Between Myth and Absence (2015)
Dodicilune
Dopo tre album realizzati in solo, per Lorenzo Monni (chitarre, voce ed effetti) è giunto il momento di “aprirsi” ad una band. Ecco allora i Leptons: a loro il compito di rendere “concreto” il nuovo lavoro scritto dallo stesso Monni.
Il risultato è Between Myth and Absence, un album che presenta due tipi di brani, da una parte i “miti” e dall’altra le “assenze”. Il riferimento dei miti alla mitologia non sta tanto nel tipo di racconto quanto piuttosto nella differenza sostanziale rispetto all’altra tipologia di brani, per il modo in cui sono stati “lavorati”, inoltre, l’opera presenta una struttura piramidale sia per quanto riguarda la musica che i testi, il primo brano, quello in mezzo e l’ultimo sono i brani che danno voce ai vinti (Lorenzo Monni).
Pochi i punti fermi della parte “mitologica” dell’album: Monti lascia fluire tutta la sua creatività sperimentando con i suoni e con la voce, trovando in Alessandro Grasso (basso) e Paolo Gravante (batteria) degli ottimi compagni di viaggio capaci di “assecondarlo” totalmente nella realizzazione delle eterogenee istantanee (principalmente) acustiche di Between Myth and Absence. Gran valore è dato ai testi e al canto, quest’ultimo modulato rispettando sempre la musica e “vestendola” al meglio.
La parte “assente”, invece, è costituita da frammenti, idee musicali solamente abbozzate ed estrapolate da una loop station (in alcuni casi poi riprese nei “miti”). Qui rintracciamo l’essenza della mente creativa di Monni.
E se qualcuno volesse etichettare la musica dei Leptons può di certo accontentarsi della definizione che gli stessi si attribuiscono sulla propria pagina Facebook: Art Pop & Unpredictability. Soprattutto il secondo termine, “imprevedibilità”, traccia la fisionomia migliore del gruppo.
L’ultimo tassello su cui porre l’accento, anch’esso rilevante nell’economia del lavoro, è l’artwork ermetico e un po’ magrittiano creato da Gabriele Brombin: l’ardua chiave di lettura visiva dell’album.
Ad aprire Between Myth and Absence troviamo Back to Oblivion, l’ultimo brano composto da Monni per il disco. L’avvio è un lungo intreccio di chitarre classiche, acustiche ed elettriche che cresce d’intensità col trascorrere dei secondi e con l’entrata in scena di basso e batteria. Questa struttura velatamente mediterranea poi muta grazie alle “irregolarità” delle chitarre e del duo ritmico e all’ingresso della voce dello stesso Monni impreziosita da intriganti stratificazioni vocali alla New Trolls. Il testo parla dei vinti della società dandogli direttamente voce, in un’invocazione alla morte e al riposo lontano dalle sofferenze della vita (Lorenzo Monni).
Absence I. La prima breve “assenza” dell’album è un frammento estraniante che viene fuori un po’ per volta lasciando emergere, tra le righe, una melodia fresca e gradevole.
Con Instrument Men si celebra la fiducia nei dati e nelle loro analisi che, grazie all’informatica, possono penetrare qualsiasi aspetto della vita divenendo l’unica parola che conta al di sopra di ogni convinzione, cultura e fede. Musicalmente sembra di essere immersi in un fiume di suoni che si muove tra Rolling Stones e Jeff Buckley. L’aria è calda e vivace, le chitarre tessono un nuovo stimolante ordito acustico/distorto, seguite a ruota dal dinamico basso di Grasso e dalla batteria a tratti tribale di Gravante, giungendo improvvisamente al finale “acquoso”ed ipnotico.
Absence II è un “esercizio virtuoso” alla chitarra di Monni, morbido e avvolgente, che emerge tra le note di una seconda chitarra ciclica in sottofondo.
Labirintica la prima parte di The King inside of me, con le chitarre vorticose di Monni, puntellate dai colpi delle ritmiche, che disegnano un quadro un po’ “sinistro” su cui si dispiega il canto-parlato, tra l’ironico e il folle, dello stesso Monni che parla a nome di un gruppo di governatori mondiali riuniti per decidere le sorti del mondo. Poco oltre i due minuti il brano prende il “largo” grazie a un frammento dalle tinte acustico-folk-tribali (con qualche piccolo rimando ai Delirium di “Dolce Acqua”), prima di “stemperarsi” tra le mani di Monni e Grasso.
Absence III. La terza “assenza” è una scheggia pungente e acida arricchita da percussioni sintetiche.
Simpatica è luminosa (almeno per buona parte della sua lunghezza) Beware. È il basso di Grasso a dare il via al brano. Le solite chitarre caleidoscopiche di Monni e la batteria “anomala” di Gravante rispondono, ovviamente, “presente”. Il testo di Monni, in questo episodio, parla direttamente ad una canzone, “Hey Jude” dei Beatles, dicendole di stare attenta ai vari pericoli che la storia musicale rappresenta per le canzoni come lei, prima che le tenebre (sintetiche) avviluppino il tutto.
Forse il brano più delicato di Between Myth and Absence, In my Hutch concede largo spazio ai ricami acustici “stile PFM” (soprattutto nella seconda parte), con brevi cavalcate “western” (con tanto di cori morriconiani) e un canto che si muove tra The Velvet Underground e Bob Dylan. Solo negli ultimi trenta secondi c’è una sorta di “risveglio” del trio. Il testo narra di un venticinquenne che non studia, non lavora ma si dedica con sofferenza ai suoi sogni rimanendo trincerato nella sua cameretta.
E con la tenera e abbastanza lineare Silent si giunge sulla soglia del new romantic (l’andatura, i suoni, la voce di Monni e l’atmosfera “melliflua” che ne scaturisce sembrano quasi provenire da un album degli Spandau Ballet!). In alcuni punti dei suoni oscuri cercano di sviare il cammino. Il clima di stallo che si respira è quello di un gruppo di lavoratori che non riesce a dialogare e si fa trascinare nella quieta routine di un lavoro di una piattezza che nessuno, con un po’ di coraggio o organizzazione collettiva, avrebbe il coraggio di accettare.
Absence IV, un brano che ricorda l’immagine e le movenze di un bruco che si muove su una foglia, sembra quasi un “capriccio” alla The Residents, con delle chitarre “alienate” che s’incontrano e si scontrano sulla stessa strada.
I Leptons diventano sempre più disinvolti con la guizzante Sharathon. È l’incessante e acuminato “battere” delle chitarre di Monni il filo conduttore sonoro del brano, cui si adeguano le ritmiche del duo Grasso/Gravante. Su di loro, la voce, rinforzata qui e là da giochi vocali quasi beatlesiani, narra di un personaggio che vuole mostrarsi in tutte le possibili caratteristiche umane positive, anche se alcune risultano incoerenti tra loro.
Piuttosto solenne Absence V, frammento in cui sembra di ascoltare, in sottofondo, un organo da chiesa che funge da base al soliloquio di strumenti a fiato sardi leggermente “alterati”.
Molto accogliente e romantico l’avvio di Mr Hurtsman, prima che le chitarre distorte, lasciando in stand by le ritmiche quasi sino alla fine dell’episodio, mutino la configurazione del brano rendendola un po’ più acida, con la voce di Monni che si lascia andare ad un canto “pazzoide” in cui parla di un uomo che pensava di poter controllare il rapporto con la moglie con le stesse regole con cui opera dalla sua postazione di controllo a lavoro.
Absence VI è, come detto da Monni, il pezzo embrionale che ha dato vita all’arrangiamento di Mr Hurtsman. Nelle sue poche note si può già ben percepire l’atmosfera iniziale di Mr Hurtsman, privata della sezione ritmica.
Ancor più romantico e appassionato, rispetto ai due precedenti brani, è l’intro di Leptons in Love, commiato di Between Myth and Absence. Le mani di Monni sulla chitarra acustica stillano dolcezza, prima che lo stesso ci parli dell’amore come relazione tra particelle elementari, sorretto dai tocchi “minimali” del basso e di due chitarre (una di esse effettata). Questi stessi protagonisti acquistano spigliatezza col trascorrere dei secondi sino a giungere al saluto finale pseudo-sinfonico.
Un’esperienza particolare, da vivere senza indugi.
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