Frammenti d’incanto (2015)
Lizard Records / Locanda del Vento
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel lontano 1995, anno in cui Fabio Tavazzi (basso, cori) e Simone Pesatori (voce) posero la prima pietra del progetto Sintonia Distorta, “acqua” fatta di numerosi avvicendamenti, “virate di genere”, alcuni lavori autoprodotti e quell’incontro illuminante con la Lizard Records avvenuto nel 2013. È grazie alla sempre attenta e lungimirante etichetta di Loris Furlan che oggi possiamo parlare di Frammenti d’incanto, una sorta di vera e propria “opera prima” per i Sintonia Distorta.
In questo continuo “via vai” in formazione che avrebbe sconfortato chiunque, ma non i nostri due musicisti lodigiani, ecco trovarsi nel posto giusto al momento giusto Giampiero Manenti (tastiere, seconda voce, cori), Simone Prestini (chitarre) e Matteo Sabbioni (batteria), con la partecipazione speciale di Dany Magnani (seconda voce, cori). Poco dopo l’uscita dell’album, però, anche Prestini e Sabbioni abbandoneranno il progetto.
Dopo anni trascorsi tra esecuzioni di cover e realizzazione di brani propri, nuotando tra rock, punk, heavy metal sino a giungere al prog, i Sintonia Distorta trovano la propria strada proprio con Frammenti d’incanto.
Musicalmente il quintetto è capace di “affondare il colpo”, con sfuriate possenti e granitiche in cui convivono, ad esempio, le “anime corpose” di band nostrane quali VIII Strada o Graal e l’energia esplosiva cara al metal, ma anche di indossare il guanto di velluto con trame romantiche e carezzevoli.
L’album è accompagnato da un booklet davvero notevole, realizzato da Davide Guidoni, bGone e Claudia Feneri, fondamentale nell’ascolto di Frammenti d’incanto. Ogni brano è associato ad una doppia chiave di lettura/presentazione, quella visiva (e immediata) e quella scritta (ed esplicativa), quest’ultima, poi, si sdoppia tra il testo vero e proprio (la band ha puntato molto sulle liriche, ben scritte e molto presenti negli episodi) e la presentazione del suo contenuto. Idea interessante e ben giocata.
Come detto, un’importanza notevole è assunta dai testi scritti da Pesatori in cui rivivono i mali della società moderna, ma anche l’amore verso la propria metà, i genitori, la musica.
Placide onde marine, canti di gabbiani e una dolce nenia cantata da una sirena ci accolgono in Anthemyiees (L’isola nel buio). Poi l’organo solenne e bartoccettiano di Manenti dà il via alle danze, seguito a ruota dai rapidi e taglienti colpi dei compagni. In seguito sulla scena irrompe anche l’espressiva voce di Pesatori che narra la storia di un capitano e della sua ricerca dell’isola incantata e misteriosa di Anthemyiees. Il brano si sviluppa su ritmi vertiginosi sino alla “sosta” di metà percorso che introduce le doppie chitarre di Prestini. Si riprende poi quota, con vaghi sentori purpleiani, con l’incessante picchiare di Sabbioni che chiama a sé, tra gli altri, il ritorno di Pesatori. I Sintonia Distorta decidono, dunque, di esporre sin da subito la propria valida “mercanzia” (quasi tutta).
Il morbido avvio de Il cantastorie, caratterizzato dall’intreccio sussurrato di flauto e chitarra acustica, richiama un po’ le atmosfere mediterranee dei Delirium. Poi il tema s’addensa notevolmente e guizza via con l’ingresso in campo di tutti gli effettivi. E nelle parole di Pesatori prende forma l’immagine del cantastorie, figura insita in ogni cantante e musicista, che raggiunge l’apice con l’indovinato refrain che “entra” già dal primo ascolto (Sono solo un musicante che / racconta al mondo la sua storia / in musica e parole. / Sono solo un cantastorie che / confonde fantasia / e realtà nell’improvvisazione). Gran lavoro delle ritmiche, mai dome, e delle tastiere voluminose.
Le dita di Manenti non sono solo “sfarzo” ma anche struggente poesia: ecco, infatti, l’emozionante intro di Menta e fragole con il piano ben in evidenza, arricchito dagli archi avvolgenti. Su toni simili agisce in seguito anche l’appassionata voce di Pesatori e il tutto prende la forma di una ballad che non viene “scalfita” neanche dalle distorsioni di Prestini. La forza di un uomo (…la menta) e la dolcezza di una donna (…le fragole)… la loro pazienza, la loro dignità, la sincerità e l’intensità dei gesti, sguardi ed abbracci che nessun amore può eguagliare! Il frutto del loro amore è magia di una nuova vita… Grazie a mio padre e a mia madre, per la magia di questa vita tra… menta e fragole!
È la tastiera new wave alla Litfiba degli esordi a dare il via a Il suono dei falsi Dei. La sua vivace andatura pungola chitarra e ritmiche che, entrati ben presto in campo, ribaltano i giochi “inglobando” il collega. È con questo flusso rapido e corposo che si sviluppa l’intero brano, con la voce che ben si muove all’interno del denso fluire. E dopo aver espresso tutto il proprio amore verso i genitori con il brano precedente, Pesatori cambia repentinamente direzione e tematica, toccando il tema dell’uso di sostanze stupefacenti, le sue conseguenze e la visione “esteriore” di tal uso: Chi cade nell’oblio di una dipendenza non è, come spesso viene considerato, una persona peggiore o priva di valori […] E colui che si sente un uomo migliore, poiché “pulito”, ed è solito giudicare… ha mai pensato a quanto male possano fare i suoi… falsi Dei?.
Il canto della Fenice. Molto intenso l’avvio col botta e risposta tra cori solenni e voce, poi ecco giungere la nuova colorata pioggia di suoni, con il solito gran lavoro delle ritmiche che fa da sfondo alle cangianti tastiere di Manenti e all’aggressiva chitarra di Prestini. Come sempre Pesatori dà tutto sé stesso donando calore al già bollente magma, facendo proprio, tramite un testo vigoroso e “vestito” alla perfezione, il grido di chi risorge dalle ceneri portate da privazioni e imposizioni, che fanno male, ma che non possono vincere chi vuol essere sé stesso emesso contro chi mette al centro del mondo l’esaltazione del proprio “io” puntando il dito lontano da sé stesso e mascherando così i propri limiti. E sul finire Prestini prende il largo.
Calano leggermente i “giri” con No need a show, canto d‘amore per la sua Vale (…dolce, unico, bellissimo…”pierrot”). Dopo una “formale” introduzione in inglese, è il viscerale Pesatori a prendere in mano il brano, con ritmiche, chitarra e tastiera che lo seguono quasi in punta di piedi. Più avanti si sovverte, in parte, lo schema: la sezione sonora diventa più “invadente”, confezionando una dualità concettualmente accostabile al “marchio di fabbrica” dei Real Illusion di “Impheria”, anche se Simone riesce a tenere il passo. E dopo un nuovo assolo di Prestini si prosegue per la seconda via. Interessante il finale corale.
Pioggia di vetro. Le chitarre fulminee e la guizzante e “altalenante” batteria, ben supportati dal vivacissimo basso di Tavazzi, spingono i Sintonia Distorta verso territori prossimi agli Iron Maiden. Anche con le voci, con il registro basso che ricorda il timbro di Eugenio Finardi e le parole che ci rammentano della situazione standardizzata della società odierna fatta di mode e divieti privanti della libertà di pensiero e di parola adottate per “uniformare” e “comandare”, il clima non cambia: una valanga di suoni rapidi e acuminati. Particolare e ben congegnato l’avviluppante intermezzo.
I ponti di Budapest. Il riposo del guerriero. Dopo aver spinto quasi al limite i propri mezzi, i Sintonia Distorta “virano” verso la ballata. Tra tappeti d’archi e leggeri arpeggi, il canto dolce, d’amore e di ricerca di Pesatori si muove a proprio agio. Poi Sabbioni inserisce una marcia in più, così come le distorsioni e l’organo, ma l’indole dell’episodio non muta.
Si torna a volare con Clochard. È il duo Sabbioni/Tavazzi ad imprimere un ritmo vorticoso al brano che non spaventa affatto chitarra e tastiera. Non si tira indietro neanche Pesatori nel suo narrare le figure che vivono ai margini della società: […] Ti sei mai chiesto cosa c’è / dietro quel corpo immobile / e quei due occhi spenti ormai / cosa nascondono? / Troppo di corsa per poter capir / cosa uno sguardo vuol dir / e l‘animo non esprime una coperta di cartone […]. Ecco allora che il brano diventa una “scheggia impazzita” ricca di sfumature in cui si passa con disinvoltura dal metal allo “scherzo reggae” (!).
Si chiude con Il vento dei pensieri, tra un vecchio amore che tramonta e uno nuovo che sorge. Brano piuttosto lineare che, come i precedenti capitoli che trattano le varie forme d’amore, “tiene a freno” le ritmiche mentre Prestini si divide tra suoni acustici e distorsioni, Manenti tesse le giuste atmosfere ariose ed avvolgenti e Pesatori “entra” nuovamente anima e corpo nelle parole. Termina così un album atteso, rincorso, “sudato” e che rappresenta un meritato premio alla perseveranza dei due membri fondatori (in primis).
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