con il mio sguardo sereno / e il silenzio di un Re che sa il suo destino / Non si arrende mai / Ora sono Artemide / Infine è giunto il momento / dell’assedio di ignari dei segni del tempo / prediche ai fantasmi / bandiere e veleni. Anche con l’ingresso delle ritmiche l’atmosfera non muta e resta ben salda nelle mani degli strumenti a corda. Coda sontuosa e sinfonica.
Più audace Pietà e costanza. Dopo un avvio hautvilliano, è un crescendo, chitarra e voce si fanno sempre più intensi sino alla “deflagrazione composta” guidata dalle pelli di Bisetti. C’è spazio anche per una chitarra distorta e frangenti inquieti e cupi con il violoncello “cattivo” (quasi alla Apocalyptica!) che s’intreccia magicamente con i vocalizzi di Simona. […] Nubi di resa iniettate di pianto / Nuovo disincanto, sangue mal donato / uomo limitato dall’eternità / Un taglio delicato / chiude pienamente la via della pietà / Un passo preparato / meravigliato dalla linearità / un patto comandato / cancellato dal tempo […].
Un frammento narrato in francese introduce Le ombre. Ecco poi un nuovo affresco esteriormente minimalista, a tratti alla Mauro Pelosi, dai passaggi folkeggianti che lasciano immaginare oasi di pace, con Dinnella, Lonigro e gli ospiti che intessono una trama “favolistica” sulla quale Simona Bonavita può far volteggiare la sua vocalità.
Spazio al lirismo più puro con Mater dolorosa. Sull’esecuzione al piano da brividi di Arturo Stàlteri, assistiamo ad un cambio al vertice vocale: tocca a William Matteuzzi e alla sua voce tenorile donare poesia al brano, riuscendoci. Anche il rullante marziale di Bisetti riesce ad aggiungere un’ulteriore pennellata della giusta tonalità al quadro, così come il violoncello di Caschetto. E nelle parole ecco rivivere l’immagine “ambivalente” della madre: Luce tra i fiori la sua dolcezza / viene dai Numi la sua bellezza / Scende il suo cuore dove fiorisce la rosa / e negli occhi l’amore / Fiume d’argento, impeto e forza / stretto tra i seni / dolore riposa. Episodio da brividi.
Riprende il cammino guidato da Simona con l’ariosa La sposa. Ed è un altro quieto paesaggio quello descritto musicalmente dagli Hautville, con la chitarra di Lonigro dal tocco mediterraneo e il “mesto” violino di Dallolio che s’intrecciano pacatamente (con brevi sprazzi irrequieti) e su cui s’adagia l’“incorporea” voce. C’è spazio anche per un dolce intermezzo francese tratto da “La parole obscure du paysage intériur” di Julius Evola.
Un lieve velo malinconico avviluppa Per non sentire niente. Solito ottimo lavoro di ricamo della chitarra mentre la voce si muove agilmente sul tappeto d’archi. […] Mente che inseta preghiere per dominare / la condizione ordinaria del corpo animale / Si nasconde al mondo la chiave / di ogni magia che Eroi soli vanno a cercare / L’Oro si fonde nel Sole per poi ricadere / come rapiti crediamo di essere noi / in un gioco di illusioni / di possibilità tra vespri cantati e avversioni. Poi un primo assaggio della solenne tromba di Giulio Amico Padula dona un tono leggermente diverso all’episodio, prima che la stessa guidi tutti verso l’esplosione “western”.
Il castello. E per chiudere spazio al piano di Stàlteri: è lui a tracciare un percorso particolare e imprevedibile, ben assecondato da Lonigro e Bonavita. Come sempre tutto molto suggestivo e carezzevole. Il capitolo finale perfetto per un’opera delicata e coinvolgente.
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