Un caro benvenuto a Joele Turchi (J.T.), Giorgio Manca (G.M.), Ivan Di Sipio (I.D.S.), Davide Di Camillo (D.D.C.) e Leo Cornacchia (L.C.): Choruscant.
J.T.: Un saluto a te e a tutti i lettori di OrizzontiProg!
Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda scontata: come nasce il progetto Choruscant e cosa c’è prima dei Choruscant nelle vite di Joele, Giorgio, Ivan, Davide e Leo?
G.M.: Beh sicuramente prima dell’attuale progetto c’è comunque un bel po’ di musica! I Choruscant nascono infatti dalle ceneri del precedente progetto Severed Garden, che è esistito dal 2009 al 2015 e nell’ambito del quale, seppur con una diversa line-up in cui non erano presenti Davide e Leo, nel 2011 è stato pubblicato un EP composto da 5 brani (prog-oriented, ça va sans dire) dal nome “Perspectives”.
J.T.: Per quanto riguarda il pre-Choruscant devo dire che la mia prima passione è sempre stata la musica, dacché ricordi. Ho iniziato con amici sulle orme dei Linkin Park, per poi passare ai Guns’n’Roses e gli Iron Maiden, fino ad approdare al prog con i Severed Garden. Per il resto, ho vissuto una vita normale, tra studio e pomeriggi conditi da videogames e Dungeons & Dragons con gli amici.
L.C.: Vivendo nella stessa città, conoscevo già il progetto Severed Garden e i ragazzi della band. Qualche volta è anche capitato di dividere lo stesso palco con altre formazioni. Alla fine le nostre strade si sono incrociate quando stavano formando i Choruscant, del resto ho sempre voluto far parte di una band di inediti su questo genere. Prima di loro ho sempre suonato in diverse formazioni (dal pop, al prog, al metal) e studiato in conservatorio. Al di fuori della musica, ho vissuto tra videogame e uscite con gli amici.
Choruscant: come si arriva alla scelta del nome e cosa significa?
J.T.: Coruscant (senza h) è un termine inglese, principalmente presente in letteratura, che significa “splendente”. Il significato proprio del termine tuttavia è stato piuttosto irrilevante ai fini della scelta; l’ispirazione è invece arrivata dalla comune passione per la saga cinematografica di Star Wars, in cui “Coruscant” è il nome di un pianeta.
I.D.S.: Esatto, e nel prendere in prestito il suddetto nome abbiamo deciso di inserirci una “h”, così che la prima parte del nome apparisse come “chorus” che, come è noto, in inglese vuol dire ritornello. Scelta piuttosto curiosa – verrebbe da dire – considerando che, nella nostra musica, di ritornelli ce ne sono ben pochi!
Nonostante la giovanissima età del progetto, nel 2020 è uscito il vostro esordio discografico “A Christmas Carol”, ispirato all’omonima opera letteraria di Charles Dickens. Vi va di raccontarmi la genesi dell’album e, dunque, il processo attraverso cui il testo dell’autore britannico è diventato “musica e parole”?
G.M.: In realtà la scrittura dei primi testi e delle prime melodie è iniziata, ad occhio e croce, intorno al 2012/2013, durante la fase Severed Garden. Il primo brano a vedere la luce è stato, guarda caso, “To Begin With”. Come è intuibile confrontando la suddetta data con quella di pubblicazione dell’album, la scrittura di musica e testi è stata un processo lungo e certamente complesso, che si è protratto nel tempo e che ha talvolta subito delle battute d’arresto a causa dei diversi impegni personali. I brani sono però nati in maniera piuttosto ordinata, seguendo l’ordine dei capitoli del libro. Date le suddette premesse penso sia lecito affermare che l’album, essendo stato concepito in un tempo così dilatato, rappresenti anche un po’ una testimonianza della maturazione artistica di ognuno di noi.
Cosa vi ha affascinato dell’opera di Charles Dickens, tanto da spingervi a realizzarne un concept album?
J.T.: Personalmente sono sempre stato un amante dell’arte a 360° e, nonostante non sia un lettore accanito, mi sono sempre immerso nella letteratura (soprattutto con i grandi classici). Quando Giorgio ci propose di realizzare un concept album su “A Christmas Carol” non ci ho pensato due volte ad accettare, vuoi perché si trattasse comunque di una pietra miliare della letteratura, vuoi perché la differenziazione di atmosfere ivi contenuta mi stuzzicava non poco per quanto riguarda il livello realizzativo. Sapevo sarebbe stata una sfida, certamente, ma mi piace parecchio mettermi in gioco in questi casi.
G.M.: Ho sempre amato le atmosfere natalizie, così come ho sempre trovato estremamente affascinante l’Inghilterra vittoriana, con tutti i vizi, le virtù, le storie ed i misteri che la caratterizzano. Dickens è riuscito ad includere questi elementi in un’unica, straordinaria opera e ciò mi ha portato ad avvicinarmi ad essa e, più in generale, all’autore. Quello che tuttavia mi ha convinto a trarne un album è la presenza di quella pungente critica sociale che caratterizza molti dei romanzi di Dickens e che, a mio avviso, risulta tutt’oggi assolutamente – e tristemente – attuale. Mi sentirei quindi di dire che l’album è prima di tutto un tributo ad un’opera immortale capace di emozionare, di descrivere la complessità dell’animo umano e di fornire una critica articolata a certe basse realtà che caratterizzano la società (certamente quella vittoriana ma, a mio modesto parere, anche la nostra).
I.D.S.: Ciò che mi affascina è la profonda caratterizzazione umana dei personaggi e delle loro relazioni affettive. Dickens vuole dimostrare che l’amore per un figlio storpio, per un nipote, per una moglie, per uno zio, esula totalmente dalla ricchezza che si possiede: si può essere poveri e malintenzionati come gli sciacalli che rubano gli averi del defunto Scrooge; poveri e amorevoli come la famiglia Cratchit; ricchi e rivoltanti come Scrooge all’inizio della storia; ricchi e benevolenti come Fred.
Melodie articolate, dense, dalle tonalità di sovente scure e ampio utilizzo del canto sono solo alcune delle caratteristiche dell’album. Ma come nasce, in generale, un brano dei Choruscant e quali sono gli artisti che più vi hanno ispirato/influenzato nella stesura dell’album?
J.T.: Per quanto mi riguarda ho cercato di attingere da quelli che io considero i “big” della tessitura canora, cercando però di discostarmi il più possibile per rendere il tutto più personale, senza cadere nell’imitazione. Alcuni esempi possono essere: Russell Allen o Devin Townsend per quanto riguarda gli acuti sporchi, Jeff Buckley per le parti più dolci e melodiche, Ian Anderson per gli intermezzi folk e Daniel Gildenlöw o Roy Khan per interpretazione e teatralità.
G.M.: Semplificando un po’ le cose credo esistano due tipi di autori: quelli che traggono ispirazione dalla musica per scrivere i testi e quelli che traggono ispirazione dal testo per scrivere la musica. Io appartengo a questa seconda categoria ed è quindi seguendo tale impostazione che ho lavorato. Leggere l’opera in lingua originale, trasponendola via via in testo da musicare, mi ha permesso di trarre ispirazione per la scrittura della musica. La particolarità rispetto ad altri lavori analoghi (trasposizioni in musica di opere letterarie come “Dracula Opera Rock” della PFM, “Paradise Lost” dei Symphony X, ecc.) è a mio avviso il tentativo di rimanere molto fedeli all’opera madre, in alcuni casi applicando un approccio simile alla scrittura di una sceneggiatura di un musical, con una descrizione spesso approfondita delle scene.
Tra gli artisti che mi hanno più influenzato, in termini musicali, citerei certamente Genesis, Jethro Tull, Dream Theater, Haken e tanti altri esponenti del filone prog ma, considerando le influenze più tendenti alla colonna sonora e al musical, mi sento in dovere di citare anche John Williams, il grandissimo Ennio Morricone (la cui recente scomparsa mi ha rattristato enormemente), Danny Elfman e George Gershwin.
I.D.S.: Oltre ai grandi del prog passati e presenti, amo le sonorità folk e sinfoniche. La composizione in senso stretto non è il mio forte, quindi il mio principale compito all’interno dell’album è stato quello di arrangiare le parti orchestrali, e ho voluto procedere immaginando di avere a disposizione una vera orchestra.
D.D.C.: A livello esecutivo ho senz’altro preso spunto da band come i Dixie Dregs, The Winery Dogs, Steve Morse Band e da musicisti come Dave LaRue.
L.C.: Non avendo mai scritto un brano intero, in questo disco mi sono affidato quasi completamente a Giorgio, dando qualche suggerimento e idea qua e là. Per il resto, ho scritto le parti di batteria cercando di non adagiarmi sui cliché di questo genere e inserendo, quando possibile, un approccio jazzistico.
“A Christmas Carol” è un’opera letteraria scritta, ovviamente, in inglese e i vostri testi lo sono altrettanto. Esulando dal legame con l’originale di Dickens, pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano?
J.T.: Personalmente non sono mai stato un grande “fan” della lingua italiana nella musica leggera. Sono pochi gli artisti che riescono a convincermi in tal senso: Fabrizio De Andrè, PFM e pochi altri. Sarà una questione di abitudine dato che ho iniziato a cantare in inglese e tutt’ora la trovo la lingua, per me, più naturale quindi non ho trovato così tante difficoltà. Infine, il fatto che l’opera originale, appunto, è in tale lingua ha aiutato non poco per quanto riguarda l’analisi comparativa del testo di Dickens con quelli dell’album.
G.M.: Trovo che l’italiano sia una bellissima lingua, ma spesso incontro una certa difficoltà ad utilizzarla per creare i testi. Inoltre, va da sé, l’inglese ti permette di arrivare ad un pubblico più ampio e questo non è sottovalutabile.
L.C.: Anch’io penso che la lingua italiana sia fantastica, ma per quanto riguarda un genere come questo, che nasce in lingua inglese, scrivere in italiano significherebbe non avere accesso ad altri paesi oltre il nostro.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
G.M.: Diffondere liberamente le proprie opere, quasi senza intermediazione e in ogni parte del mondo è certamente un vantaggio del nostro tempo e ha i suoi aspetti positivi.
Ciononostante ritengo che questo eccesso di offerta renda più difficile arrivare al pubblico. Accanto a questo metterei anche che l’avvento di Internet ha determinato (insieme ad altri fattori) un crollo dell’industria musicale e, conseguentemente, una minore tendenza ad investire, a lungo termine, sugli artisti da parte del settore discografico.
I.D.S.: A mio avviso internet ha reso il mondo artistico più democratico, ma meno meritocratico. Magari questo non riguarda gli artisti che lavorano con le major, ma la scena underground sta diventando molto caotica: c’è più gente che suona che gente che ascolta, e spesso chi suona neanche ascolta.
J.T.: Mi trovo d’accordo con quanto già detto da Giorgio ed Ivan ma vorrei aggiungere anche un altro fattore: questa “civiltà 2.0” ha velocizzato tutti i fabbisogni. Oramai tutti vogliono un prodotto pronto, facilmente fruibile e rapido, e nel caso della musica “impegnata”, purtroppo, questo è un grosso contro. Basti vedere i tempi medi di visualizzazione dei video su YouTube (sui 30 secondi), o il fatto che le storie di Instagram durino solo 15 secondi. Ma potrei fare molti altri esempi. Dunque, o sottostai a queste regole, o difficilmente riesci ad emergere dal caos dei social.
D.D.C.: Non amo questo momento storico da quel punto di vista. Se da una parte è vero che i social e il mondo di internet in generale hanno dato la possibilità a chiunque di esprimere e diffondere in tutto il mondo la propria arte, dall’altra siamo bombardati da una quantità infinita e continua di informazioni impossibile da assimilare. Questo ha portato ad una superficialità nella fruizione dei contenuti.
Scaricare gratuitamente centinaia di discografie contemporaneamente con un semplice clic e vedere migliaia di video su YouTube è un po’ come comprare centinaia di libri di generi differenti e saltare da uno a l’altro casualmente: non ricorderemmo nessun titolo, nessuna storia, niente di niente.
Ci vorrebbe più ricerca, più attenzione e soprattutto più rispetto per l’arte e per la cultura. Vedo troppa attenzione ai like, ai contenuti da un minuto piuttosto che a uno studio mirato ad un accrescimento culturale e soprattutto poca curiosità e poca voglia di grattare la superficie ed andare a fondo alle cose.
L.C.: Penso che i miei compagni abbiano già detto tutto. Vorrei tuttavia condividere con voi una mia riflessione: ho letto molte biografie di band del passato e ho avuto modo di capire che neanche allora era facile farsi notare. Dico questo perché spesso si liquida il discorso dicendo solo “sì ma prima era più facile”. Leggendo, ho visto che tutti cercavano di trovare qualcosa oltre la loro musica, che richiamasse l’attenzione di un pubblico. Scenografie, atteggiamenti, abiti di scena, maschere. Prima funzionava così; quello che mi chiedo è: cosa si può fare ora per spiccare con un genere di musica leggermente diverso?
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica”?
G.M.: Quanto alla nostra “nicchia di mercato” (difficile commentare le altre realtà) la mancanza di punti di riferimento è un primo scoglio che lascia un po’ spaesati. Soprattutto in Italia, almeno in base la nostra esperienza, c’è una sostanziale assenza di interlocutori ai quali sottoporre il proprio lavoro per avere consigli, feedback e, perché no, una mano.
L.C.: Riguardo alle etichette, abbiamo inviato il materiale in giro per il globo, ricevendo anche qualche responso positivo, ma oggi risulta sempre più difficile trovare un attore di quel tipo che intenda investire su di te perché reputa valida la tua musica. I costi ed i rischi sono alti e i profitti alquanto bassi. Molto più spesso questi soggetti diventano interessati se hai saputo costruirti una solida fan base con le tue forze… ed è esattamente ciò che stiamo tentando di fare noi.
Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?
J.T.: Beh, entrambe le vie hanno pro e contro e sarebbe un discorso estremamente lungo da affrontare. Mi limito a considerare il discorso del prodotto di “serie B”. Il lavoro che c’è dietro ad una etichetta, ad una casa editrice (e via dicendo) è molto più grande di quanto si possa immaginare: ci sono le revisioni, le modifiche, le scelte delle copertine, il dover considerare il mercato, il dover calcolare come effettuare una determinata pubblicità per far uscire dal “caos dei social” (come già ho detto sopra) un determinato prodotto.
Quindi direi che, tendenzialmente, un prodotto che ha alle spalle una realtà solida dovrebbe essere migliore qualitativamente.
Il rovescio della medaglia è che, spesso (ma non sempre, sia chiaro), proprio tutte quelle cose da considerare e quei passaggi, vanno a togliere la spontaneità all’opera, che sia musica, letteratura o quant’altro.
G.M.: Tendenzialmente ritengo che il merito di un’opera prescinda da chi la pubblica. Certo avere alle spalle una casa editrice/etichetta discografica permette di avere maggiore qualità in termini tecnici, realizzativi, distributivi, ecc. Ma la qualità dei contenuti prescinde da questo. Aggiungerei anche che non sempre i consigli o, peggio, le imposizioni vanno a migliorare un lavoro. In alcuni casi possono anche peggiorarlo.
I.D.S.: Il bello di quando si lavora in autonomia è il completo controllo artistico e in questo caso l’autoproduzione vince. Non nego che avere la possibilità di utilizzare attrezzatura costosissima, inarrivabile per chi si autoproduce, donerebbe certo un abito più elegante ad un disco, ma il contenuto rimarrebbe il medesimo. Per quanto riguarda i consigli (e le imposizioni) sono d’accordo con Giorgio.
L.C.: Sì, se non c’è altra via, consiglierei l’autoproduzione. Specie oggi con i tanti mezzi a disposizione, si può ottenere una qualità molto buona. Ci sono tantissimi esempi di ragazzi che iniziano autoproducendosi e successivamente arrivano al successo mondiale. Un esempio su tutti, Billie Eilish. Ovviamente parliamo di un genere totalmente diverso, molto più “immediato”. Per il resto, d’accordissimo con quanto detto.
E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà?
J.T.: Difficile dirlo, ci sono sicuramente molte altre realtà meritevoli che si trovano nella nostra stessa situazione e che faticano a farsi conoscere dai più. La cosa certa è che già considerando solamente la nostra zona territoriale (Abruzzo) ci sono degli ottimi musicisti, non solo nell’ambito del progressive, quindi non oso immaginare in tutta Italia quanti fenomeni nascosti abbiamo.
G.M.: Penso che là fuori ci siano tanti validi musicisti che fanno grande musica (nonostante le scarse risorse finanziarie) e che spesso ricevono una quota infinitesimale dell’attenzione che meriterebbero. Sarebbe certamente molto bello poter creare una community di artisti, attivi nella “scena progressive”, così da remare, ove possibile, nella stessa direzione.
Esulando per un attimo dal mondo Choruscant e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
J.T.: In realtà ho in mente già da un paio d’anni di scrivere un libro ma, per mancanza di tempo, attualmente ho steso solamente qualche pagina e molti appunti. Come detto prima, sono un appassionato di arte a 360°, quindi cerco di destreggiarmi il più possibile tra cinema, anime (quelli di un certo spessore), quadri e via dicendo, ma attivamente sono presente solamente nella musica, per ora.
G.M.: Io sto tentando, lentamente e con fatica, di scrivere un libro con atmosfere steampunk. Dubito possa essere considerata un’attività artistica, almeno se portata avanti dal sottoscritto, ma è ciò che probabilmente ci si avvicina di più (tolta l’attività musicale) tra le cose alle quali mi dedico.
I.D.S.: Mi piace la fotografia, ma non la prendo troppo sul serio: qualche volta la uso per riposare le orecchie dopo una giornata alle tastiere!
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
J.T.: Uh, domanda piuttosto ardua. Vado abbastanza a periodi, ma se proprio dovessi sceglierne tre “all-time” direi, in ordine discendente: Pain Of Salvation, Porcupine Tree e Tool.
G.M.: Dovendo attenermi al concetto di “podio” mi limiterò (con difficoltà) a dichiarare la mia top 3 degli artisti che mi hanno musicalmente cresciuto: Genesis (quelli del primo periodo), Fryderyk Chopin ed Ennio Morricone
I.D.S.: I primi Genesis, Dream Theater, Porcupine Tree… ma non so a chi darei la medaglia d’oro!
D.D.C.: Direi Marcus Miller, Victor Wooten e Mike Stern.
L.C.: U2, Iron Maiden e Genesis.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
J.T.: Per quanto riguarda la letteratura direi H.P. Lovecraft ed E.A. Poe su tutti. Nel cinema il mio regista preferito è sicuramente David Lynch. A livello di quadri mi è sempre piaciuto il movimento Romantico, William Turner su tutti. Infine, per quanto siano bistrattate ed etichettate come “roba per bambini”, sono un grandissimo appassionato dell’animazione nipponica: Neon Genesis Evangelion, Cowboy Bebop e Ghost in The Shell: Stand Alone Complex sono tra le mie opere artistiche preferite in generale.
G.M.: Sono un grande appassionato di Sir Arthur Conan Doyle del quale ho letto più o meno tutto. Parlando di arte d’altro genere, ma rimanendo in tema di atmosfere vittoriane, mi sentirei di consigliare la contemplazione dei favolosi quadri del pittore ottocentesco John Atkinson Grimshaw (magari ascoltando “A Christmas Carol” nel mentre, perché no!).
I.D.S.: La prima cosa che mi viene in mente è il film Interstellar di Christopher Nolan, è un film che adoro perché mette in scena la bellezza del cosmo, l’umanità, l’istinto di sopravvivenza, il tutto condito da colonne sonore magistrali di Hans Zimmer, un vero connubio tra fotografia, musica, filosofia e astrofisica!
D.D.C.: Sinceramente no. Consiglio ai lettori di andare sempre oltre la propria comfort zone, di essere curiosi, di non disdegnare nulla, di andare sempre a fondo alle cose, di grattare la superficie. Qualsiasi cosa susciti in voi un briciolo di curiosità, di attrazione, compratela e divoratela.
L.C.: Per quanto riguarda i libri mi sento di consigliare, per chi fosse incuriosito dalla storia del Giappone antico, due romanzi: Shogun (James Clavell) e Musashi (Eiji Yoshikawa).
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
J.T.: Anche qui andrebbe fatta un’analisi approfondita, ma ciò che è sicuro è che questa situazione non ha aiutato per niente la musica, soprattutto quella live. E sarà sicuramente difficile riprendersi.
G.M.: Risulterò certamente disfattista nell’affermare quanto segue, ma già prima del Covid-19 non avevo grandi aspettative per il futuro della musica in Italia. Adesso le aspettative sono, ahimè, ancor meno rosee.
D.D.C.: Amo il mio paese ma sono abbastanza sfiduciato dalla situazione culturale italiana. Il problema è alla radice, basti pensare che da noi l’ora di musica a scuola è paragonabile alla ricreazione. Vivo in Inghilterra da un po’ e posso affermare che lì è ben diverso, il governo ha già stanziato molte risorse per risanare il settore, sanno bene che l’arte e la cultura sono le fondamenta di un popolo e… in più generano introiti!
In ogni caso credo che i primi tempi saranno duri e che il nostro settore sarà uno degli ultimi a ripartire, ma come la storia ci insegna, dopo le grandi crisi c’è sempre una risalita. Una volta ripartito sarà più forte di prima e la gente avrà una gran voglia e un gran bisogno di noi.
L.C.: Come ha già detto Giorgio, prima ancora dell’emergenza non vedevo grandi prospettive. L’Italia ha una grande cultura musicale (basti pensare all’Opera) ma purtroppo ho notato che negli anni ci sia stato un calo dell’attenzione nei confronti della musica. Ora, con questo problema del virus, è ancora più difficile per le band emergenti trovare il proprio spazio.
I.D.S.: Semplicemente concordo con quanto detto.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?
J.T.: Quella volta, tanti anni fa, che suonammo del sano progressive metal alla sagra del vino novello di Pescara, posizionati davanti ad una pompa di benzina, in mezzo alla strada, illuminati da un lampione intermittente, con i signori di una certa età che passavano, guardandoci stralunati e accelerando nervosamente il passo… credo sia un aneddoto più che degno d’essere citato! Del resto da qualche parte si deve pur cominciare, noi iniziammo da lì dato che fu una delle nostre prime date, quando ancora ci chiamavamo Severed Garden.
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Choruscant che vi è possibile anticipare?
I.D.S.: Date le difficoltà del momento per l’organizzazione delle date live, a breve avremmo intenzione di registrare (a livello audiovisivo) un live in studio in cui includere alcuni dei brani di “A Christmas Carol”, per poi pubblicarlo sui social media.
L.C.: Speriamo che le condizioni future ci consentano di portare l’album in tour.
Grazie mille ragazzi!
J.T.: Grazie a te Donato per l’opportunità!
(Agosto, 2020)
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