Hypnerotomàchia (2014)
Autoproduzione
Hypnerotomàchia rappresenta l’esordio discografico degli Inior, progetto nato dalle menti di Marco Berlenghini (chitarre, tastiere, basso, batteria elettronica, voce) e Flavio Stazi (voce), già insieme nella prog band romana Apple Device.
Letteralmente “combattimento amoroso onirico” (dal greco), Hypnerotomàchia è un concept album in cui si narra il Viaggio di un uomo dalla disgregazione delle apparenze della civiltà contemporanea verso se stesso. Sono i testi in inglese interpretati da Flavio Stazi ad accompagnarci lungo il cammino: Dopo un’invocazione ad una Ninfa del fiume ed una danza propiziatoria, il viaggio inizia con un enorme labirinto di pietra che ti schiaccia verso il basso. Nessuno può salvarti dalla crudeltà delle abitudini e dalla tragedia del non riuscire ad abbracciare nessuno se non se stessi. Ma, al di sopra della tua testa, accade qualcosa: due colori si incontrano e creano un arcobaleno e, durante il sonno, l’ombra di quell’arcobaleno ti mostra la strada verso l’alto. E poi specchi, spasmi, salti, comprensione, morte, semi ed un fiore appena sbocciato che intona una canzone di leggerezza e di libertà.
In questo viaggio onirico, fatto di paesaggi mutevoli, ricchi frangenti molto “solidi” e momenti più “riflessivi”, Berlenghini e Stazi hanno condiviso il lavoro di registrazione con Daniele Pomo delle RanestRane alla batteria, Stefano Marzioni alla chitarra (nei brani Starslave e Resilient) e Domenico Dante al basso (in The Paper Ship e Mu.S.E.), entrambi già negli Apple Device.
Sia il titolo dell’album sia la cover conducono, chi si sofferma attentamente ad osservare (prima di ascoltare) il lavoro degli Inior, indietro nei secoli: il primo al più famoso “combattimento”, quello dell’Hypnerotomachia Poliphili attribuito a Francesco Colonna e pubblicato nel 1499, un romanzo allegorico che narra del viaggio iniziatico compiuto da Polifilo (“Colui che ama la Moltitudine”, in greco) alla ricerca della donna amata Polia (“Moltitudine”, in greco); il secondo alla seicentesca rappresentazione grafica del Gabinetto delle curiosità di Ole Worm. Fenomeno molto diffuso tra ‘500 e ‘700, quello delle Wunderkammer, trova nel frontespizio del libro Musei Wormiani Historia del collezionista e studioso danese Ole Worm, una delle sue manifestazioni più conosciute ed è ad esso che l’artwork di Diego Zura Puntaroni si rifà, ricostruendo quasi fedelmente, a colori, la camera wormiana, rendendo evanescenti alcuni degli oggetti e modificando l’iscrizione al centro del pavimento. All’interno del booklet, inoltre, ogni brano è accompagnato da una particolare “meraviglia” tratta dal gabinetto.
L’album si apre con The Paper Ship. L’intro è affidato inizialmente alle soluzioni indie/alternative della chitarra di Berlenghini (soprattutto i primi secondi sembrano una combinazione tra Afterhours e Timoria), poi lo stesso, coadiuvato dalla sezione ritmica, lascia emergere in parte anche la tastiera che, a stretto contatto con un nuovo tracciato di chitarra, crea un’atmosfera ariosa che proietta l’ascoltatore nel mondo di “The Snow Goose” dei Camel (o della rivisitazione degli italiani Magnetic Sound Machine di “Inspired by…Magnetic Sound Machine plays The Snow Goose”). Con l’ingresso della voce di Stazi, nella seconda parte del brano, il clima si fa un po’ più teso, prima di esplodere nel corposo finale.
Nella strumentale Mu.S.E. (Music and Subtle Ensemble), a farla da padrone sono dapprima i vorticosi intrecci acustici di Berlenghini, poi la secca batteria di Pomo imprime un ritmo deciso su cui lo stesso Berlenghini può lasciarsi andare con tastiere e chitarra distorta, prima di “adagiarsi” nel finale.
Episodio più oscuro la lunga Stain of Steel. È Berlenghini che, in triplice veste (chitarrista, tastierista e bassista), crea il primo ordito hard-orientalizzante. Tocca a Daniele Pomo in seguito spingere sull’acceleratore, trascinando con sé lo stesso polistrumentista verso territori che si muovono tra Rush e Smashing Pumpkins (per le “assonanze” con i secondi ci mette del suo anche Stazi con il suo timbro che a tratti ricorda quello di Billy Corgan). Un riffone sabbathiano introduce poi il secondo intervento vocale dello stesso Stazi, prima che il duo Berlenghini/Pomo si spinga in territori decisamente metal. Un’alternanza che si estenderà sino alla fine del brano, fatto salvo il ritorno della tastiera.
Un’aria più trasognata, alla Radiohead, si respira in Worn-Out, costruita dal duo Berlenghini/Stazi. Al primo è affidata la completa sezione strumentale, dalle ben scandite ritmiche ai vari affreschi chitarristici, al secondo, ovviamente, la parte vocale (i vocalizzi dopo i due minuti sono “spudoratamente” di Thom Yorke!).
Con From Blue to Red è d’obbligo partire dal lavoro di Daniele Pomo: i suoi continui ribaltamenti ritmici non lasciano un attimo di tregua tenendo “sull’attenti” sia i compagni sia chi ascolta. A seguirlo come un’ombra troviamo le atmosfere cangianti (dal caldo e avvolgente inizio alle sferzate ruvide disseminate lungo tutto il percorso) di tastiere e chitarre affidate al solito Marco Berlenghini. Il canto, in questo caso diviso tra Stazi e Berlenghini, viaggia su un doppio canale che si muova tra richiami a Billy Corgan e James LaBrie.
Molto morbida e avvolgente Starslave (nonostante la “non-linearità” di Pomo), brano in cui le tessiture chitarristiche sono affidate a Stefano Marzioni, mentre Berlenghini si “concentra” su tastiere e basso. Il canto di Stazi è un tassello importante nel rafforzare il clima di fondo (interessante il “filtro psichedelico” utilizzato sul finire).
Pausa per Stazi e Pomo in Resilient. I soli protagonisti sono l’ipnotica chitarra di Marzioni e Berlenghini con la sua voce vellutata e i suoi tappeti eterei che nel finale si vivacizzano.
Gli elementi conduttori di INI.OR sono le spinte sonore aggressive fatte di chitarre prepotenti e batteria “spiritata” che in parte richiamano alcune caratteristiche de L’Ira del Baccano. Queste concedono un “armistizio” solo nella prima parte per lasciare spazio a Stazi, sostenuto da un sottofondo quasi sussurrato antitetico all’anima del brano.
Dust. È inizialmente tenero il commiato di Hypnerotomàchia, con il dolce tocco “bianco/nero” delle dita di Berlenghini a segnare la strada. Un cambio netto si ha a metà brano, momento in cui gli Inior decidono di “svoltare” verso lidi più luminosi e rapidi guidati dal dinamico canto di Stazi e arricchito dai volteggi tastieristici del solito Berlenghini.
Un’opera prima multiforme, ben interpretata e con diversi spunti interessanti. Attendiamo con piacere l’evoluzione del progetto verso il secondo album.
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