Beast, Machine & Man (2015)
Musea
Terzo lavoro in studio per i finlandesi Khatsaturjan. Dopo aver realizzato le prime due opere in quartetto, in Beast, Machine & Man c’è da registrare l’assenza di Jaakko Koikkalainen. Sono, dunque, Atte Kurri (voce, chitarre, tastiere, basso e autore dei testi), Ilkka Piispala (voce, batteria, tastiere, basso in American 33) e Ilkka Saarikivi (voce, tastiere, violoncello e autore dell’artwork), coadiuvati da Matti Muraja (basso, violino), a dare corpo e sostanza al nuovo album attraverso una lunga gestazione (registrazione e missaggio si sono prolungati dal 2011 al 2014).
Non un lavoro semplice e lineare Beast, Machine & Man. Tutt’altro. Negli oltre sessanta minuti di musica i Khatsaturjan attingono a piene mani dalla propria “gerla creativa” proponendo un lavoro eclettico e policromo, caratterizzato da interessanti tessiture di tastiere, particolari giochi vocali (anche se, probabilmente, non tutti i timbri vocali presenti riescono ad “indossare” al meglio i brani), tracce di sinfonismo, “divertissements” che si snodano dal jazz al prog metal. La band attraversa i decenni “chiamando a sé”, tra gli altri, Yes e Genesis, Marillion e IQ, sino ai più recenti The Flower Kings, Moon Safari o The Samurai of Prog.
Il compito di aprire Beast, Machine & Man è affidato a Suite Phobia Utopia, brano caleidoscopico in cui i Khatsaturjan mettono sul piatto sin da subito la propria caratteristica principale: l’ecletticità. Il prodotto è una miscela di atmosfere e “richiami” che passano dalla voce filtrata alla Trent Reznor, agli stati evocativi e avviluppanti alla Annot Rhül di “Leviathan”, dai frammenti genesisiani a inserti più duri, funkeggianti e tendenti al jazz. Una dimostrazione di forza notevole.
Dopo un avvio del genere ecco la prosecuzione che non t’aspetti: con Wrong Kinda Socks i Khatsaturjan fanno un salto verso sonorità “spensierate” e rapide, un po’ surf rock, un po’ primi Van Halen.
Nuova drastica mutazione con My Canon, My Way of Life. Il clima solenne iniziale creato da piano e voce è una via di mezzo tra “Confessione d’un amante” de Il Bacio della Medusa e “High Hopes” dei Pink Floyd. L’intervento seguente di Saarikivi al violoncello accentua l’emozione di fondo. Poi il brano s’illumina e batteria e chitarra stravolgono il tutto, ma per poco. Ha poi inizio un nuovo brano che, tra marcette, frangenti aggressivi, momenti alla Genesis, “ritorni all’origine” e “vacuità”, corre verso la conclusione.
La lunga In Pursuit of a Haunting Singalong si apre con una crescente stratificazione di piano, tastiera, batteria e chitarra di stampo neoprog. Poi l’atmosfera diventa solare, con scambi vocali cangianti ben armonizzati al sostrato musicale. Il brano cresce in solennità con i giochi di archi e piano e i morbidi vocalizzi del trio Piispala/Kurri/Saarikivi, prima di chiudere corposamente con un lungo frammento spinto in cui la parte del leone è equamente divisa tra le ritmiche di Piispala, i volteggi chitarristici di Kurri e le tastiere eighties si Saarikivi.
Sono le chitarre di Kurri a dominare in larga parte nell’episodio Domain of Love. Nei primi minuti (e poi anche più in là), il chitarrista ci mostra il suo lato più “classico”, poi quello più easy. Il brano si anima quando tastiere, voce, batteria e chitarra distorta imprimono un tocco alla Marillion, mentre sul finire è un alternarsi di sinfonismo e funky.
E c’è anche il momento romantico/malinconico nella vellutata apertura di Beast, Machine & Man, una sensazione che persiste per buona parte del brano, anche quando, poco dopo, ad esempio, il posto del piano è preso da tastiere, batteria, chitarra e sovrapposizioni vocali. La carica “drammatica” cresce in quelli che a tutti gli effetti sono i refrains: In second sight and in science / The tree of life’s a reliance / We crave a total control/ In the footing of body and soul.
E con la sfaccettata American 33 i Khatsaturjan, tra delicati fraseggi d’archi e volteggi elettronici, fanno anche un piccolo salto nel mondo prog metal (vedi cavalcate di batteria e chitarra alla Dream Theather). Ovviamente il brano non è tutto qui. La band ormai ci ha abituati a vari “cambi d’abito” e lungo i quasi otto minuti troviamo anche, ad esempio, soffici momenti di piano, basso e voce (sulla scia dell’apertura dell’episodio precedente).
St. Angelus. Nei suoi primi minuti (e anche oltre) passiamo rapidamente da Peter Gabriel agli Yes, per giungere poi al limitare del prog metal. Come spesso accaduto, però, dai Khatsaturjan tocca attendersi sempre di tutto. Non a caso, la parte centrale, è lasciata dapprima ad un lento fluire jazzato, in cui è soprattutto il basso a prendersi un po’ di spazio, poi ad un segmento cantato pienamente “ottantiano”. E su questa “altalena” scorrono senza sosta gli oltre otto minuti del penultimo capitolo di Beast, Machine & Man.
Molto luminoso The Actor, brano che chiude il disco. È la chitarra acustica di Kurri a far da supporto al canto, introdotto dagli indicativi versi “Life is a form of art, call it comedy / You take the right role and learn to play your part”. Più intensità la si coglie quando s’inseriscono le altre voci, con la corposità sonora che le accompagna. Una piacevole conclusione per un album stimolante e ben costruito.
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