Aria (1972)
Harvest
È il 1972 e la Harvest pubblica l’album di Alan Sorrenti, un’artista italo-gallese, intitolato Aria. Per il pubblico e la critica italiana è una deflagrazione devastante.
Una voce allo stesso tempo ammaliante, psichedelica e caustica, una voce che s’inerpica verso vette sonore altissime, una voce che restituisce modulazioni incredibili, sostenuta, soprattutto nella title track, da atmosfere che ben si fondono con gli sperimentalismi vocali di Sorrenti: è questo l’elemento “sconvolgente” di Aria. È un utilizzo dello strumento vocale mai sentito prima nel nostro paese (Demetrio Stratos arriverà a breve).
La grandezza dell’album, ovviamente, non si limita all’impiego eterodosso della voce, ma è dovuta anche a degli arrangiamenti straordinari e variopinti realizzati da Albert Prince e Sorrenti e “materializzati” da musicisti di prim’ordine quali gli stessi Prince (piano, organo Hammond, fisarmonica, mellotron, synth Harp) e Sorrenti (chitarra acustica), Antonio “Tony” Esposito (batteria e percussioni) e Vittorio Nazzaro (basso e chitarra solista classica). Non solo, come collaboratori compaiono anche Tony Bonfils (basso con arco), Jean Costa (trombone), André Lajdi (tromba), Martin Paratore (ballerina spagnola, sue le castagnette nel brano Aria) e, ospite speciale nel primo brano, Jean Luc Ponty al violino (tra gli altri ha suonato con Frank Zappa e Mahavishnu Orchestra).
Sono varie le anime che si scorgono nell’opera durante il suo ascolto: il lato A, occupato dalla lunga suite che dà il titolo al disco, è ricco di sperimentazioni sonore e vocali e rappresenta la summa del genio sorrentiano; il lato B, con i suoi tre brani, spazia dalla dolcezza infinita e l’atmosfera fiabesca di Vorrei incontrarti agli elementi più cupi e le ulteriori fantasie sonore dei due brani finali. E per far sì che l’album sia a tutti gli effetti un capolavoro, ogni brano è corredato da un testo molto ispirato e poetico che rappresenta la ciliegina sulla torta.
L’intero lato A dell’album, come detto, è occupato da Aria. La suite che dà il titolo all’album avviluppa fin dai primi secondi l’ascoltatore grazie a soffici folate di vento e a degli arpeggi magnetici. Quasi ai due minuti, poi, ecco giungere la soave e caleidoscopica voce di Sorrenti. Il suo canto è un fluido che pervade le ossa, uno strumento aggiunto alle sonorità liquide e sognanti che troviamo in queste prime battute. I giochi vocali (da brivido) ricordano a tratti quelli altrettanto straordinari di Juri Camisasca ne “La finestra dentro” o quelli di Ivan Cattaneo in “Uoaei” (però meno “sarcastici”). L’eccezionalità del brano è data anche dalle continue mutevoli atmosfere create dalle mani “calde” dei compagni d’avventura: dai paesaggi onirici e dilatati si passa a quelli più “crudi”, dove le percussioni di Tony Esposito e, soprattutto, gli arabeschi sublimi realizzati da Ponty al violino, toccano livelli stupefacenti, fino a raggiungere vette prog, con gli innesti puntuali e fantasiosi di Prince e delle chitarre, e momenti spagnoleggianti. E il profluvio sonoro finale, con un Esposito martellante, le chitarre e il violino indemoniati e Sorrenti invasato, chiude questa perla rara. Discorso a parte merita il bellissimo testo. L’idealizzazione della ricerca della donna amata (Aria), la conquista (fisica) e la paura di perderla (o la realizzazione di averla perduta) è descritta con intensi versi poetici: Aria, in ogni angolo della mia stanza io ti sto cercando / Aria, nei labirinti della mia mente io ti sto inseguendo. / Principessa della mia carrozza resta con me / dormi nella pace di questa sera dentro di me […] / Albero solitario che risplendi in un campo di grano / io ti vado incontro e ai tuoi rami io mi appendo / le tue foglie ho raccolto una alla volta in ogni mia illusione, in ogni mia sensazione. / Principessa della mia carrozza portami con te / attraverso monti sfuocati, mari annebbiati / l’alba nasce in te, il giorno muore con te. / Portami nei grandi campi di neve dove il sole non c’è, prendi tutto di me / le tue vene son fiumi tra le rocce le tue mani pallidi monti nella notte. […] / E con il vento la mia carrozza sulle tue orme bianche passa / e dinanzi a un monastero si ferma. / Aria, tu mi apri la porta e fuori sta piovendo / nelle stanze del tuo nido io mi sto addentrando. / Aria, il mio corpo sul tuo corpo si muove lentamente / Aria, il mio corpo sul tuo corpo sprofonda dolcemente. / Aria, sto cercando di scoprire, di scoprire il tuo segreto. / Sono entrato nel tuo corpo sono io l’universo / sono io il tuo corpo, sono io l’universo / nel tuo fiume sto scivolando. Aria, sto impazzendo. / Un uragano di colori si scatena dentro me, apro le braccia su di te / suoni di frusta schiacciati da raffiche di pioggia sui cavalli della mia carrozza. […] / Aria, in ogni angolo della mia stanza io ti sto cercando / Aria, sull’asfalto bagnato della mia strada io ti sto inseguendo e tu ti stai sciogliendo / Aria, io sento che ti sto perdendo. Un’opera d’arte sotto tutti i punti di vista.
Dopo la quantità incredibile di energia spesa con il brano precedente, Sorrenti e soci decidono di prendersi una “pausa” e regalarci un brano incredibilmente dolce: Vorrei incontrarti. Su di un delizioso intreccio di chitarre che descrivono un paesaggio mediterraneo estatico (accentuato più avanti anche dalla fisarmonica di Prince), Sorrenti si lancia in un nuovo canto etereo che s’incastona alla perfezione sulla melodia. Anche qui il testo ammanta ancor più di poesia il brano: Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica. / Vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India / Vorrei incontrarti ma non so cosa farei / Forse di gioia io di colpo piangerei. / Vorrei trovarti mentre tu dormi in un mare d’erba / e poi portarti nella mia casa sulla scogliera / Mostrarti i ricordi di quello che io sono stato / Mostrarti la statua di quello che io sono adesso. […] / Vorrei incontrarti proprio sul punto di cadere / tra mille volti il tuo riconoscerei / Canta la tua canzone, cantala per me / Forse un giorno io canterò per te.
La mia mente. I vocalizzi lontani che vanno a intrecciarsi con chitarra e basso, nei primi secondi, donano un tocco tenebroso al brano. È il canto, poi, a renderlo più arioso, anche se una velatura un po’ scura permane. Grandioso il lavoro free-jazz al piano di Prince che sembra seguire ed assecondare le fantasie vocali di Sorrenti. E negli ultimi minuti un gran vortice sonoro a tinte sempre più acide, tra percussioni tribali, una tromba cupa, il piano che continua a volteggiare e gli ultimi vocalizzi di Sorrenti, che sono anticipatori di quelli di Stratos, ci fa capire, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza dell’artista. Il testo in questo brano, invece, è più ermetico dei precedenti e, a suo modo, sembra quasi “prevedere” quelli (molto più surreali e impenetrabili) di Camisasca, così come varie “atmosfere” vocali anticipano quelle dell’artista di Melegnano: La mia mente, la mia mente è piena, / è piena di cose, piena di viti, cacciaviti e chiodi / piena di cose arrugginite e sacre e questo treno le muove e le scatena. / Ed io lotto, ed io le incateno / ed io le creo, ed io le ammucchio / e questo treno le muove e le scatena. / La mia mente, la mia mente è un pallone / che vaga in un soffice sogno e non ritorna più sulla terra / e la mia gente lo indica, e la mia gente lo lincia / Il primo colpo lo smuove, il secondo lo abbatte. / E questa cassaforte di vecchie e antiche corazze / questa mente malata precipita in una violenta cascata.
Un fiume tranquillo ha una doppia fisionomia: la prima prende il via con momenti altalenanti molto intensi, frammenti in cui il piano classico di Prince e la batteria “prog” di Esposito fungono da sottofondo molto denso per la voce, ed altri più leggeri e quasi cantautorali. Poi la tromba solenne di Lajdi e il synth di Prince cominciano a costruire un nuovo volto per il brano. È un crescendo vocale e sintetico (la tromba nel frattempo s’è fatta da parte) interrotto solo in seguito dalle divagazioni solitarie di chitarra acustica e percussioni. Questo “primo tempo” è chiuso dal ritorno di Lajdi con Sorrenti. Dopo un segmento occupato solo da ciò che sembra un cinguettio, ecco arrivare il “secondo tempo” del brano, quasi una breve traccia nascosta. È un clima piuttosto tetro quello che si respira in questi ultimi momenti dell’album, un mix tra la floydiana Sysyphus pt. 1 e un’atmosfera krautrock. Anche l’ultimo brano dell’opera non poteva non prevedere un testo all’altezza della componente sonora: È solo il fiume di un paese morto / riporta nel suo letto tranquillo il mio povero scrigno / Un fiume tranquillo che cancella i ricordi / una verde barella dove un corpo stracciato si dichiara un fallito / Un fiume tranquillo che mi salva da una violenta cascata / che sa dove è la mia casa, un fiume che per me esiste. / La mia scarpa la troverete vicino a un marciapiede / e il mio corpo lontano nelle sale di un dormitorio / la mia mano in un fosso / e il mio occhio nel cielo. / Quel fiume sa dove è la mia casa, quel fiume per me esiste. / Quel fiume per me esiste, perché io credo / perché amo la vita, amo la gioia, perché io piango, perché io rido / ed il sasso che trovi per terra, quel sasso ti ama / e una voce che trovi per terra quella voce ti ama
e io amo, io ti amo […].
Un lavoro straordinario e innovatore, un segno indelebile nel panorama musicale italiano (non solo progressivo). Un consiglio: lasciatevi trasportare dalle onde sonore create da Sorrenti, sarà un’esperienza indimenticabile.
Lascia un commento