Ifsounds – An Gorta Mór

IFSOUNDS

An Gorta Mór (2018)

Melodic Revolution Records

 

Li avevamo lasciati nel 2015 con “Reset”, un vero e proprio “riavvio” per la band molisana, e nel 2018 li ritroviamo, più agguerriti che mai, con An Gorta Mór.

Con una consolidata formazione a cinque, che vede Runal (voce), Fabio De Libertis (basso), Dario Lastella (chitarre, tastiere, cori), Lino Mesina (batteria) e Claudio Lapenna (piano, tastiere, cori), gli ifsounds sfornano quello che è forse il prodotto più ambizioso e maturo nella storia della band, un concept album che si sviluppa sul tema della fuga dal dolore, sia essa una guerra, una famiglia “sbagliata” o violenta, la disperazione, la fame. Ed è proprio a queste ultime due tematiche che è dedicato il titolo (e la suite finale) dell’album, An Gorta Mór, la “grande carestia” che colpì l’Irlanda nella metà del XIX secolo causandone la morte per denutrizione e l’emigrazione di circa un terzo degli abitanti.

An Gorta Mór è uno scrigno che racchiude un vortice di emozioni, un percorso in cui i suoni costantemente mutevoli del quintetto, che spaziano dall’hard rock al prog passando per momenti folk e romantici, si fondono alla perfezione con i testi scritti da Lastella e Lapenna (quest’ultimo coautore del brano d’apertura), in cui si tocca quasi con mano la disperazione e il dolore dei protagonisti, e interpretati dalla straordinaria voce di Runal, una garanzia. A dar man forte alla band troviamo anche una serie di ospiti: Lino Giugliano (tastiere e organo in ReptilariumThe Great Famine e Doolough Lake), Alessandra Santovito  (voce in Regina Oceani), Francesco Forgione (bhodrán in The Docks of Limerick), Vincenzo Cervelli (voce in The Docks of Limerick, cori in Ghosts in America), Matteo Colombo (violino in Emerald Island e The Docks of Limerick e Marco Grossi (cori in Ghosts in America).

E ancora una volta la lettura grafica dell’opera è affidata a Fabienne Di Girolamo. Nella cover di An Gorta Mór c’è tutto il dramma irlandese, la morte che viene dai campi, con quelle mani scheletriche che spuntano dal terreno in sostituzione delle piante di patate, e le strade che conducono ad un’illusoria salvezza, nella propria terra madre o per mare (con quella coffin ship che abbandona le alte scogliere).

Si parte con Mediterranean Floor. Dopo esser stati accolti da quella che sembra una preghiera araba filtrata, prende il via un turbinio ruvido e pungente in cui, soprattutto Runal, Lastella e le ritmiche, omaggiano, o quasi, i Motorhead di “Ace of spades”. Poi il brano si sviluppa tra “vuoti” e “pieni”, con la vocalità camaleontica di Runal protagonista indiscussa in un paesaggio alla Lou Reed, ammantata dai ricami chitarristici di Lastella e i tappeti soffici di Lapenna. E nelle parole scritte da Lastella e Lapenna rivive il dramma di chi è in lotta perenne per la sopravvivenza, di chi cerca di sfuggire alla morte dovuta alla guerra, alla fame, al deserto, ad un viaggio in mare in cerca di un mondo migliore sulle coste di quello che, forse, è davvero un mondo migliore: Tongues of fire licked away my home / Roars of guns smashed down the doors / Run, my little boy, never look back / Run, my brave boy, with your broken leg […] / Our life is a lie, but I finally know the truth / Death, how many people are dying around me now? […].

Vivacissimo ed articolato il substrato sonoro iniziale della breve Techno Guru, con le pelli di Mesina dinamicissime. Tutti sono operosi e partecipi della festa colorata che poi sfuma per condensarsi in un’andatura “zoppicante” e fuori dagli schemi, un po’ alla Henry Cow. Runal, come sempre a suo agio, riporta, infine, tutti sulla giusta via mentre il suo canto ci mostra uno dei lati oscuri della tecnologia contemporanea, quella dei guru digitali che promettono fantastici guadagni su internet per sfuggire a un quotidiano fatto di disoccupazione o di occupazione degradante.

Tempo di ballad con Violet, un niveo viaggio (superficialmente) a due, voce/chitarra classica, un intreccio soffice e carezzevole ben supportato dalla coppia ritmica e dai cori. Come già in “Reset”, con il brano “Laura”, gli ifsounds dimostrano ancora una volta di poter “accantonare” per un attimo le “armi” e affrontare un discorso sonoro che fa della melodia e della tenerezza gli elementi vincenti, nonostante il testo affronti la prigionia famigliare di una ragazza, quel vivere una vita imposta dai genitori e quella voglia di fuggire via ([…] Violet be a good girl! / Runa way from here! / Violet be a good girl! / Run to your windmills / Violet be a good girl! / Don’t get old before you grow / Violet be a good girl! / Start to grow before you get old). E sul finire il tocco acustico e mediterraneo di Lastella pone il giusto sigillo.

Please, please, stop running baby now! / Tears, dry your tears on your gruesome shiner / Weak, baby, baby don’t desert me now! / Fear, don’t be scared, sometimes I lose control […] / Lips, I want to taste your blood on your lips / Freeze! Don’t move baby! Now you’re mine!. È la violenza domestica il tema che rivive in modo diretto e crudo in Reptilarium, nelle parole di Lastella, mentre, sul fronte musicale tornano le asperità sonore con un affascinante tuffo negli anni ‘70, tra distorsioni hard rock, andature tirate, le policrome tastiere e l’hammond dell’ospite Lino Giuliano e quella voce intensa e ruvida di Runal che può tenere la scena anche in solitaria. Nei minuti finali una strana sensazione lisergica ed alienante, ma ricca di struttura, supporta l’unico frammento cantato in italiano: […] Io apro la pelle con i denti affilati / io sento il sapore del sangue, / non posso fermare la forza violenta / che nasce da quel difetto lontano / che striscia feroce sulle nostre coscienze.

In coda gli ifsounds posizionano la lunga suite An Gorta Mór. Il primo movimento è Emerald Island, tenera ballata dalle tinte folk, un limpido flusso fatto di chitarre pizzicate delicatamente, tenui suoni di piano, il romantico violino dell’ospite Matteo Colombo e il dolce canto di Runal, con quella sua tipica ruvidità che dona fascino al tutto, in una sorta di miscela tra Fabrizio De Andrè, Leonard Cohen di “Hallelujah” e Le Orme di “Gioco di bimba”.  La poesia è infranta ben presto dalla strumentale e magmatica Phytophthora infestans (una delle maggiori cause della carestia irlandese, il microrganismo che ha colpito le patate distruggendone i raccolti): è il caos che si abbatte sui meravigliosi paesaggi narrati in precedenza (Emerald Island, Glendalough, Cliffs of Moher, Glenveagh Castle ed altri ancora). La tristezza s’impossessa di Bridget O’Donnell. Struggente il cammino unitario di chitarra e voce ([…] I was lying in a cabin, / when I had my child born dead / All my family got the fever, / when my son died, he was thirteen) e il seguente assolo dello stesso Lastella, con i suoni centellinati dei tasti di Lapenna e i successivi inserimenti di De Libertis e Mesina a completare il quadro. Balzo in avanti con l’elettrizzante The Great Famine, una miscela dal gusto a tratti retrò (con sentori di The Doors, Iron Butterfly e Van Der Graaf Generator), con un massiccio utilizzo di chitarre e caratterizzata dagli ottimi interventi tastieristici di Giugliano. […] Your rotten fruits / are poison for your sons, / through your putrid roots / you’re spreading, you’re swelling an gorta mór!: la grande carestia è definitivamente arrivata. Il lavoro grintoso e possente iniziato con il movimento precedente prosegue con Doolough Lake portandosi verso rive hard rock, con la coppia ritmica che corre senza sosta e Lastella, Runal e Giugliano che tengono il passo senza patemi, mentre il vocalist narra di una tragica migrazione interna, da Louisburgh a Doolough Lake, in cui centinaia di persone in cerca di cibo vedono negata ogni possibilità di salvezza trovando la morte (quest’ultima immagine magistralmente e drammaticamente restituita dall’accoppiata piano/voce). D’un tratto si salta direttamente in pieno folklore irlandese, con la briosa The Docks of Limerick. Sembra davvero di essere in una delle tipiche locande della verde Irlanda, tra ubriachi canterini, musica live e danzatori, grazie al caratteristico lavoro “irish” di Francesco Forgione con il suo bhodrán e di Matteo Colombo al violino. Nelle parole del protagonista, un marinaio (in realtà un trafficante di esseri umani, interpretato dall’ospite Vincenzo Cervelli), emerge il lato più maledettamente terreno e materialista dell’uomo: I made some good business, good deals on the dock of Limerick / I am just a sailor, I ship some goods from Limerick / The heaviest is the cargo, the richest is the sailor you see. La merce trasportata è umana: la migrazione oltreoceano può iniziare. Regina Oceani (la regina dei mari che accoglie migliaia di vite umane) è affidata quasi esclusivamente alla calda e avviluppante voce di Alessandra Santovito, alla sua teatralità alla Donella Del Monaco, e ai suoni eterei che l’avvolgono. Quella che segue è la sontuosa cavalcata prog strumentale Long cónra (lunga bara), prima di terminare con Ghosts in America. L’episodio finale è una sorta di chiusura del cerchio, una ballata dalle tinte soft che richiama in parte l’idea di base del movimento d’apertura, interrotta solo dallo sciabordio delle onde e dal sofferente organo che raffigurano tutto il dolore di quelle vite spezzate in mare: That coffin ship moving slowly / to the Gross Isle, the door to Canada / No more sounds on the vessel, / no more voices, no more grief / Ghost are sailing to America / starving prisoners of the sea […]. Si chiude così il tragico viaggio di migliaia di persone che hanno tentato di sfuggire alla disperazione, alla carestia e alla morte nella propria terra natia cercando riparo e conforto sull’altra sponda dell’Atlantico, molto spesso invano.

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