Uno zingaro di Atlante con un fiore a New York (1973)
RCA
Agli inizi degli anni ’70 una casa discografica come la RCA, una delle più importanti del panorama italico, dopo aver pubblicato per anni dischi di musica leggera (da Modugno a Morandi), decide di aprirsi alle nuove sonorità che stavano giungendo da oltremanica e dare credito a quegli artisti italiani che avevano intrapreso questa nuova strada, ancora buia.
Tra le sue prime pubblicazioni del 1970 troviamo Sirio 2222 dei Balletto di Bronzo e l’album omonimo dei The Trip, poi si arriverà a Il Rovescio della Medaglia, ai Perigeo, all’unico album prog di Riccardo Cocciante (Mu) e altri ancora, sino a giungere al 1973, anno in cui l’RCA accetta una delle sfide più ardue della sua lunga carriera, se non la più ardua: Uno zingaro di Atlante con un fiore a New York dei N.A.D.M.A..
I N.A.D.M.A. affrontano un discorso che a 999 uditori su 1000 risulta incomprensibile. Già sul finire degli anni ’60 Davide Mosconi, Marco Cristofolini, Gustavo Bonora ed Enzo Gardenghi, col nome “Il Quartetto”, cominciano la propria ricerca musicale seguendo i percorsi meno battuti dalla musica a loro contemporanea, avente come minimo comune denominatore improvvisazione e creatività.
Iniziati i ’70 il progetto si amplia e la ricerca si estremizza. Nascono così i N.A.D.M.A. (acronimo di Natural Arkestra Da Maya Alta, il quale, però, abbrevia il vero nome che, come riportato all’interno del vinile, risulta molto più esteso: The Natural Arkestra Of Percussion And Jade Di Marco Cristofolini Da Maya Alta). L’unico a lasciare il progetto è Enzo Gardenghi, mentre a Marco Cristofolini (violino, percussioni), Davide Mosconi (piano) e Gustavo Bonora (violino, percussioni) si aggiungono Marino Vismara (violoncello, voce), Otto Davis Corrado (sax), Giafranco Pardi (sax, tromba), Mino Ceretti (contrabbasso, voce) e Ines Klok (arpa, percussioni, violino). Un gruppo di artisti impegnati non solo in ambito musicale ma anche, per esempio, nelle arti visive, come Pardi e Vismara, o nella fotografia come Mosconi.
L’improvvisazione e la sperimentazione sono alla base dell’unico lavoro in studio, ossia Uno zingaro di Atlante con un fiore a New York. È l’utilizzo estremo degli strumenti (fiati e archi su tutti) l’elemento di punta dell’opera, spesso una sorta di “chiasso infernale” che disorienta l’ascoltatore, ma abbiamo anche momenti “siprituali” come in Chant e atmosfere molto più dilatate come nel brano finale. Alcune sonorità di matrice etnica od orientale richiamano alla mente l’album “Aktuala“, dell’omonima band, uscito lo stesso anno, ma questi ultimi risultano, al confronto con i N.A.D.M.A., molto più lineari e meno sperimentatori. Di certo la musica dei nostri non può essere etichettata come world music.
È un album molto coraggioso, “non ortodosso”, di un’avanguardia estrema, in cui gli strumenti hanno una libertà di movimento infinita e riescono a raggiungere livelli poco esplorati sino ad allora. Come si può immaginare, però, il disco non ebbe molta fortuna e la band finì il suo cammino di lì a poco.
Il brano d’apertura, Homage To Amilcar Cabral, è l’unico che, strutturalmente e musicalmente, richiama un brano degli Aktuala (Mammoth R.C., contenuta nell’album omonimo), raddoppiandone però la durata. Dopo un paio di minuti, in cui compaiono solo pochi suoni naturali e timide percussioni, il suono comincia a crescere senza sosta, guidato da un tumulto di fiati “torturati” e percussioni, da cui emergono un canto tribale e la voce di Ceretti. È un fiume in piena che ci trascina via senza la minima possibilità di trovare un “appiglio di salvezza”. L’Amilcar Cabral cui è dedicato il brano è stato un politico della Guinea-Bissau, fondatore del Partito Africano per l’Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (PAIGC), il quale portò i due stati all’indipendenza dal Portogallo. Fu assassinato nel gennaio del 1973, pochi mesi prima di vedere la sua patria indipendente. Nel lungo frastuono che accompagna la quasi totalità del brano può essere letta la sofferenza, ma anche la forza di volontà, che ha accompagnato la lotta del popolo verso l’indipendenza, con lamenti e urla strazianti restituite dai fiati suonati in modo estremo (ma anche dalla voce e dalle percussioni), e il momento in cui il popolo è sconvolto dall’omicidio del proprio leader.
I suoni sinusoidali irritanti creati dagli archi, che occupano i primi secondi di Chant, fanno da apripista al canto mantrico di Marino Vismara che occupa i restanti sessanta secondi del brano.
Dabya è un brano diviso in più parti. I primi tre minuti sono occupati da due improvvisazioni (forse quasi delle esercitazioni), realizzate dagli strumenti a corda e dagli archi. Ai tre minuti gli archi prendono corpo e, finalmente, si riesce a scorgere una melodia, degna di tale nome, dalle sonorità arabeggianti. Poco dopo il piano di Mosconi prende il sopravvento con l’unica esecuzione dell’album in cui si può notare un minimo di richiamo progressivo, disturbata però da un fitto “ronzio” di archi e fiati che, nel minuto finale, cercherà di sovrastare l’unico suono “normale”.
Sardi e Corrado si divertono un mondo a creare dissonanze con i fiati nell’avvio di Energia. Poi ha inizio un nuovo delirio sonoro dove tutti sono chiamati a raccolta. Soprattutto piano e percussioni sembrano impazziti, mentre fiati e archi camminano imperterriti. Pura violenza acustica. Dai lamenti che ascoltiamo pare quasi che gli strumenti tentino di fuggire dalle mani dei propri “aguzzini”.
Atlantide – Maya – Veda Rhyton. Avvio minimal con atmosfera etnica per il brano di chiusura, con un mix di suoni che richiamano la foresta, ma anche qualcosa di orientale. Col passare dei minuti i suoni si fanno più stridenti, il tutto spudoratamente sperimentale e, molto probabilmente, improvvisato. La tromba, che intorno agli otto minuti riesce ad emergere dalla “palude sonora”, dà un tocco di solennità al brano.
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