Intervista ai Jana Draka

Diamo il benvenuto a Valerio Magli (V.M.), Danilo Pantusa (D.P.), Giorgio Belluscio (G.B.), Federico Aramini (F.A.) e Valentina D’Angelo (V.D’A.): Jana Draka.

V.M.: Grazie mille, è veramente un piacere!

D.P.: Grazie.

G.B.: Salve, è un onore essere tuoi ospiti!

F.A.: Salve!

V.D’A.: Grazie!

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Jana Draka e cosa c’è prima dei Jana Draka nelle vite di Valerio, Danilo, Giorgio, Federico e Valentina?

V.M.: Temo che la colpa di tutto questo sia mia. Era il 2014 e il gruppo con cui suonavo aveva appena deciso di ritirarsi dalle scene, così ho iniziato a cercare elementi per formare un gruppo nuovo per suonare in giro. Se quel giorno mi avessero detto che avremmo fatto tutto quello che abbiamo fatto probabilmente non ci avrei creduto.

D.P.: Era dal 2010/2011 che si parlava con Valerio di formare una band, ma non ci fu mai l’occasione. Lui aveva iniziato a suonare in una band metal mentre io ero alle prese con i miei primi lavori come turnista per piccole formazioni o artisti calabresi. Poi, nell’Ottobre del 2014 mi ricontattò dicendomi che il momento era giunto.

G.B.: Ho iniziato a suonare in modo “professionistico” circa dieci anni fa, ed è stato proprio nella mia prima band (i Vanyar) che ho conosciuto Valerio: posso dire che finora la mia carriera è stata sempre in qualche modo legata a lui!

F.A.: Ho conosciuto i Jana Draka grazie a Danilo. Prima di loro ho suonato anche in altri progetti progressive ma per lo più riguardanti cover band. Per i progetti originali sono sempre scettico ma, dopo aver sentito alcune preproduzioni, la band mi ha subito colpito ed ho accettato. Non avevo mai suonato in un gruppo con più di un tastierista.

V.D’A.: Ho iniziato a suonare con i Jana Draka un anno fa, prima di allora non ero mai stata in un gruppo del genere a livello di sperimentazione. Studiavo in un’accademia musicale e suonavo prevalentemente con gruppi Pop, Rock e cantautori. Mi è stato proposto di entrare nella band e dopo aver ascoltato i brani ho subito accettato, anche con l’intenzione di mettermi alla prova!

Jana Draka: come si arriva alla scelta del nome e cosa significa?

V.M.: Danilo ancora sta cercando la traduzione esatta del nome, ma la verità è che sono due parole uscite durante una conversazione con un caro amico appassionato di esoterismo, e mi colpirono talmente tanto per il suono che avevano che fu amore a prima vista. Quello doveva essere il nome del gruppo: Jana Draka.

D.P.: Sì, anche io lo trovo molto “musicale” come nome e sì, per quanto riguarda il suo reale significato, ancora non credo di averlo trovato. So che la Jana è un tipo di fata della mitologia sarda e che, prima ancora, era la degradazione del nome Diana, che in tutto il Mediterraneo aveva rimpiazzato il ruolo della Dea Madre. Anche in ebraico esiste il nome Jana che può essere tradotto come “grazia di Dio”. Per quanto riguarda Draka invece, troviamo questa radice in moltissime lingue e in generale ha sempre il significato di Drago o Serpente. Mi sono imbattuto in alcune possibili traduzioni come “discendenti del serpente” o “stirpe del drago” ma in tutta onestà mi sento molto lontano dal suo reale significato.

Dalla nascita del progetto nel 2014 alla pubblicazione dell’EP “Introspection” (2016), il passo è relativamente breve. Vi va di narrare il percorso che vi ha portati dalla prima nota scritta su carta al vostro esordio discografico e, dunque, la genesi dell’album?

V.M.: Penso sia stata semplicemente una necessità, un istinto. A un certo punto eravamo pronti a smettere di provare sui brani di altri. Io avevo un paio di brani abbozzati, ma già datati e ne stavo scrivendo un altro proprio in quel periodo, e, visto che si iniziava a formare un sound, ci siamo messi a lavorare su quelle idee e abbiamo tirato fuori i brani che poi hanno formato questo lavoro. Ci siamo chiusi in studio e abbiamo con calma cercato di capire cosa potevamo fare con i mezzi che avevamo a disposizione, iniziando con delle demo, poi delle preproduzioni e poi le registrazioni effettive, e nel frattempo continuavamo a buttare giù idee (molte delle quali sono poi confluite in “Where the Journey Begins”).

I primi anni di vita dei Jana Draka sono piuttosto “turbolenti” e il progetto vede diversi avvicendamenti in formazione. Come mai, Valerio e Danilo, giungete alla drastica decisione di trasferirvi a Roma e ricominciare tutto da zero?

V.M.: Penso che la risposta sia in parte nella premessa alla domanda. Eravamo rimasti soli in una terra dove purtroppo essere musicisti non è considerato un’attività seria e dove i pochi che la prendono seriamente non erano disposti a seguirci, mentre chi lo aveva fatto fino a quel momento ha preferito battere altre strade in favore di progetti forse meno impegnativi.

D.P.: Far parte di un progetto che si pone determinati obiettivi non è facile. Richiede impegno, soprattutto mentale, e capacità di credere e perseguire gli stessi ideali. Con queste premesse trovo abbastanza naturale che molti non riescano a stare al passo. Roma è una città molto più grande e che, per forza di cose, offre più possibilità.

Settembre 2018, prende il via l’esperienza “Jana Draka 2.0”. Come e quando avviene la “collisione” con Giorgio, Federico e Valentina?

V.M.: Giorgio aveva già lavorato con noi come session man in “Introspection” ed era da anni che cercava di convincerci a salire a Roma. Federico invece è stato suggerito da Danilo. Loro due si erano incontrati in una band e subito è scattata una forte affinità visti anche gli ascolti in comune. Valentina, invece, è stato un fortuito caso. Nonostante studiasse nella stessa accademia in cui studiava Federico e conoscesse un batterista con cui suonava Giorgio, ci venne suggerita da un amico di Danilo. E non puoi immaginare la sorpresa e le risate quando scoprimmo che abitava a cento metri di distanza da dove lavoravamo!

Il 2019 è l’anno di “Where the Journey Begins”, il primo lavoro romano. Vi va di presentarlo e di raccontarci il “dietro le quinte” del lavoro?

V.M.: Beh, come già anticipato, la maggior parte delle idee era già più che sbozzata, tuttavia lavorare con persone nuove ha portato alla luce alcuni difetti e ha arricchito di molto gli arrangiamenti per ottenere quello che oggi è “Where The Journey Begins”. Quest’album, come anche il titolo suggerisce, è un nuovo inizio. Dopo un’introspezione durata anche troppo tempo, questa è una creatura che sta scegliendo una direzione in cui andare, e che appunto inizia il suo viaggio insieme a noi.

D.P.: “Where the Journey Begins” è un viaggio. Un viaggio iniziato da Valerio e me nel 2016 (anno in cui iniziammo a scrivere i brani finiti poi al suo interno) e che ha terminato la sua prima meta nel 2019 grazie a Valentina, Federico e Giorgio. È stato un lavoro molto lungo, visti i già citati cambi di formazione e problematiche varie, ma alla fine ne siamo venuti a capo. Adesso bisogna però raggiungere un maggior numero di pubblico per avere il loro riscontro.

G.B.: È un ponte tra ciò che gli Jana Draka erano e ciò che sono. Grazie anche alla inedita esperienza di lavorare con un altro tastierista, ho cercato di concentrarmi sul tirare fuori un sound corposo, attento più alla portanza dei brani che alla ricerca del virtuosismo.

F.A.: Inizialmente per me è stato molto confusionario in quanto la band dava per scontato strutture e parti per nulla facili. Solo dopo alcuni mesi sono riuscito ad entrare nel mood degli arrangiamenti. La maggior parte delle parti erano già pronte, infatti mi sono limitato a renderle mie o proporre idee che però erano solo di contorno e abbellimento.

V.D’A.: Io purtroppo sono arrivata quando i brani erano già pronti. Sono intervenuta nelle registrazioni ed è stata una full immersion di un giorno in uno studio bellissimo!

“Where the Journey Begins” offre un gran bell’esempio di progressive rock, con la sua notevole miscela di sonorità italiane ed internazionali. Ma come nasce un brano dei Jana Draka e da cosa vi lasciate influenzare durante la scrittura?

V.M.: Dipende da brano a brano. Molto banalmente nasce da ciò che ci emoziona e ci fa provare qualcosa, sia esso un libro, un piccolo racconto, una poesia o un’esperienza di vita. Dopodiché li trattiamo come vere e proprie storie, cercando attraverso le note, le melodie, gli arrangiamenti e ovviamente il testo, di restituire quello che proviamo e di far viaggiare attraverso il brano l’ascoltatore.

D.P.: Come ha detto Valerio, la cosa fondamentale è l’emozione, la sensazione o il messaggio che si vuole trasmettere. Per quanto riguarda l’ispirazione, anche qui, concordo con Valerio. Ogni cosa può nascere da un libro, una storia raccontataci o vissuta, un film o un quadro. Basta che quel qualcosa faccia scattare in uno di noi la fiamma, poi penserà tutta la band ad alimentarla per dare alla luce il brano.

I testi dell’album sono in inglese. Pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano? E quali sono le tematiche affrontate nelle vostre liriche?

V.D’A.: Penso che per il tipo di pubblico a cui vogliamo arrivare e per le influenze su cui si fonda questo gruppo, la lingua inglese sia una scelta azzeccata. Le tematiche riguardano storie scritte in modo che l’ascoltatore possa identificarsi con i personaggi o con le situazioni raccontate.

Da “Where the Journey Begins” sono stati estratti due singoli, “Salem” e “Daydream”. Come mai la scelta dei “biglietti da visita” è caduta su questi due brani?

F.A.: Sono due brani dalla durata relativamente “giusta” sui 3-4 minuti e che si avvicinano di più a sonorità di facile ascolto. Non i più rappresentativi della band ma i più interessanti anche per chi non ascolta progressive. Immagina lanciare da subito “Coming home” come singolo, molte persone, leggendo la durata, non si impegnerebbero mai in un ascolto simile.

V.D’A.: La scelta di “Salem” è stata dettata dal fatto che abbiamo lanciato il brano nel periodo di Halloween, per far emergere meglio le tematiche affrontate e offrire una nuova interpretazione della figura della strega. Per quanto riguarda “Daydream”, invece, eravamo d’accordo sul fatto che fosse il brano più “easy listening” dell’album e quindi con più potenzialità a livello di ascolti.

Com’è stato accolto l’album da pubblico e critica? Immagino bene, vista la nomination quale “Disco della Settimana” sulla radio olandese IKSC (in gennaio) e la selezione come finalisti del 2Days Prog+1 Festival.

V.M.: Finora meglio di qualunque nostra aspettativa, tenendo soprattutto conto dei traguardi di cui hai parlato.

D.P.: L’album è stato accolto bene e ne sono immensamente felice. Ovviamente questo non deve essere un motivo per allentare la cinghia ma, al contrario, ci farà da carburante per continuare il nostro cammino.

G.B.: È stato un bellissimo traguardo, fa piacere ricevere dei riconoscimenti oggettivi dagli addetti ai lavori!

F.A.: Calcolando che non siamo stati spinti da nessuno se non da noi stessi, abbiamo avuto bei risultati che possono migliorare esponenzialmente.

V.D’A.: L’album è stato accolto molto bene dalla critica e questo mi rende felice, visto che il nostro è un genere che viene solitamente considerato poco vendibile.

Per Valerio e Danilo, quali sono i punti di contatto e le differenze sostanziali (in fatto di sforzi profusi, difficoltà incontrate, opportunità, ecc.) tra il fare musica in Calabria e a Roma? Col senno di poi, tracciando un primissimo bilancio, è stata una decisione saggia trasferirsi nella capitale?

V.M.: Lavorare qui a Roma è soddisfacente per tantissimi motivi. La differenza più importante con la Calabria è che effettivamente gestire qui un progetto diventa qualcosa che, con il giusto lavoro, può diventare concreto, e sì, è stata una decisione più che saggia. D’altronde se vuoi fare un mestiere devi andare dove c’è richiesta, e Roma ha una scena musicale varia e florida.

D.P.: Una grande città offre più possibilità che, se si sanno sfruttare, possono portare alla realizzazione di diversi obiettivi. La scelta è stata sicuramente saggia anche se restiamo pur sempre in Italia e quello del musicista è un lavoro che in questa nazione trova comunque molte difficoltà.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

V.M.: Beh, sicuramente il fatto di doversi aggiornare in continuazione può risultare molto problematico quando non si ha una squadra al seguito. Io, in particolare, sono abbastanza poco avvezzo ai social e senza l’aiuto delle persone interne ed esterne al gruppo che ci hanno consigliato ed aiutato, probabilmente sarei rimasto paralizzato, ma sicuramente è una componente che ogni musicista deve studiare e curare non meno della propria immagine e della propria abilità sullo strumento.

D.P.: Il mondo marcia sempre ad un passo tutto suo e se non sei capace di adattarti ti lascia indietro. Indipendentemente da quanto questa andatura ti piaccia o no, sei costretto a seguirla. Adesso il web è come l’America del secolo scorso, con le medesime possibilità ma forse con un po’ troppa concorrenza. Questo porta a dover studiare i mezzi che internet ci offre e creare dei piani d’azione.

G.B.: La civiltà evolve, così come i gusti: la palla passa alle band, che devono cercare di rimanere al passo coi tempi. Cerco sempre di proporre idee (a volte anche un po’ off topic) per innovarci su questo aspetto.

F.A.: Il web ha portato la possibilità di poter finire dall’altra parte del mondo potendo quindi fare musica non strettamente collegata al proprio paese, ma dall’altra parte è ormai difficilissimo emergere dalla quantità di contenuti che vengono proposti ogni giorno.

V.D’A.: Secondo me i social offrono vantaggi e svantaggi. Vantaggi per il fatto che ognuno ha la possibilità di dire la sua e avere un’opportunità, svantaggi proprio per il fatto che ci sono tantissimi artisti ed è difficile farsi notare. È importante comunque, in questa nuova civiltà, aggiornarsi sempre e studiare il funzionamento di questi mezzi che abbiamo a disposizione.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online?

V.M.: Beh, io ammetto di essere l’ultimo a poter parlare di questo, ma il mercato musicale negli ultimi vent’anni è cambiato tantissimo, e non è un mistero che tutte le etichette discografiche oggi puntino ad investimenti sicuri. E un gruppo come il nostro che cerca di avere una sua voce (con tutti i rischi che questo può comportare a livello di vendite) può risultare rischioso per un investimento.

G.B.: Il nostro genere non è mai stato mainstream, ma oggi è ancora più difficile emergere: la maggior parte del pubblico rimane sui soliti generi e non riesce a intraprendere un percorso di ricerca. I musicisti devono fare i conti con una realtà alla quale possono coraggiosamente decidere di sottrarsi, ma a prezzo di sacrifici economici. Credo tuttavia che se c’è il talento, non possano esserci limiti su ciò che si può ottenere!

F.A.: Con il cambio di rotta delle case discografiche, che non si comportano più come una volta, quando investivano sugli artisti, la musica è diventata ancora più costosa. Se aggiungiamo che ormai tutti possono fare le proprie canzoni da casa, riuscire ad emergere in un mondo del genere è diventato difficilissimo.

V.D’A.: Come ho detto prima, ciò che rende difficile la promozione della musica è proprio l’elevata offerta. Ci sono moltissimi artisti che ogni giorno sfornano singoli e a volte è una battaglia a chi si fa più pubblicità. Questo sistema purtroppo finisce per diventare poco meritocratico a volte.

Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?

V.M.: Penso siano mondi diversi in cui vigono regole diverse, ma che questo sia decisamente un aspetto che accomuna i due mondi. C’è però da dire che, al di là dell’immagine comune legata all’autoproduzione, esistano in entrambi i mondi scrittori, musicisti e poeti molto bravi che non trovano un editore e prodotti di editoria e discografici che, a guardarli, vien da chiedersi come sia possibile che siano in una vetrina. A riguardo non voglio dare consigli perché dipende dalla sensibilità dell’artista, dalle sue possibilità e anche dal genere. Maggiore è il numero di persone che fanno la tua stessa cosa e più hai bisogno di cifre elevate per emergere e alcune volte un produttore o un’etichetta sono l’unica via.

D.P.: Per quanto riguarda i libri l’autoproduzione aiuta, ma perché ci sono realtà come Amazon che ti permettono di pubblicare in autonomia il tuo libro sfruttando un simile colosso dell’e-commerce per raggiungere quasi tutto il mondo. Per i musicisti purtroppo non esiste un qualcosa di simile. Quindi l’autoproduzione funziona all’inizio perché ti permette di non avere vincoli artistici e di esprimere esattamente quello che vuoi esprimere, magari anche per capire se la tua musica funziona o meno. Ma prima o poi si deve provare a fare il passo successivo, sia esso avere un manager, un’etichetta o creare una propria etichetta (con le difficoltà e i rischi che quest’ultima cosa comporta).

V.D’A.: Non credo sia una valutazione riservata esclusivamente al mondo dei libri. Anche in ambito musicale i dischi autoprodotti non sono considerati di valore come quelli sotto etichetta. In realtà è tutto dovuto al fatto che, ovviamente, etichette e case editrici devono occuparsi di investire bene, mentre noi musicisti e scrittori vorremmo esprimere qualcosa di originale e non abbiamo come scopo primario il guadagno, ma la comunicazione con il pubblico e l’espressione di sé. Questo vale per ciò che riguarda i progetti originali nati dalla necessità di dire qualcosa. Consiglierei l’autoproduzione perché offre la possibilità di dire la propria a chi ha un budget limitato.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà?

V.M.: Stiamo pian piano entrando in contatto con altri gruppi e tutto ciò è molto appagante e stimolante, e speriamo a breve di poter organizzare qualcosa anche con le altre band con cui siamo entrati in contatto negli ultimi mesi.

D.P.: Ho avuto modo di scoprire molti artisti emergenti nella scena Prog. Sarebbe molto interessante poter creare un evento che li raggruppi tutti per condividere un po’ di sana buona musica.

G.B.: Durante la mia carriera ho conosciuto molte realtà della scena progressiva in Italia (soprattutto nell’ambito metal, avendo un progetto prog metal) e devo dire che, a parte qualche eccezione, è un panorama ancora fresco e stimolante!

F.A.: Dal mio punto di vista la scena progressive italiana è dominata maggiormente dal progressive metal che non è di mio interesse. Il progetto, infatti, seppur con qualche sonorità più aggressiva, non finisce mai per diventare metal, per questo, fin dall’inizio, i Jana Draka mi hanno stupito.

Esulando per un attimo dal mondo Jana Draka e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

V.M.: Ho iniziato da poco a disegnare e ho una grande passione per la cucina, ma, a livello musicale, tutta la mia concentrazione a livello artistico è decisamente convogliata su Jana Draka. In tutti gli altri gruppi in cui lavoro o collaboro cerco di essere il miglior professionista che le mie capacità mi concedono, ma artisticamente l’unico lavoro in cui mi sento coinvolto al 100% è questo.

D.P.: Mi piace scrivere. Credo di aver abbozzato almeno cinque libri negli ultimi anni ma non trovo mai davvero il tempo per scriverli.

G.B.: Sono un tastierista a tutto tondo: ascolto e produco generi un po’ “fuori fase” rispetto al resto della band. Oltre agli Jana Draka e agli Aurora, il progetto prog metal di cui parlavo sopra, collaboro con un progetto cantautorale indipendente (Cloud) e sono pianista in un complesso fusion (Promenade). Inoltre, mi cimento nella scrittura orchestrale, pop e sono un amatore della musica hip hop e trap.

F.A.: Ho altri progetti musicali, quali un coro gospel e varie cover band, che mi danno la possibilità di suonare un po’ in giro.

V.D’A.: Io dedico moltissimo tempo alla batteria, ma mi piace anche molto la scrittura. Uno dei miei sogni nel cassetto da tempo è pubblicare un libro, ma per ora è solo una passione.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

V.M.: Sono letteralmente cresciuto con in casa gli album di Gentle Giant e Deep Purple ad alto volume e grazie a mio padre e mio fratello, sempre in tenerissima età, ho scoperto con Frank Gambale la fusion. Negli anni mi sono spostato poi sull’heavy metal partendo dai Judas Priest e andando sempre più verso ascolti estremi, per poi ricongiungermi tramite Dream Theater, Devin Townsend e Steven Wilson alle mie origini, se così si può dire.

D.P.: Sin da piccolo avevo la predisposizione ad ascoltare qualsiasi genere e artista, l’importante era che il brano in questione mi attirasse per qualche motivo. Quindi ho ascoltato tanto rock, tanto pop e qualunque genere musicale venisse passato su MTV. Poi a quindici anni ho iniziato a suonare la chitarra, spinto ad emulare chitarristi come Slash o Santana, ma da lì a poco mi imbattei in Eric Clapton e conobbi il blues e fu amore a prima vista. Continuo ancora oggi ad ascoltare rock, country, pop ma il blues mi dà sempre qualcosa in più. Da qualche anno poi mi sono appassionato al progressive e di recente alla fusion. Ah, sono un patito del J-Pop e J-Rock e, in generale, del modo che hanno i giapponesi di approcciarsi alla musica.

G.B.: Il faro della mia vita è sempre stato Franco Battiato, per me un’ispirazione totale. Parlando di prog, ascolto molto prog classico anni ’70, senza disdegnare qualcosa di più moderno. Gli altri miei generi preferiti sono il metalcore, cantautorato italiano, djent, trap, elettronica, pop, musiche e canzoni da film, musical.

F.A.: Per me il musicista per eccellenza, non solo per i dischi fatti ma anche per le sue altre attività, è Steven Wilson. Per il resto ho avuto il mio periodo in cui ascoltavo unicamente progressive rock, mentre ora sono più aperto a qualsiasi genere musicale in quanto ognuno ha la sua importanza per diverse ragioni.

V.D’A.: Sono cresciuta ascoltando i Toto e per me sono stati veramente importanti, vista la presenza di Jeff Porcaro alla batteria. Per il resto ho ascoltato molto classic rock e nell’ultimo periodo mi sono dedicata più al funk e al soul.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un’artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

V.M.: Ammetto che rispondere non è per nulla facile. Nonostante la voglia di suggerire le opere di Lovecraft o la lettura di “Le Notti Bianche” o “Picnic sul ciglio della strada”, penso che consiglierò ai lettori di andare a guardare le opere di Hieronymus Bosch, se avranno tempo e voglia di lasciarsi trasportare dalla meraviglia delle sue immagini.

D.P.: Questa è difficile. Lovecraft e Stephen King sono i due scrittori che amo sopra gli altri ma leggo diversi generi, dal giallo all’urban fantasy, quindi è difficile consigliare qualcuno.

G.B.: Franco Battiato, senza alcun dubbio. E, se amate la fantascienza, recuperate tutto ciò che vi è possibile del corpus letterario di Isaac Asimov.

F.A.: Per quanto riguarda i libri non leggo chissà quanto ma mi piace molto il giallo, ad esempio Arthur Conan Doyle e Agatha Christie. Nel campo della musica, per chi non lo conosce, consiglio di recuperare appunto Steven Wilson nei suoi vari progetti.

V.D’A.: Io consiglierei Zafòn. È uno dei miei scrittori preferiti e il suo modo di rendere ambientazioni e personaggi è davvero unico. Quando si finisce un libro si ha l’impressione di essersi fatti dei nuovi amici.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

V.M.: I popoli nei momenti di crisi soccombono o reagiscono tirando fuori il meglio di loro stessi. C’è da sperare che a noi musicisti in Italia tocchi finalmente la seconda opzione!

D.P.: Sicuramente si faticherà molto e non so per quanto tempo, ma pian piano ci si risolleverà.

G.B.: Sono un po’ pessimista sul ritorno alla normalità per quanto riguarda i concerti. Credo che fino al vaccino si possa essere ragionevolmente sicuri di non poter tornare live nel modo in cui intendiamo un live. Anche dopo aver sconfitto il Covid, la mentalità del pubblico sarà diversa.

F.A.: Penso che ci sarà da aspettare ancora molto prima che si possa riprendere a pieno poiché questo virus mutevole sembra anche non dare immunità, salutando quindi la speranza in un vaccino ma tifando per una cura.

V.D’A.: Sono un po’ scoraggiata dalla situazione, perché vedo che non c’è molto interesse per il nostro settore. Non posso certo dire che non me lo aspettassi quando è partita l’emergenza, sapevo che sarebbe stato difficile per noi. Credo che un passo alla volta riusciremo ad andare avanti, perché per noi la musica è vitale.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?

G.B.: Questo lo racconto io, anche se è più recente: durante una sessione di registrazione di una delle nostre cover (che vi invito a recuperare sul nostro profilo Youtube) ero su di giri, mi sentivo alla grande. Mi giro verso Valerio e dico “Vale, questa la faccio tutta take one. Non farò un errore. Preparati”. Ovviamente, sbaglio la prima nota. Mi giro nuovamente verso di lui e dico “Ho sbagliato tutto quello che potevo sbagliare”. La frase attualmente è il meme della band, la utilizziamo in ogni momento con ogni tipo di variazione.

E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Jana Draka che vi è possibile anticipare?

V.M.: Sicuramente ancora promuoveremo “Where the Journey Begins”, ma stiamo tornando già al lavoro su materiale nuovo e vorremmo pubblicare qualcosa entro la fine dell’anno.

D.P.: La promozione di “Where the Journey Begins”, causa anche la quarantena, non è stata portata a compimento ma sicuramente bisogna iniziare a mettere le mani su nuovo materiale e, infatti, ci stiamo lavorando.

G.B.: Abbiamo ancora qualcosa in cantiere per la promozione di questo album.

F.A.: Bisogna continuare a promuovere il disco ma cominciare a pensare a tematiche per i prossimi lavori.

Grazie mille ragazzi!     

V.M.: Grazie a te, ad OrizzontiProg e ai lettori per il tempo che ci avete dedicato! È stato davvero un piacere!

D.P.: Grazie mille a te e ad OrizzontiProg per la gentilezza e la disponibilità. Ringrazio anche tutti i lettori e i nostri fan. Alla prossima.

G.B.: È stato un onore e un piacere! Alla prossima!

F.A.:Grazie a te per questa opportunità!

V.D’A.: Grazie a te, è stato un piacere!

(Luglio 2020)

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