Il Paese dei Balocchi (1972)
CGD
Siamo nel 1972, anno di pubblicazione di molti dei capolavori del prog italiano (solo per citarne alcuni l’album omonimo e “Darwin” dei Banco, “Ys” del Balletto di Bronzo, “Nuda” dei Garybaldi, “Jumbo” e “DNA” dei Jumbo, “Uomo di pezza” delle Orme, “Storia di un minuto” e “Per un amico” della PFM) e accanto a questi troviamo una piccola perla, sconosciuta ai più: Il Paese dei Balocchi, disco della band omonima, formatasi in quel di Roma.
Nati dalle ceneri degli Under 2000, attivi dal 1965, i PdB, nel 1971, furono notati dal produttore Adriano Fabi che propose loro la realizzazione di un album. Questo avvenne l’anno successivo e le sessioni di registrazione durarono solo due settimane. Ad esse prese parte anche il maestro Claudio Gizzi (futuro membro degli Automat, insieme a Musumarra) che ha curato gli arrangiamenti degli archi.
L’opera che nacque dalle menti di Armando Paone (voce, tastiere), Fabio Fabiani (chitarra), Marcello Martorelli (basso) e Sandro Laudadio (batteria, voce) è un concept-album dalla tematica molto pessimista “perché in quegli anni non credevamo nelle istituzioni “ufficiali” ed eravamo nauseati ed oppressi da tutto ciò che ci circondava (Vietnam, politica, perbenismo ipocrita, …) dove i “perché” erano tantissimi e senza risposte convincenti. Da tutto ciò ci siamo ispirati spiritualmente per la creazione del nostro LP….appunto cercando “Le” risposte. Il nostro LP a grandi linee è un viaggio dell’uomo dentro se stesso…. (“se stesso”….qui immaginato come un “Paese dei Balocchi”, quello dove tutti noi vorremmo vivere evadendo da una realtà che non ci appaga e dove chi tiene i fili del potere…è un Re despota che ci manovra come “burattini”). È la ricerca di se stessi o meglio della propria identità umana passando attraverso il bene ed il male cercando di capire chi siamo, perché siamo qua e dove stiamo andando, fino ad arrivare alla speranza… vana, perché alla fine del viaggio scopriamo che la “cruda” realtà nella quale viviamo, altri non è che uno specchio dove possiamo vedere il riflesso stesso della nostra anima” (dall’intervista di Fabio Fabiani rilasciata ad Augusto Croce).
La promozione dell’album avvenne anche con la partecipazione della band a due grandi eventi organizzati quell’anno: il concertone di Villa Pamphili a Roma e la Mostra d`Oltremare a Napoli. Del disco, ricorda Laudadio, furono pubblicate solo 1800 copie.
La copertina, raffigurante tanti pezzi di stoffa colorata cuciti tra loro, rappresenta appieno il collage di suoni (classici ed elettronici) e atmosfere (giocoforza malinconiche) presenti nell’album, da non vedere come confusione compositiva, ma come grande abilità tecnica e capacità di destreggiarsi nell’articolato mondo del “conoscere se stessi”.
Il primo brano dell’album, dal titolo lunghissimo, è Il trionfo dell’egoismo, della violenza, della presunzione e dell’indifferenza. L’avvio è prorompente: una cavalcata che ricorda un po’ il breve segmento, dopo il solo di batteria iniziale, di “Il tramonto di un popolo”, brano dei Capitolo 6 presente nell’album Frutti per Kagua (pubblicato lo stesso anno). Qui a farla da padrona è il flauto, mentre nel nostro non c’è un elemento che spicca, ma è la sublime amalgama tra chitarra, organo, basso e batteria ad imporsi. Stacco netto poco dopo: subentrano gli archi a creare della suspense e il brano cambia completamente registro. Ultimi secondi molto distensivi.
Brano camaleontico Impotenza dell’umiltà e della rassegnazione. In soli quattro minuti Il Paese dei Balocchi si destreggia in numerosi e repentini cambi che gettano nello scompiglio l’ascoltatore. La partenza è molto minimal, con una chitarra “lontana” e un tema di poche note, ripreso poco dopo in maniera decisa da una chitarra distorta. L’evoluzione del brano è introdotta dal basso di Martorelli e dall’ingresso successivo di tutta la band accompagnata da cori (presenti già poco prima dell’ingresso del basso). Poco dopo l’organo, in solitudine, prova a riportare la calma, ma è solo apparenza: rientrano i cori e una chitarra, il tutto molto “western”. A seguire un breve segmento di tastiere battiatiane. Chiude del sano e puro prog “made in 1972”.
Con Canzone della speranza i PdB “rifiatano” un po’. È il primo brano cantato dell’album. Un lieve arpeggio dà il via ad una ballata malinconica (stato d’animo sottolineato dai cori). La tristezza di base del brano è presente successivamente anche negli archi, nella voce e nel testo: “Io vendo tutto e vado via, i sogni, la malinconia / lascio la tranquillità per un po’ di libertà / un’ombra di sincerità, la fede, un po’ di carità / cerco le cose che non ho avuto mai / le mani tese di un amico, forse un sorriso / parole dolci che non ho sentito mai / ho perso il paese che sognai, il vento mi trascinerà / mondo più nuovo eccomi a te / colori vivi mi guariranno / l’amore che ora non c’è in me verrà”.
Evasione ha un sapore onirico, psichedelico (sensazione creata dal suono “acquoso” della chitarra nella prima parte del brano). Dal secondo minuto l’atmosfera sognante prende maggiormente forma con l’ingresso delle tastiere e della batteria. Da notare alcuni, sporadici, inserti di synth e il finale più corposo.
Risveglio e visione del paese dei balocchi ha una struttura e crea un’atmosfera tale da poter essere usata senza problemi come musica da film. Il giro di basso dell’intermezzo invece sembra preso da un brano dei Banco.
Brano dalla doppia anima Ingresso e incontro con i baloccanti. La prima parte ha unintro molto vivace che trasuda un qualcosa di medievale.La seconda parte è affidata alla sola voce che si esibisce in un canto dal tono “monastico”.
La brevissima e intensissima Canzone della verità, realizzata con soli archi, ricorda molto da vicino brani presenti nei tre “Concerto Grosso” dei New Trolls.
Altro brano molto breve è Narcisismo della perfezione. I soli partecipantialla “contesa” sono chitarra e voce. Si intravede qualcosa che sarà proprio di Angelo Branduardi negli anni a venire.
Vanità dell’intuizione fantastica. Dopo due minuti di suoni “a basso volume” (organo e chitarra) è il basso, accompagnato dalle percussioni, a dare un senso al brano. Essi fanno da apripista ad un gran bel segmento prog. Il solo di organo qui presente suona molto british. L’ultima parte del brano ha delle sonorità piuttosto psichedeliche.
È una “prova di forza” del solo organo, suonato alla grande da Paone, ad occupare gli oltre quattro minuti di Ritorno alla condizione umana. Per l’occasione è stato utilizzato un organo Mescioni del 1947 presente nella chiesa di S. Euclide, chiesa in cui sono stati registrati anche alcuni cori (per sfruttarne il riverbero) presenti nel disco.Sporadici gli interventi di synth a fare da contorno.
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