ALCÀNTARA
Solitaire (2020)
Progressive Gears
Un destino particolare quello vissuto da Solitaire, l’esordio discografico della band siciliana Alcàntara. L’album, inizialmente, è uscito nel 2019, autoprodotto. Poi il caso ha voluto che uno dei brani giungesse all’orecchio dell’etichetta irlandese Progressive Gears: “amore a primo ascolto”. Da qui il contatto immediato e la meritata ripubblicazione dell’opera.
E il concept album Solitaire, una dichiarazione di Resistenza che, attraverso i suoi testi denuncia il declino della società e della classe politica, chiamando tutto il popolo a unirsi e a resistere, si sviluppa attraverso atmosfere oniriche, malinconiche e avvolgenti, ballate cupe che miscelano elementi space e post rock, momenti “sospesi” che si muovono tra Mogwai e Sigur Rós, con il “fantasma” dei Pink Floyd che veglia dall’alto.
In Solitaire, accanto ai padroni di casa Francesco Venti (chitarra, tastiere), Sergio Manfredi (voce), Alessio Basile (batteria), Salvo Di Mauro (chitarra) e Sebastiano Pisasale (basso), troviamo anche gli ospiti Gionata Colaprisca (percussioni in Treefingers), Andrea Quarolli (basso in Bad Bones), Saro Figurra (batteria in Treefingers e Seasons), Alessio Bannò (organo hammond in Logan) e il coro di Susanna, Nino, Dalila, Diego, Elisa, Giovanna e Logan in Faith.
Il disco si apre con Treefingers che appare lentamente coi suoi lineamenti evanescenti. Pochi suoni atmosferici che creano un labile sottofondo malinconico per Manfredi. La sua voce è calda, magnetica, e regge ottimamente la situazione che, con l’emergere del carezzevole piano di Venti, acquista più dolcezza. Morbidamente, con quel tocco floydiano che non guasta, l’episodio iniziale di Solitaire procede sino a mutare fisionomia con l’“attivazione” di ritmiche e chitarre, per poi lasciar esplodere il canto di Manfredi (con un pizzico di Matthew Bellamy dei Muse).
L’organo hammond suonato dall’ospite Alessio Bannò nell’apertura di Logan ci conduce, quasi naturalmente, indietro di decenni, con qualche sentore di Old Rock City Orchestra che non dispiace. Il brano si sviluppa poi sottoforma di ballata rockeggiante d’oltreoceano, con le chitarre ben presenti. E dopo una “sosta”, ampio spazio al notevole assolo di Venti.
È poi la volta della instabile Bad Bones. Se la prima parte (ripresa, in seguito, sul finire) è piuttosto tenera, con Manfredi che tiene su il brano brillantemente, avviluppato dai mai eccessivi interventi degli altri effettivi e con piccoli picchi un po’ alla The Smashing Pumpkins, la seconda è di quelle che valgono il “prezzo del biglietto”: un delirio cupo alla The Mars Volta, un mulinare di suoni in cui la batteria di Basile e il basso dell’ospite Quarolli, su tutti, agiscono senza freni.
Altamente atmosferica e suggestiva la partenza di After The Flood. Tutto è vacuo, con la chitarra pizzicata quasi con riverenza da Di Mauro che si sovrappone lievemente al canto di Manfredi, “disturbato” da un vociare indistinto. E poi i tasti di Venti innescano un primo cambio nel percorso, chiamando a sé Basile e Pisasale e lanciando il lungo e descrittivo assolo interpretato dallo stesso Venti. E quando si “raggiunge la riva”, tutto si fa maggiormente malinconico, con Di Mauro che fa nuovamente sua la scena con un nuovo assolo toccante.
La breve Solitaire è una pennellata acustica, intensa, decadente e molto avvolgente.
Melliflua e rilassata ci accoglie Faith, con il suo passo lento, i suoi suoni di chitarra diluiti e il canto ammiccante. E poi le corde di Di Mauro prendono le redini del brano e suonano la carica con le ritmiche che non si fanno di certo pregare, almeno in parte. E negli ultimi minuti, quando tutto si fa più denso e “scottante”, l’amore per i Pink Floyd emerge completamente con quella sensazione di “Welcome to the machine” e quella “quasi citazione” di “Another Brick in the Wall” affidata al coro Susanna, Nino, Dalila, Diego, Elisa, Giovanna e Logan.
Cosmica e spirituale The Resistance, con il suo lungo flusso etereo e un po’ battiatiano che fascia materno il canto sensuale di Manfredi, collocato tra Nick Cave e Johnny Cash.
A chiudere Solitaire troviamo la “sospesa” Seasons. Tutto è minimale nelle prime battute, quasi impalpabile. Saranno le chitarre ad aggiungere, gradualmente, un po’ di pepe all’episodio che Manfredi e, in seguito, tastiere e ritmiche, faranno propri sino a sfociare in territori post rock. E poi Venti mette il sigillo con un nuovo soliloquio prima dello scampanellio finale.
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