Diamo il benvenuto a Matteo Uggeri (M.U.), Cristiano Lupo (C.L.), Alberto Carozzi (A.C.) e Franz Krostopovic (F.K.): Sparkle in Grey.
M.U.: Grazie a voi! Ci fa sempre effetto essere presi in considerazione da testate orientate al prog! È un genere che nessuno di noi ascolta.
C.L.: Sarebbe bello un giorno essere un gruppo prog.
A.C.: Mio fratello è un grande appassionato di prog, magari si convince ad ascoltare i nostri dischi.
F.K.: A me il prog piace: ho un sacco di amici che si esercitavano per ore a fare scale elleniche a velocità insostenibili e con il metronomo messo sghembo per aumentare la difficoltà. L’ho sempre associato a uno sport estremo.
Iniziamo la nostra chiacchierata con un classico: come nasce il progetto solista Sparkle in Grey? E perché la scelta di tale nome?
M.U.: Ti sembrerà strano, ma nessuno in intervista ci aveva mai chiesto delucidazioni sul nome. È una cosa un po’ adolescenziale, derivante da una mia visione del mondo piuttosto cupa, quindi grigia, dove però si stagliano spesso scintille di positività. Poi mi piaceva molto il doppio significato in inglese di ‘sparkle’ come ‘scintilla’ e ‘bollicina’.
Il progetto solista era nato dopo le mie esperienze virate più sull’industrial (raccolte sotto la mia pseudo etichetta giovanile Moriremo Tutti Records), quando ho scoperto l’elettronica di stampo Morr Music e Warp. Volevo indirizzarmi verso cose più fruibili.
I primi lavori in cui compaiono tuoi brani sono “The Coldest January” (2004) e “The Echoes of Thiiings/Fadiiing Echoes” (2005). Ti va di presentarci queste prime creature?
M.U.: Sì, si tratta di lavori appunto in cui volevo cercare di sviluppare una componente melodica e ritmica. Sono molto semplici, ma ai tempi furono comunque apprezzati. “The Coldest January” fa proprio un po’ da ponte tra le due fasi, anche per il fatto che era un EP digitale sul cui altro ‘lato’ c’era Cria Cuervos, un musicista molto più vicino alla dark ambient ed alle mie precedenti frequentazioni ‘pesanti’. “The Echoes of Thiiings” invece è giù un minimo più solare, anche se abbastanza malinconico.
Come mai in seguito senti l’esigenza di riformulare il progetto tramutandolo in band?
F.K.: Ecco, perché, spiegalo a tutti Matteo, che magari lo capiamo anche noi!
M.U.: Non sapevo suonare nulla. Nessuno strumento ‘vero’, e dopo un po’ timbricamente mi sentivo limitato. Ma più che altro sono stato tirato dentro dagli altri, cioè Alberto e Cristiano; con quest’ultimo peraltro già suonavo nei Norm, una band a tutti gli effetti.
Come nasce la collaborazione tra Matteo, Cristiano, Alberto e Franz? C’erano già stati contatti artistici in precedenza tra di voi (ad esempio, appunto, il progetto Norm condiviso da Matteo e Cristiano)?
C.L.: In effetti nasce prima l’amicizia con Matteo, ci si conosce da quando si andava alle medie, e Alberto l’ho conosciuto più tardi. Cosa strana, ho sempre avuto la sensazione che un giorno si riuscisse a suonare insieme. Grazie ad Alberto poi abbiamo conosciuto Franz un valore aggiunto musicalmente ma soprattutto umanamente.
M.U.: Sì, i Norm erano un gruppo ‘aperto’ che avevo fondato nel 1996 assieme ad Agostino Brambilla, mio caro amico, con cui registravo a casa mia in modo amatoriale follie musicali a cavallo tra The Residents, Joy Division e Current 93. Nel 2000 abbiamo invitato anche Cristiano a suonare con noi. Poi lui ha dato una svolta a tutto, portandoci in saletta, al Silos, che poi è diventata per anni la casa base anche degli Sparkle in Grey. Fino ad allora non avevo nemmeno considerato l’idea di suonare fuori da casa mia.
Per chi fosse curioso è ancora attivo il sito dei Norm, con elencati tutti i 9 dischi realizzati (mai pubblicati finora): http://www.norm.moriremotutti.com/ [lascio poi a Cristiano, Alberto e Franz il compito di raccontare come siamo diventati gli Sparkle in Grey].
A.C.: Più che contatti artistici c’era amicizia. Giocavamo a pallone insieme, dopo le partite negli spogliatoi ci piaceva smentire tutti i luoghi comuni e così, invece che di figa, parlavamo di Will Oldham, Aphex Twin, Current 93. All’epoca io suonavo in un’altra band, orientata al post rock, ma avevo voglia di misurarmi con l’elettronica. Facemmo un tentativo io, Matteo e Cris e ci piacque. Poi siamo stati aiutati dal destino, un amico mi invitò a suonare in un festival al Boccaccio di Monza con l’altra mia band che si chiamava Yakudoshi, ma con loro eravamo un po’ in stand by e così ho chiesto a Matteo e Cris se volevano debuttare così, al volo, dopo tre prove e quattro brani in repertorio, e il concerto andò molto bene, tanto che la stessa sera ci invitarono subito per altre serate, e così iniziammo a divertirci subito. Franz si è unito qualche tempo dopo. Suonava nei Pulp_ito, una band che adoravo, e mi disse che cercavano un bassista. Io musicalmente volevo fare altro, e chiesi a Franz se piuttosto non volesse lui suonare in questo progetto…
F.K.: Avevo la mission di portare via agli Sparkle in Grey il bassista. Mi sono trovato a suonare con loro. Da lì in poi suono sotto pseudonimo.
La vostra produzione come quartetto, dal 2007 ad oggi, è davvero numerosa: “Nefelodhis” (con Maurizio Bianchi), “A Quiet Place”, “Whale Heart, Whale Heart” (con Tex La Homa), “Goose Game EP”, “Mexico”, “Thursday Evening”, “The Calendar”, “Perversions of the Aging Savant” (con Controlled Bleeding), “Brahim Izdag”. Dal progetto solista di musica elettronica al “post rock-etnico-sperimentale” di “Brahim Izdag”, com’è cambiato, dunque, il vostro modo di fare musica negli anni? Quali sono le vostre fonti di ispirazione, se ci sono? E, per Matteo, quali sono le differenze sostanziali tra l’avventura solitaria e quella collettiva?
A.C.: Alcuni dischi sono stati creati insieme, in sala prove, praticamente dall’inizio alla fine, e rappresentano un periodo ben circostanziato. Altri, invece, sono più estemporanei, a volte improvvisi e istantanei, altri talmente lenti da accavallarsi con altre differenti produzioni. Le fonti di ispirazione sono moltissime, e molto soggettive, e non necessariamente solo musicali, o riferite a uno stile musicale. Se una cosa ci incuriosisce, proviamo a farla nostra.
F.K.: Negli anni abbiamo imparato a codificare l’improvvisazione, che ognuno di noi intende in modo diverso rispetto al suo gusto, ai suoi riferimenti, a quello che in fondo è. I nostri brani sono come quattro uomini apparentemente normali che si trovano a litigare in un bar. Ognuno vorrebbe tirare il primo pugno, ma sa che le prenderebbe, quindi rimane una tensione allucinante che penso sia la cifra del nostro suonare insieme e di volerci bene.
M.U.: Tutto! Cambia tutto! Più compromessi ma anche tanti stimoli in più. E ci si diverte di più insieme. Però le difficoltà organizzative a volte sono tali che serve trovare una forma di espressione anche solitaria, più immediata.
Nella recensione ho definito “Brahim Izdag” “un album eccentricamente e coscientemente cosmopolita” caratterizzato da “musica non etichettabile (in senso buono)”, una caratteristica, quest’ultima, che si riscontra anche in altri vostri lavori. Ma come nasce un brano degli Sparkle in Grey? E una curiosità: perché dedicare l’album in questione allo sciatore marocchino Brahim Izdag?
C.L.: Sostanzialmente ci si ritrova a cena prima di suonare e si discute su vari argomenti. Poi in sala prove si cerca di tradurre in musica il vissuto dei giorni precedenti.
A.C.: Lo sradicamento riserva molte insidie, e spesso chi lo vive è atteso da frustrazioni e fallimenti. Cadi, ti rialzi, riparti, e poi di nuovo cadi, ti rialzi, e riparti, fino in fondo. In un mondo che è molto lontano e diverso da casa tua. Volevamo dar voce a questo punto di vista, pensando a quello che succede intorno a noi, e anche pensando alla musica che abbiamo proposto in questi dieci anni. L’impresa di Izdag ci sembrava una bella sintesi.
In “Brahim Izdag” molto nutrita è la schiera di collaboratori. È stato semplice trovare un “punto d’incontro” con tante personalità diverse?
F.K.: Le chiamiamo al bar e le provochiamo. Poi si crea un mexican standoff nel quale ci sentiamo a nostro agio.
M.U.: Non sempre, di volta in volta è diverso… ma in genere tutti quelli con cui collaboriamo sono persone aperte e flessibili. Gli altri di solito rifiutano direttamente.
“Brahim Izdag” è stato registrato nelle stesse sessioni dei precedenti “Thursday Evening” e “Idiot Savant”. Era già tutto nella mente degli Sparkle in Grey o i brani per i tre lavori sono nati “cammin facendo”? Affermate, inoltre, che “con “Thursday Evening” prima e “Brahim Izdag” poi abbiamo preso una strada diversa, più incazzata nel primo, molto più ‘etnica’ nel secondo”. Come mai questa “svolta”?
A.C.: No, non direi che era già tutto in testa, però c’era la sensazione che tutto quel materiale nato contemporaneamente non fosse parte di un unico blocco e raccontava cose differenti, per cui in maniera abbastanza spontanea si sono creati tre album differenti. Per noi è tutto molto chiaro, ma quei termini sono solo i nostri punti di vista, non significa che chi ascolta debba tenerne conto.
M.U.: Lavoriamo spessissimo su tanti brani in parallelo, che poi man mano prendono posto nelle scalette di dischi diversi, a seconda di una sorta di semantica nascosta nei pezzi che andiamo discoprendo piano piano. A un certo punto capiamo cosa rappresentano per noi, cosa significano, e su che disco vanno.
Nei vostri lavori la veste grafica, affidata ad immagini particolari e piuttosto esplicative, ricopre un ruolo fondamentale. Ma cosa nasce prima, la musica o l’artwork?
M.U.: Spesso nasce tutto assieme. Anche il tema dei dischi… di solito va tutto in parallelo e quindi usiamo spesso i miei schizzi per le illustrazioni come giocosa ispirazione delle musiche. Oppure ci accorgiamo che i brani stanno prendendo una certa piega e da questa nasce un concept che poi traduciamo in modo visuale. Dipende! Con due dei dischi ci siamo affidati ad illustratori esterni (Bernardo Carvalho e Jeffrey Postma) perché io non avevo idea di come illustrarli, non me la sentivo.
Negli anni, nei vostri lavori, è aumentato anche il vostro impegno politico e sociale, un impegno che, vista la preponderanza di brani strumentali, è esplicitato soprattutto dalle vostre scelte musicali e dai titoli dei brani. Qual è, dunque, la visione della società attuale degli Sparkle in Grey?
M.U.: Sì, diciamo che l’interesse verso una dimensione politica è andato crescendo di anno in anno, a partire da “Mexico” e il controverso brano “Sunrising” con la voce di Salvatore Borsellino… Appunto, noi però facciamo musica strumentale, quindi non cantiamo, non lanciamo proclami diretti, non ci sentiamo in grado di farlo. Suggeriamo e ci esprimiamo in modi diversi, forse altrettanto diretti, come dite voi: titoli dei brani, grafiche, schede stampa. Anche il continuare a fare una musica del genere è un messaggio politico di resistenza pubblica.
A.C.: Difficile avere una visione della società attuale, una visione lucida intendo. Più facile avere una visione di quel frammento che si attraversa, e l’ideale sarebbe fare in modo che sia più bello possibile, fin dove ci si può spingere.
C.L.: Sono un fan di Star Wars. Mi sento dalla parte della ribellione.
F.K.: Come la nostra musica. Senza parole.
Soffermandoci, invece, per un attimo su di un tema specifico quale quello musicale, qual è la vostra opinione sulla scena attuale italiana? C’è spazio per una proposta particolare come la vostra?
C.L.: Non credo. Penso si debba migliorare ancora per poi dimenticare il tutto e poi cantare di bar Mario, fossi e popcorn.
A.C.: Lavorando in una scuola spesso vengo a contatto con i gusti musicali di ragazzini preadolescenti e adolescenti, e trasversalmente mi sembra che il rap stia diventando di gran lunga il principale se non unico genere musicale di riferimento. La parola rock suona come qualcosa di vecchio. Ovviamente un po’ mi dispiace, ma se poi vai a scavare, oltre la massificazione, i codici e l’abbigliamento, c’è tanta voglia di espressione. Per quanto ci riguarda tutti dovrebbero avere i nostri dischi, e tutti sarebbero felicissimi di conoscere la nostra musica. Bisognerebbe imporla per legge.
F.K.: Giustamente non c’è spazio per una proposta come la nostra, già quelli bravi davvero fanno fatica.
Vi va, dunque, di fare un primo bilancio del progetto Sparkle in Grey che ormai corre verso i vent’anni di attività?
A.C.: Vent’anni? Sticazzi!
M.U.: Urka! Difficile! Resistiamo, ecco tutto, nonostante infinite difficoltà. Nel fare un bilancio abbiamo cercato di mettere su disco un po’ di testimonianze live, che sono raccolte nel lavoro “Es Prohibido Cantar – Live 2005-2015”. Per chi è curioso consiglio di ascoltare quello.
C.L.: Mi piace pensare che il meglio debba ancora accadere.
F.K.: A vent’anni sembra tutto ancora intero, come cantava Guccini.
Siete già alle prese con la realizzazione di un nuovo album. Vi va di anticiparci qualcosa? Ci sono altre novità nel mondo Sparkle in Grey?
A.C.: Abbiamo appena registrato un nuovo disco, ma per la pubblicazione passerà ancora del tempo. Si chiamerà Milano, ed è tutto in do minore.
M.U.: Ci siamo scambiati di nuovo gli strumenti, dato che al Cris è venuto il guizzo di suonare praticamente solo il sax. Quindi sarà molto diverso dagli altri dischi. Come tutti i nostri dischi.
F.K.: Volevamo solo lasciare traccia scritta che l’idea delle palme in Piazza Duomo è nostra, ne abbiamo le prove.
Grazie mille per la bella chiacchierata!
Sparkle in Grey: Grazie a voi!
(Maggio 2017)
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