A Lifelong Journey (2019)
Autoproduzione
Quando nel tuo curriculum annoveri “condivisioni di palco” con Martin Barre e Clive Bunker (Jethro Tull), Ian Paice e Don Airey (Deep Purple), Vittorio e Gianni Nocenzi (Banco del Mutuo Soccorso), Aldo Tagliapietra e Tony Pagliuca (Le Orme), Bernardo Lanzetti e Giorgio “Fico” Piazza (PFM) ed altri ancora, oltre ad essere membro dei Beggar’s Farm, allora le aspettative sul tuo primo album sono davvero alte. Ed è con queste “premesse” che ha preso corpo il progetto del duo Mauro Mugiati/Brian Belloni, poi divenuto A Lifelong Journey a lavoro ultimato.
A Lifelong Journey è un lungo brano di oltre cinquanta minuti diviso in due parti e tredici tracce, un concept album che Mugiati presenta così: La tematica del lavoro discografico è il viaggio di ognuno di noi dentro la società. Racconta di un individuo che dalla nascita, sin dall’infanzia, cerca di trovare il proprio posto nel mondo. Ma alla fine, dopo vari tentativi e numerose esperienze, non lo trova. Decide allora di farla finita. La conclusione dell’album rievoca il suicidio, ma qui la morte non è forzatamente definitiva, anzi è più una liberazione, un momento catartico a cui potrebbe seguire altra vita. Gli argomenti affrontati, in ogni caso, non sono solo il suicidio e la ricerca della propria identità: si parla anche di amore e di diversi tipi di dipendenze, positivi e negativi (da “La provincia Pavese”).
E questo viaggio “spigoloso” che, come ben rappresentato dalla copertina del disco realizzata da Mirko Filippelli, non ha bisogno di un volto reale per rappresentarne il protagonista, si concretizza attraverso un perfetto connubio di suoni e testi. Musicalmente siamo al cospetto di un album che si presenta come un caleidoscopio di influenze, “citazioni”, emozioni, quasi una summa delle esperienze e delle passioni musicali del duo. Una miscela di suoni vintage e moderni, l’incontro tra hammond, Fender Rhodes, mellotron e suoni sintetici del nuovo millennio, tutto condito da un notevole parco chitarre e ritmiche dal “giusto peso” che Mauro Mugiati (voce, tastiere, basso, chitarra acustica) e Brian Belloni (chitarra elettrica ed acustica, lap steel guitar, batteria) “affrontano” con disinvoltura e fare da veterani.
Part 1 prende il via con Overture. Dopo i primi secondi molto “cinema in bianco e nero”, i due proprietari del marchio A Lifelong Journey si lanciano a capofitto in atmosfere sinfoniche, un po’ alla Barock Project, con le fantasticherie luminose della tastiera a guidare ritmiche e chitarre. Sono questi ultimi due a far poi capitolare il tutto in un gorgo tenebroso, cui s’accodano i tasti gobliniani di Mugiati. E non è tutto: freschi “saltelli” e galoppate articolate 100% progressive chiudono la breve ma intensa opener.
Rapida, tirata dalla batteria di Belloni e dalle tastiere di Mugiati, si presenta Streets of Empathy. E c’è anche la presenza della voce che, ben assistita dall’articolata struttura sonora, ci catapulta in territori The Flower Kings. E anche il secondo capitolo, seppur ancora una volta (troppo) breve, ha tanto da dire. […] Traveler, voyager, beggarman, / out in a world you still don’t understand. / All the pages waiting to be seen / but the writer hid the spectacles, you cannot read.
Solenne e malinconica appare The Shadow, un mix sapiente di Latte e Miele e Saint-Preux, con tocchi floydiani. Il seguente cammino a braccetto acustica/voce muta tutto proiettandosi in territori cantautorali, un po’ sixties, un po’ nineties, e anche i dettagli che vanno ad arricchire in seguito il loro operato restano in quel seminato, portandosi solo infine verso lidi alla David Bowie. […] All the things you do are gonna build your fate, / feel the pressure of the choices we made. / Fear will chase you every other step you take, / find the strength to be the one to create a way to escape / from the prison in your head.
Spigolosa e fosca entra in scena Illusion, con il suo vorticoso flusso che avviluppa con spire tooliane. Poi tutto si fa granitico, prima di precipitare tra i tasti “eccitati” di Mugiati e le corde del menestrello Belloni. E si prosegue ancora con “tanta roba” nel quarto brano degli A Lifelong Journey, tra andature mediterranee e atmosfere evocative e polimorfe alla Eveline’s Dust o Liquid Shades, sino alle sfuriate finali. Tutto fa di Illusion una delle vette dell’album. […] I can feel I am losing touch; / I’m upside down, I’m spinning fast. / No more barriers, I’m free at last […].
An illusion, dissolving all the pain / leaves you numb and out of phase. / You’re still building the prison in your head, / there’s nobody left to blame […]. Una piacevole commistione di sensazioni britanniche ed italiane molto settantiane apre Reality. E se nel frammento cantato i giri sembrano calare, ciò che viene dopo è una deflagrazione di colori guidata dalle tastiere e retta alla grande dalle ritmiche, con la chitarra di Belloni che mette il proprio sigillo successivamente. Esaltante il finale genesisiano.
La prima parte del concept album si chiude con The Shadow (Reprise) e, con essa, tornano le galoppate maestose alla Glass Hammer, piogge torrenziali di note che precipitano dalle mani di Mugiati e “bagnano” le nevrasteniche pelli di Belloni. Appassionato il canto che segue, prima che l’episodio si lasci andare tra le corde “semplici” della chitarra.
Reflections from the Window. Lenta si apre Part 2, con quel monologo “antitetico” di piano che poi muta in un corposo dialogo a più voci. Quasi “nuda” compare in seguito la voce di Mugiati. L’unico “indumento” che viene a coprirlo è la chitarra minimalista di Belloni, tutto un po’ Jeff Buckley. E poi il brano acquista luce e vigore portandosi tra le note di Di Cioccio e soci, con una “tempesta” imprevista che arriva, sul finire, come uno schiaffo in faccia.
Disillusion. Take a look at yourself, where are you headed now? […]. E con le tastiere acide di Mugiati, gli A Lifelong Journey ci portano indietro di oltre cinquant’anni. Ottimo il lavoro delle ritmiche, prima dell’avvento della voce. E con una torsione verso i Genesis, con spazio concesso anche al breve assolo di Belloni, questo capitolo ci consegna ancora una volta un duo che dimostra di avere tante frecce nel proprio arco.
Ruvidissima si presenta Fate, un ordito inestricabile di batteria, basso e chitarra che s’aggroviglia ancor più quando entra in scena la voce filtrata di Mugiati, tra il Greg Lake di “21st Century Schizoid Man” e Trent Reznor. E l’aurea King Crimson è percepibile in più punti del brano, mentre, solo durante i due incisi, il “cielo” si schiarisce. […] I don’t care what they say, I keep on living my way. / All teachers, all saints, a few steps closer to grave […].
Dopo il sasso lanciato con il brano precedente, il duo si ammorbidisce con la poetica Open up. Un soffice flusso voce/chitarra, così come teneri appaiono gli interventi “essenziali” di tastiere. Tutto molto ballad.
We stay and we go, we walk the road to find the places where we belong. / I tried to reach my piece of mind, a spot of happiness, a glimpse of light, / another way to break the chain, a love that would release my pain, / another reason to create a better life and a better fate. / I’m giving up, I can fight no more, tonight you’ll see me walking through the door […]. Si torna a volare con l’esplosiva Where we Belong, con la sua andatura piuttosto tirata (nella prima parte) e le policrome scelte sonore, tutto decisamente “non italiano”.
Memories è un breve divertissment strumentale, fatto di fughe infinite di tastiere e chitarra e con le ritmiche degne sostenitrici che “cadono” solo verso il finale. Chapeau!
E (quasi) tutte le sfumature mostrate nei dodici brani precedenti vengono racchiuse nel poco più di un minuto che chiude l’album: Streets of Empathy (Reprise). So your time has come, you died today, it is the end of all the pain […].
E quando il disco smette di suonare realizzi che le aspettative iniziali sono state ampiamente superate. Album da applausi.
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