IL GIARDINO ONIRICO
Apofenia (2019)
Lizard Records
“Osservazione immotivata di connessioni [tra fenomeni accompagnata] da una precisa sensazione di anormale significatività”. Così, nel 1958, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad definiva l’apofenia, riferendosi ad una delle fasi della schizofrenia. In sostanza, e senza entrare in una dimensione patologica, la nostra mente percepisce, o “crea”, connessioni, schemi e/o significati tra dati o eventi indipendenti tra loro, distorcendo la realtà. Ed è lo stesso Conrad che, in seguito, lega l’apofenia anche alla creatività sostenendo che le persone più creative sono abili nel cogliere collegamenti insoliti tra cose diverse e prive di interconnessioni.
È, dunque, con questa premessa che ci si appresta ad accogliere il nuovo album di Stefano Avigliana (chitarre), Dariush Hakim (tastiere), Ettore Mazzarini (basso), Massimo Moscatelli (batteria, percussioni) ed Emanuele Telli (tastiere): Apofenia.
Avevamo lasciato Il Giardino Onirico nel 2013 con “Complesso K MMXIII” ed ora il quintetto laziale si ripresenta con un lavoro che ne sancisce un sostanzioso passo in avanti, proiettandoli definitivamente verso la piena maturità progressiva.
In Apofenia, e nei suoi sette lunghi episodi, ci sono il coraggio e la passione, la tecnica e la creatività di cinque musicisti che, forti delle basi poste nei primi due album, in quelle atmosfere penetranti, cupe ed avvolgenti, in quel prog massiccio e sognante allo stesso tempo, si spingono oltre, calcando ancor più sulla componente “nera”, rendendola “tangibile”, magnetica, teatrale, lasciando respirare l’ascoltatore per poi afferrarlo stretto alla gola.
A rendere ancor più preziosa l’opera ci pensano gli ospiti: Alessandro Corvaglia (voce e parole in Scivolosa Simmetria e Un nodo all’anima), Jenni Sorrenti (voce in Mushin), Jenna “Sharm” Holdway (voce in Lacrime di stelle), Fuori dal coro (coro in Alétheia), David Morucci (sax in Alétheia e Apogeo) e Claudio Braccio (sax in Lacrime di stelle).
E prima di passare all’ascolto vale la pena “perdersi” nel potere evocativo dei disegni di Marco Marini, una sorta di interpretazione personale delle macchie di Rorschach.
È lungo il percorso che porta al cuore del brano d’apertura, Onironauta, una stratificazione avviluppante di suoni e umori scuri (un po’ gobliniani e un po’ teutonici) che cresce costantemente e che, d’un tratto, impazzisce per poi ritrovarsi tra le spire incandescenti di Avigliana. Sarà lui a catalizzare (per cederle poi ai compagni lungo il percorso) tutte le forze e le attenzioni dei colpi massicci di Moscatelli, dell’indomito Mazzarini e delle policrome tastiere di Hakim e Telli, con soluzioni sempre diverse e ipnotiche. Lungo gli oltre dodici minuti dell’episodio, sempre coperti e “pressati” da una cappa nera impenetrabile, i cinque danno vita ad un articolato flusso sonoro in cui trovano spazio Nine Inch Nails, Annot Rhül, Transatlantic, Ingranaggi della Valle e altro ancora: un turbinio emotivo straordinario.
Con Scivolosa Simmetria le tastiere monopolizzano subito la scena e, mentre l’indiavolato piano alla Boccuzzi (Festa Mobile) in “La corte di Hon” scatta in avanti, i secondi tasti s’aggrovigliano alle gambe con pesanti tentacoli neri. Gli altri effettivi seguono a ruota edificando un altissimo castello inespugnabile che apre le porte alla calda voce di Alessandro Corvaglia. E con estro invidiabile Il Giardino Onirico procede offrendo una sfilza di ottimi momenti cangianti attraverso l’ottimo lavoro “metronomico” delle ritmiche e le inestricabili tessiture di chitarra e tastiere, muovendosi abilmente tra tecnica e melodia e concedendo tutto lo spazio necessario all’ospite, in un crescendo di pathos eccezionale.
Ariosa e luminosa prende corpo Alétheia con il dolce piano che, gradualmente, cede spazio ai carezzevoli ricami di Avigliana, in un poetico quadro alla Celeste con tocchi di Eveline’s Dust. Poi tutto muta, s’incattivisce, e Il Giardino Onirico inizia a vorticare furiosamente, proiettando magma fuso che cola senza ostacoli dalla bocca del vulcano. E se il sax dell’ospite David Morucci e la chitarra di Avigliana si fanno “notare” di più, un passo indietro batteria, basso e tastiere plasmano mondi incredibili. Poco oltre metà percorso tutto si spegne, un “buio sonoro” squarciato, timidamente, da chitarra e organo. E, lentamente, il “mostro” si ridesta e riprende a correre attraverso lande solenni e teatrali, con il coro Fuori dal coro che accentua a dismisura la carica cinematografica del brano.
Mushin si materializza con il “discordante” percorso a due suoni “trascinati”/colpi netti. E poi compare l’inconfondibile voce di Jenny Sorrenti: quel timbro così personale e unico, quel canto viscerale e doloroso, conferiscono al brano profondità e magia. E intorno, i cinque le tessono broccati d’oro e seta. E quando Jenny si fa da parte, la band continua a pennellare meraviglie senza sosta, tra chiaroscuro e neo-prog, prima dell’inquietante finale alla Trent Reznor.
Dopo una lunga intro “diluita” e fantasy, le sferzate di Avigliana, Mazzarini e Moscatelli, avvolte dalle stratificazioni oscure delle tastiere, ci aprono le porte nere di Apogeo. Tenebroso il cammino che ci conduce allo sfogo canterburyano alla Van der Graaf Generator con il sax di Morucci trascinatore. E poi si procede granitici, tra Haken e Soen, con i ritmi ossessivi della coppia ritmica e le sfuriate incontenibili di tastiere e chitarre. E Il Giardino Onirico corre, corre senza fermarsi mai. Chapeau!
Primi minuti di Un nodo all’anima “scarni”, se confrontati con quanto ascoltato sinora. Un percorso intenso e quasi lineare a due chitarra/voce, con piccole decorazioni apposte dai restanti effettivi. Ed è proprio la vocalità di Corvaglia a donare i colori al brano, finché presente. A metà percorso tutto deflagra in una sfuriata prog metal. Poi torna l’ospite vocale ma intorno trova tutt’altra atmosfera: spigolosa, aspra, inquieta. E se nei primi brani, i lunghi frammenti davano, seppur nella loro complessità, quasi stabilità all’ascoltatore, con Un nodo all’anima la band si diverte tantissimo a non offrire appigli, modificando ripetutamente il proprio tortuoso percorso.
La sofferenza palpabile del sax, suonato dall’ospite Claudio Braccio, è il conduttore delle prime (lunghe) battute di Lacrime di stelle. E anche chi gli è a stretto contatto fa proprio il dolore provato dall’ottone. Poi Il Giardino Onirico approda su lande al confine tra Banco del Mutuo Soccorso ed Old Rock City Orchestra, preparando il terreno ai vocalizzi eterei di Jenna “Sharm” Holdway. Tanta intensità è ciò che viene fuori nel prosieguo sino a quando il quintetto spicca il volo con superlativi grovigli di note e cavalcate imponenti, un flusso che esplora tutte le sfumature del nero concedendosi anche brevi lampi mediterranei. E ancora quel misto di quiete e tensione, tanto caro agli Eveline’s Dust o ai Basta!, che si fa corpo quando ancora manca molto alla conclusione e che si fa denso, sfarzoso, sinfonico, prima di abbarbicarsi nuovamente all’ottone di Braccio, a sua volta avvinghiata stretto agli ultimi eccellenti sfoghi dei compagni.
È davvero valsa la pena attendere sei anni dall’ultimo lavoro per quello che è di certo uno dei dischi di punta del 2019 in casa Lizard.
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