Paternoster (1972)
CBS
I Paternoster sono una delle prime band della scena progressiva (non proprio prolifica) austriaca e il disco omonimo è il loro primo ed unico lavoro discografico.
L’album, realizzato da Franz Wippel (organo, voce), Gerhart Walenta (batteria), Gerhard Walter (chitarra, voce) e Heimo Wisser (basso), e registrato presso i Quodlibet-Studios di Vienna, il 9 e 10 marzo del 1972, è un’opera oscura, in cui si fondono sonorità tipiche del prog degli albori (vedi, per esempio, The Nice, ma più cupi e, a tratti, frenati), elementi krautrock alla Ash Ra Tempel o Agitation Free, atmosfere acide (ben costruite soprattutto dalla chitarra) e una voce unica, sofferta e inquietante.
È proprio la voce di Wippel, un mix tra un Gary Brooker e un Ozzy Osbourne incupiti all’inverosimile e rallentati, la peculiarità dell’album e della band. Una voce tenebrosa, quasi sinistra e mai perfetta che al primo impatto strappa comunque un sorriso e un commento non proprio positivo, però, a lungo andare, il suo magnetismo avvolge l’ascoltatore e la sua “non linearità” in molti casi passa in secondo piano. Altro tratto distintivo della band è l’organo ecclesiastico, suonato dallo stesso Wippel.
La scelta del nome della band non è di certo casuale e “l’aria religiosa” si respira anche nei testi (tutti in inglese, eccetto l’avvio di Paternoster) dell’album, dalla title track, che parla da sola, a The Pope is wrong, in cui si critica la religione “organizzata” (e quindi anche il Papa), non la fede in sé. Oltre alla fede si toccano anche temi quali il suicidio (Blind children) e la mondanità (Stop these lines), biasimata dalla band.
Paternoster. Visto il nome della band, il titolo dell’album e quello del brano, non si poteva non iniziare con una preghiera. È Wippel, con la sua voce solenne e sofferta, (a dirla tutta è anche un minimo angosciante), a cantare/recitare i primi quattro versi in latino del Pater Noster: Pater Noster qui es in caelis: / sanctificétur Nomen Tuum; / advéniat Regnum Tuum; / fiat volúntas Tua. Il sottofondo è occupato da un leggero organo che è quasi un ronzio. Dopo i tre minuti il brano si “desta” grazie all’ingresso di una batteria alla CCCP e di una chitarra acida.
La chitarra di Walter continua il suo percorso in Realization. A farle compagnia, in avvio, la batteria di Walenta (più compassata rispetto al brano precedente) e la voce tormentata. Poi lo stesso Walenta inizia una marcia, sempre su ritmi blandi. Nell’ultima parte torna la cavernosa voce di Wippel (un Frank Zappa ancor più folle sul lato vocale).
Avvio tra il vacuo e il sognante per Stop these lines, finché l’organo non subentra a movimentare e incupire il clima. A tratti si respira un’aria da film horror anni ‘20-’30, e la voce sempre più profonda, e non proprio lineare, di Wippel accentua il tutto, rendendolo, però, anche più sofferto (sembra un John L del brano Light: Look at your sun, album Schwingungen degli Ash Ra Tempel, più cupo e “diluito”).
Atmosfera malinconica per Blind children, ben resa dall’organo di Wippel e dagli inserti degli altri musicisti. Poi lo stesso Wippel ci mette del suo (con la voce) nel caricare tale atmosfera. Sembra quasi subire una tortura durante il canto. Imperfezioni a parte, tuttavia, non si può negare il magnetismo di tale voce. A metà percorso il brano si ravviva, l’organo diventa molto più vivace e, con lui, la batteria, leggermente tribale. Anche Walter ci mette del suo con un piacevole assolo prima di ripiombare nel “dramma” iniziale.
Old Danube. Lasciate le atmosfere “grigie” del brano precedente, i Paternoster si lanciano, all’apparenza, in un bel brano dinamico, dove la batteria tiene un buon ritmo e organo e basso si dividono la scena con interessanti virtuosismi. Al minuto e quindici secondi appare Wippel e l’aria si fa drammatica. Dura poco. Ritmica, organo e basso riportano ben presto “luce” al brano. Sarà un lungo alternarsi tra queste due anime.
The Pope is wrong. Clima onirico che prende corpo col passare dei secondi, prima con sporadici interventi di batteria e organo, poi con la presenza sempre più netta della stessa batteria e del basso e con inserti psichedelici di chitarra. A metà brano una piccola svolta dove si cede spazio all’organo che, a sua volta, prepara il terreno a Wippel, sempre più provato e claustrofobico.
Anche l’avvio di Mammoth Opus O ha delle note sognanti, forse un po’ deliranti, ed anche qui il brano cresce nel tempo, prima grazie all’organo di Wippel e alla chitarra sessantiana di Walter, poi con l’ingresso della batteria. Ai due minuti i tre, insieme al basso, si divertono a scimmiottare una sorta di marcetta. A seguire Wippel, col suo organo, ci mostra finalmente tutte le sue capacità. Non manca l’apporto vocale, ma in questo caso siamo quasi certi sia Walter a cantare. La sua voce è meno cupa e “imperfetta” (ma di poco) rispetto a Wippel, ma è sempre un’aria dimessa quella che si respira nei segmenti cantati. Negli ultimi minuti i musicisti si ripresentano con le loro vesti migliori, prima con un notevole sprazzo jazz, poi con un richiamo all’inno russo, fino a chiudere in allegria. Un piccolo sfogo diretto, forse, al cantante (o meglio, alla sola voce, giacché l’organo è suonato dallo stesso elemento)!
Chi è in possesso del vinile originale se lo tenga stretto: oggi è molto raro e ricercato, il suo valore sul mercato può superare anche i 2000 dollari.
Lascia un commento