The wood of tales (1990)
Pegaso Records
Il sestetto catanese dei Malibran, nato nel 1987, dopo una lunga serie di concerti (nel 1989 suonano anche a Roma) e dopo aver ricevuto vari apprezzamenti dagli esperti del settore, ritagliandosi il suo spazio nell’ambiente prog che in quella decade vive uno dei periodi più bui, si vede concessa la possibilità di registrare il primo disco. Nasce così The wood of tales. Corre l’anno 1990.
Il disco, stampato esclusivamente su vinile, vende discretamente sia in Italia sia all’estero e riceve consensi unanimi da parte dell’uditorio, sia per la qualità della musica sia per la copertina (raffigura una foresta con in primo piano un personaggio mitologico dormiente, munito di flauto), definita da alcuni critici come una delle migliori degli ultimi anni. Nell’ottobre del 1990 il disco è presentato dal vivo a Roma alla Festa dell’Unità. Pochi mesi dopo la pubblicazione il disco viene ristampato su vinile colorato.
L’album è caratterizzato dalla presenza di quattro lunghe suite e “l’eccezione” Sarabanda che dura solo cinque minuti. Addentrandosi nello specifico del disco si può affermare che i legami col prog “classico” sono molti, su tutti la presenza massiccia del flauto (espliciti i rimandi ai Jethro Tull), magistralmente suonato da Giancarlo Cutuli. Anche le atmosfere sognanti (nelle musiche e nei testi) richiamano molte opere del periodo d’oro.
Passiamo all’analisi del disco. I primi secondi di Malibran, con una campana, l’arpeggio di chitarra e un “rumore” di sottofondo, sembrano quasi un brano dei Goblin preso dalla colonna sonora di uno dei film di Dario Argento. A questo seguono vari cambi di rotta, sempre apprezzabili. Dall’ingresso di chitarra elettrica, passando per le tastiere, il piano e il flauto (tutti abbastanza “cattivi”), fino alla tranquillità che si ha con l’ingresso della voce, sostenuta da un leggero arpeggio. Atmosfera ricca di pathos. L’ultima parte è affidata soprattutto al flauto di Cutuli. Non sarà Ian Anderson, ma si difende bene.
The wood of tales. Tastiera e batteria fanno da apripista per un gioco a due di chitarra arpeggiata e distorta, coadiuvate poi dal flauto. Anche in questo brano sono vari i cambi dei protagonisti musicali (da segnalare soprattutto un guizzo di piano intorno ai due minuti e trenta). Poco dopo i quattro minuti una piccola svolta: un basso “ossessivo” (ricorda un po’ quello di “War” dei Planetarium, anche se poi lo svolgimento di quel brano è completamente diverso dal nostro) fa da base allo “sfogo” della chitarra distorta che ci dona un gran solo. Il finale riprende la sequenza iniziale di doppia chitarra e flauto.
Sarabanda è il brano “diverso” del disco, affidato esclusivamente a chitarra classica e flauto. Un gran senso di pace ci avviluppa nel primo minuto e mezzo grazie al leggero arpeggio della chitarra e al flauto dai tratti leggermente medievali. Poco dopo l’arpeggio diventa molto più vivace, così come il flauto, avvicinandosi ad un’esecuzione di musica classica. Per tutti i restanti minuti del brano i due protagonisti si daranno “battaglia”.
Una tastiera quasi eterea dà il via a Pyramid’s street. Dopo poco più di un minuto e mezzo subentra la chitarra arpeggiata, seguita dal ritorno della voce, illustre assente nei due brani precedenti. Verso la metà del brano c’è una svolta, ci si avvicina ai segmenti più corposi presenti nei primi due brani del disco. Dopo gli otto minuti ritorna la voce.
La dolce melodia realizzata con arpeggio di chitarra e flauto che ci accoglie e ci accompagna per quasi tre minuti, all’inizio di Prelude, è quasi da brividi. Un breve cenno di chitarra distorta e batteria apre la strada all’intensa voce di Giuseppe Scaravilli, intervallata da un ottimo solo di chitarra, ripreso poi all’inizio della seconda parte del brano dove fa compagnia ad una batteria molto viva. Il solo non ci abbandonerà sino alla fine del brano. Ottimo il virtuosismo finale.
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