Alea (2005)
Mellow Records
Dopo l’uscita dell’album d’esordio omonimo nel 1999 e vari cambi d’organico, il Nodo Gordiano, nel 2004, si stabilizza con una formazione a tre composta da Andrea De Luca (basso elettrico, synth pedal), Carlo Fattorini (percussioni) e Gianluca Cottarelli (synth).
Sono i musicisti stessi a presentare l’album come una raccolta di improvvisazioni per sintetizzatori, basso e batteria. Il materiale sonoro derivante da ogni sessione di registrazione è stato selezionato ed organizzato in relazione alle illustrazioni create appositamente dalla pittrice Carla Nico. Nessuna progettualità precede la performance: creazione, esecuzione e registrazione coincidono dal punto di vista temporale.
Lo stacco tra Alea e il primo lavoro è netto: si passa da un album di grande prog, così accolto, tra gli altri, da Francesco Di Giacomo “credo che se si voglia capire come e dove si stia muovendo una certa parte della musica in Italia, il Nodo Gordiano sia una tappa d’obbligo” e Gianni Leone “il Nodo Gordiano coniuga e reinventa il viaggio Crimsoniano e l’avventura del progressive italiano anni ’70”, alla pura improvvisazione, con una formazione inusuale nel panorama progressivo in genere.
È una musica molto spesso oscura quella di Alea, dove è soprattutto il synth a “fare la voce grossa”, con sonorità accostabili a quelle dei corrieri cosmici. Nel complesso si riesce a trovare qualche minimo richiamo anche ai King Crimson di Starless and Bible Black.
La vena improvvisativa dei Nodo Gordiano si nota già dai primi secondi di Interpolations with casual drums grazie ai ghirigori di synth creati da Cottarelli e viene rafforzata dal basso e dalla batteria molto precisa e secca. È senza dubbio il brano più “spinto” dell’album e l’impennata fulminea della batteria, poco dopo il minuto, ne dà la conferma.
In Hubble è soprattutto il synth il protagonista, con una nuova sequela di volteggi. La batteria di Fattorini questa volta si limita al minimo indispensabile, mentre il basso di De Luca fa il suo “sporco” lavoro ed è una costante lungo l’intero corso del brano. Con Hubble s’inizia quella sorta di discesa verso le sonorità sempre più oscure e “cosmiche” che troveremo in alcuni brani successivi.
Con Gate zero i suoni, soprattutto quelli sintetici, iniziano a farsi più inquieti e a tendere verso la musica cosmica tedesca. In questo brano i compiti affidati alla batteria si affievoliscono ancor di più, mentre il basso riesce a dire la sua in modo sporadico e il synth si dilata nello spazio facendo perdere la cognizione temporale all’ascoltatore.
Il basso più scuro di Lincestra e le nuove evoluzioni di Cottarelli (accostabili, anche per la tipologia di suono utilizzato, a quelle di Tony Pagliuca) ci risvegliano dal “torpore” del brano precedente. Anche Fattorini, con la sua batteria, ricomincia a dare il suo apporto alla causa. L’atmosfera un po’ cupa che si respira rende più fascinoso questo brano.
Il senso d’inquietudine vissuto in Gate zero lo ritroviamo anche in A junghian rhapsody. Nei primi minuti, mentre il synth si “impegna” a ricreare questa sensazione con suoni space, è il basso lo strumento più attivo. Poi il brano alterna due “vuoti cosmici” a due riprese. Queste ultime vedono una batteria piuttosto compassata e il synth più vivo e creativo (la prima), e il basso padrone della scena con il synth più d’atmosfera (la seconda).
Il brano di chiusura Kome è una summa di quanto ascoltato in precedenza. Lungo i suoi tre minuti ritroviamo le atmosfere non luminosissime del synth, il basso deciso e presente e la batteria che si limita soprattutto a creare la struttura di base, lasciando maggior spazio agli altri due strumenti per emergere.
Un esperimento ardito ma apprezzabile.
Lascia un commento