Diamo il benvenuto a Mattia Liberati (M.L.), Flavio Gonnellini (F.G.), Davide Noè Savarese (D.N.S.), Shanti Colucci (S.C.), Antonio Coronato (A.C.), Marco Gennarini (M.G.) e Alessandro Di Sciullo (A.D.S.): Ingranaggi della Valle.
I.D.V.: Ciao a tutti e grazie a voi.
Partiamo da una data, 28 settembre 2016, pubblicazione e presentazione “sonora” ufficiale al Progressivamente Free Festival di “Warm Spaced Blue”, il vostro nuovo album. Vi va di presentarlo “a parole”?
A.C.: WSB mi viene da descriverlo come un album “di getto”. Le idee, le ambientazioni, le sonorità non sono state pensate ed elaborate, ma si sono create in maniera spontanea. E’ un album scuro, tetro e in alcuni punti “cattivo”, ma penso che non sia altro che il riflesso di ciò che noi, Ingranaggi, avevamo dentro durante la stesura.
A.D.S.: Warm Spaced Blue è il nostro secondo album. Lo abbiamo scritto e composto tra l’inverno 2014 e l’autunno 2015 io, Mattia e Flavio, e abbiamo chiuso gli arrangiamenti e definito il suono con il resto della band in studio.
Fondamentalmente, siamo rimasti fedeli alla nostra unica “regola” compositiva, non avere limiti o confini di sorta, cercando di utilizzare una grande varietà di sonorità e strumenti: dai classici Mellotron, MiniMoog, Hammond, chitarre e violini ai meno usuali per il genere come le drum machine Roland o i sampler Akai MPC.
Ascoltando l’album si è colpiti sin da subito dalle atmosfere scure e da una forte volontà di contaminazione che spazia tra i generi “piegandoli” alla vostra volontà, confermando e ampliando la vostra vena eclettica già mostrata con “In Hoc Signo”. Come sono “maturati”, dunque, gli Ingranaggi della Valle e quali sono le differenze sostanziali con il primo album? Ad esempio la scelta di cantare in inglese e non più in italiano.
M.L.: Essendo In Hoc Signo una sorta di “prima pietra” per gli Ingranaggi Della Valle, potremmo considerare Warm Spaced Blue come chiave di volta di un progetto che a lungo andare si è rivelato essere più ambizioso di quanto avessimo mai potuto immaginare agli esordi.
In IHS, il concept storico conferiva al disco una struttura prettamente narrativa, e molto spesso i brani dovettero adattarsi alle esigenze delle liriche. Da questo punto di vista, la stesura richiese un impegno maggiore. Le atmosfere e lo stile dovevano mutare gradualmente di traccia in traccia, e allo stesso tempo di pari passo con la narrazione. Questo primato del concept sulla composizione ci frenò in parte sul piano creativo musicale. Alcuni brani furono creati ad hoc, e più di qualcuno, con orecchio attento, riuscì a cogliere nell’insieme quello che per noi fu una sorta di senso di costrizione.
Warm Spaced Blue è comunque un concept album ma, nonostante l’importanza delle liriche e il valore delle tematiche delle quali trattano, è stato composto conferendo priorità assoluta alle composizioni. Ogni tema, improvvisazione, cantato, perfino ogni accompagnamento, si trova in un determinato contesto esclusivamente per il fine della canzone stessa. Li ritenevamo necessari, come se fosse stato il brano di per sé ad esigerlo.
E’ stato un vero e proprio capovolgimento della dialettica. Questa volta è la musica a detenere il primato, al punto che le liriche non possono che adottare la lingua inglese, attenendosi alle necessità della struttura artistica musicale.
F.G.: Le differenze sono molte, e almeno secondo me penso siano dovute ad una maturazione della band, nonché al cambio di line up. I toni più scuri riflettono semplicemente quello che noi abbiamo vissuto negli ultimi tre anni e derivano probabilmente da un approccio differente alla composizione, in cui cerchiamo dall’inizio alla fine di costruire una storia fatta di armonie, melodie e ritmi; per quanto riguarda l’inglese, abbiamo trovato questa lingua più adeguata alle linee vocali, al mood dei brani e all’impatto finale dell’album.
A.C.: Io sono entrato nella band solo un anno e mezzo fa, e non ho partecipato alla scrittura di IHS. Probabilmente il cambio di formazione ha influenzato la stesura di WSB. Diverse persone, diversi caratteri, diversi gusti. Per fortuna il nostro è un progetto che si evolve, matura e cresce, forse grazie anche al fatto che tutti noi siamo aperti all’ascolto degli altri membri della band.
Un nuovo musicista è una nuova persona, ed è normale che porti con sé un bagaglio di ascolti e musicalità diverse dal membro precedente.
A.D.S.: Più che di differenze, parlerei di scelte diverse, seppure non legate a nessun tipo di regola o direzione obbligata da seguire. L’unica direzione che abbiamo seguito è stata quella della spontaneità nella composizione e nell’arrangiamento, mantenendo l’approccio jazzistico nella scrittura delle armonie, ma allo stesso tempo orientandoci verso un sound rock articolato che ha portato all’introduzione della lingue inglese nelle parti cantate. In qualche modo l’italiano ci sembrava troppo “soft”, e quasi non si sposava con le sonorità di sicuro più dure rispetto al primo album e quindi siamo passati all’inglese.
Le atmosfere scure ben si ricollegano alla scelta dei temi dei vostri brani, soprattutto, ma non solo, quelli legati ai “Miti di Cthulhu” di H.P. Lovecraft. Come mai questa scelta? E come va inteso il titolo “Warm Spaced Blue”?
M.L.: Un’attenta analisi del corpus letterario lovecraftiano lascia spazio ad ampie riflessioni su tematiche d’ambito psicologico e sociologico, delineando un pensiero critico che in questo determinato contesto storico riteniamo risulti incredibilmente attuale.
Partendo da una rilettura in chiave junghiana dei racconti del noto scrittore statunitense, abbiamo trattato le suddette tematiche affrontando brano per brano le varie tipologie di rapporto che possono intercorrere tra l’io cosciente e l’inconscio collettivo, e le dinamiche che il conflitto individuale può rappresentare sul piano sociale (in particolar modo nella suite “Call for Cthulhu”), mediante l’utilizzo di un differente narratore per brano.
Quel “tenue blu” che dà il nome all’album così assume due funzioni: da una parte rievoca visivamente le atmosfere dei brani; dall’altra rappresenta le profondità così “distanti” dalla superficie del mare (che in Lovecraft è proprio allegoria dell’inconscio collettivo), al punto da essere impercettibili.
F.G.: Abbiamo cercato di “amplificare” con questo album episodi della nostra vita e storie che ci hanno profondamente impressionati. Warm (Caldo) Spaced (Distanziato) Blue (Blu) sono i tre aggettivi che costituiscono il trait d’union tra tutti i sentimenti e le atmosfere dell’opera.
Come già accaduto in “In Hoc Signo”, in cui erano presenti ospiti eccellenti quali David Jackson e Mattias Olsson, anche “Warm Spaced Blue” vede una grande special guest, Fabio Pignatelli dei Goblin. Come nasce questa collaborazione?
A.D.S.: In realtà molto casualmente. Amiamo da sempre i Goblin e il lavoro bassistico di Fabio e visto che tramite la Black Widow Records siamo “amici di etichetta” con i Goblin Rebirth abbiamo chiesto a Pino, il nostro produttore, di metterci in contatto con lui. Fabio è stato molto alla mano con noi e gli abbiamo chiesto di suonare qualcosa sul disco visto che il suo suono ci piace da morire.
Facciamo qualche passo indietro. Come nasce la band? E perché la scelta di un nome così evocativo e settantiano?
M.L.: All’epoca avevo un trio fusion/jazz-rock con Flavio e Shanti, grazie al quale riempivamo il tempo libero. Nel 2010 riuscimmo finalmente a tirare su una band vera e propria, completa di tutti quegli elementi che ritenemmo indispensabili per quel “nuovo” genere che decidemmo di affrontare insieme per la prima volta.
Capito il percorso stilistico da intraprendere, pensammo fosse necessario tributare a dovere uno storico genere come il Progressive Rock, anche nella scelta del nome.
Dopo una serie di maldestri tentativi, ci venne così, per scherzo. Ero al telefono con Flavio, quando iniziò a scomporre per gioco i nomi dei nostri professori del liceo. Fu la volta del professore di inglese, Roberto Ingravalle. Ingranaggi della Valle ci suonava davvero anni ’70, e per qualche assurdo motivo, ci si trovava anche un significato forte, in linea con il concept di “In Hoc Signo”.
Il 2013 è stato l’anno di “In Hoc Signo”, concept album dedicato alla prima Crociata. Vi va di raccontarci brevemente la sua genesi?
M.L.: Personalmente sono stato sempre un grande appassionato di storiografia. Nel 2010 avevo maturato un grande interesse nei confronti del periodo medioevale, in particolar modo per le imprese normanne in Italia. Ai tempi eravamo alla ricerca di un hobby che potesse divertirci e dare spazio all’improvvisazione.
L’idea del concept piacque subito a tutti e il tema delle crociate poteva essere un simpatico escamotage per miscelare sonorità italiane, musica etnica, ambient e jazz-rock, e rispettare l’attitudine tipicamente prog a liriche ispirate all’immaginario medievale.
F.G.: In Hoc Signo per noi è iniziato come un gioco; Mattia ed io abbiamo voluto riassumere nella musica del primo album tutto quello che ci aveva appassionato del prog targato 70’s. La line up del primo album era costituita da amici che volevano semplicemente divertirsi e suonare la loro musica, senza punti di partenza ne punti di arrivo.
Sinceramente non ricordo più il motivo per cui abbiamo scelto il concept, ovvero il momento in cui ci siamo guardati e detti “Mattì, parliamo di cavalieri e di crociate”; sta di fatto che io e Mattia abbiamo da sempre fantasticato molto e per questo abbiamo voluto immaginare come sarebbe stata la colonna sonora di un viaggio, quello di una compagnia di crociati dell’XI secolo che decidono di abbandonare la guerra per spingersi verso un percorso mistico di crescita interiore.
Negli anni la band ha vissuto alcuni avvicendamenti nella formazione. Come si arriva a questa nuova formula a sette elementi?
M.L.: Cominciammo a ragionarci durante i missaggi di In Hoc Signo. Fu il nostro primo album, eravamo davvero alle prime armi, come si suol dire. Ci rendemmo conto di aver sovrarrangiato alcuni brani, e volevamo rendessero live tanto quanto sul disco. Da qui, la decisione di introdurre un settimo elemento, che potesse suonare sia tastiere sia chitarre, laddove io e Flavio non fossimo riusciti. Bene, come potete vedere dalla formazione attuale, questa storia del polistrumentismo ci è un attimo sfuggita di mano.
F.G.: L’importante non è stato il modo in cui ci siamo arrivati, ma è stata la fortuna che ho e che hanno avuto gli Ingranaggi nel trovare Alessandro, Davide e Antonio che sono un valore aggiuntivo enorme per la nuova musica di Warm Spaced Blue.
A.C.: Dopo l’uscita dell’ex bassista, mi era arrivata voce che gli Ingranaggi cercavano qualcuno che potesse rimpiazzarlo. Io non ho fatto altro che propormi e fare qualche prova con loro, finché non hanno deciso di tenermi a lungo termine nella formazione.
A.D.S.: Io sono arrivato ormai 2 anni fa, nel 2014. Avevo appena conosciuto musicalmente Flavio e Mattia in una band parallela che avevamo al tempo, i Di Elea. Non appena mi hanno fatto ascoltare In Hoc Signo gli ho chiesto se potevo entrare a far parte del progetto e neanche un mese dopo eravamo in studio a scrivere il nuovo disco.
Concentriamoci un attimo sul fronte live. Qual è la situazione attuale di questo paese? Ci sono abbastanza spazi per poter crescere e far conoscere il proprio prodotto per una giovane band, ma già con un non indifferente “curriculum”, come la vostra?
A.D.S.: Credo molto nell’impegno e nella serietà di chi suona e investe il suo tempo nel comporre musica originale, quindi penso che la cosa importante sia cercare di portare avanti la propria arte sempre e comunque e, se uno si sbatte, le persone e le realtà che ti permettono di esibirti, di crescere e maturare le trova anche qui in Italia.
E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà, romane e non?
F.G.: Personalmente sento che ci sia uno spirito di gruppo tra le varie band della scena italiana, una specie di voglia di emergere da parte di tutti che ci accomuna, ci fa lottare insieme e che sicuramente porterà a qualcosa di positivo prima o poi. Siamo molto legati a due bellissime realtà, quelle della Fabbrica dell’Assoluto (leggi l’intervista) e dei Not a Good Sign, fantastici amici e colleghi con cui condividiamo tante idee e tanta buona musica.
A.D.S.: Il confronto c’è sempre ed è quello che fa più bene alla musica e a qualsiasi musicista, l’importante è essere aperti e pronti. Suonando dal vivo abbiamo conosciuto tante realtà diverse da noi, ognuna facente parte del grande contenitore che è il termine musica Progressiva. Mi vengono in mente i Laterath (in cui suonano anche Antonio e Davide) e i Not a Good Sign.
Come “In Hoc Signo”, anche “Warm Spaced Blue” esce per la Black Widow Records. Come è nato il rapporto con la sempre attenta, e mai ringraziata abbastanza, etichetta genovese?
M.L.: Eravamo nel 2012, e In Hoc Signo era quasi stato composto del tutto. Nonostante avessimo iniziato a comporre un cd per gioco, ci rendemmo conto che il disco aveva le potenzialità per venire prodotto da un’etichetta di settore. Così registrammo un Ep, e lo inviammo alle più importanti etichette indipendenti che trattavano il genere.
Ci risposero in molti (tra cui Raoul Caprio della mitica Kaliphonia, che salutiamo), tra i quali la Black Widow. Che dire, a volte ancora oggi stento a crederci. Produssero l’album così come glielo presentammo.
A.D.S.: Ad oggi i rapporti con l’etichetta sono ottimi. Abbiamo la massima libertà nella scelte compositive e sempre il massimo supporto rispetto alla nostra arte. Questa è la cosa più importante per noi.
Cosa dobbiamo attenderci dagli Ingranaggi della Valle per il prossimo futuro? Ovviamente immaginiamo che la promozione del nuovo album sarà il punto focale. Ci sono già altre date in programma?
F.G.: Ci sono sicuramente tre date (faccio un po’ di pubblicità!): Roma, 28 settembre al Planet Club; Milano, 15 ottobre alla Casa di Alex e Genova, 19 novembre al La Claque. Per il resto cerchiamo di spremere i nostri contatti e diffondere il nostro nuovo lavoro al meglio, con la speranza di calcare in futuro i palchi dei festival Italiani e non.
A.D.S.: Il nostro sogno è quello di andare a suonare fuori dall’Italia, non per un motto di esterofilia, ma perché suonare dal vivo è la parte più bella del nostro lavoro e vorremmo raggiungere tutti i progghettari del mondo.
Grazie davvero per la bella chiacchierata!
M.L.: Grazie a voi per l’opportunità di avere uno spazio dedicato sul sito; continuate con questo splendido lavoro. Se un gruppo può ancora contare sulla produzione di album da parte di etichette indipendenti, non lo deve solo al suo pubblico o all’etichetta stessa, ma anche alle numerose fanzine e webzine che veicolano l’attenzione dei lettori verso musica alternativa. E’ un grande contributo contro l’attuale tendenza per un modello di cultura monolitica musicale.
F.G.: Grazie a voi!
(Settembre 2016)
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