Un caro benvenuto ad Andrea Zacchia (A.Z.), Leonardo Rivola (L.R.), Massimo Bambi (M.B.) e Matteo Esposito (M.E.): Bridgend.
A.Z.: Ciao e grazie!
L.R.: Buondì.
M.B.: Ciao a tutti.
M.E.: Ciao, grazie.
Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Bridgend e cosa c’è prima dei Bridgend nella vita di Andrea?
A.Z.: Il progetto è nato durante il mio soggiorno in Galles nel 2015, avevo scritto il concept di “Rebis” nel 2013 e mi ero finalmente deciso a scriverne una sorta di “colonna sonora”. Prima del progetto Bridgend suonavo in alcune band dell’underground romano, insegnavo chitarra nelle scuole di musica e lavoravo in diversi studi di registrazione come assistente o arrangiatore.
Il nome Bridgend è “preso in prestito” dall’omonima cittadina del Galles. Come mai tale scelta? E cos’ha portato Andrea Zacchia tra le verdi colline gallesi?
A.Z.: Era un periodo in cui avevo bisogno di cambiare aria, volevo dedicarmi a scrivere musica staccandomi per qualche mese dalla routine e dal caos della città e il Galles mi sembrava una meta perfetta. Mentre vivevo a Bridgend, vicino Cardiff, decisi che sarebbe stato il nome perfetto per il progetto.
Mossi i primi passi nel 2015, dopo soli due anni, con la collaborazione di Gabriele Petrillo (basso) e Daniele Naticchioni (batteria), i Bridgend sono pronti per la prima uscita discografica, “Rebis”, concept album diviso in tre atti che racconta, attraverso musica e dialoghi, il viaggio di un uomo in bilico tra passione e conoscenza verso l’isola di Rebis. Rebis (dal latino “cosa doppia”) è il termine utilizzato in alchimia per indicare l’unione degli opposti e l’intero lavoro si presenta come una sorta di viaggio esoterico. Ti va di “aprirci le porte” dell’opera e di condurci lungo il viaggio del protagonista Rajas?
A.Z.: “Rebis” è un disco “circolare”. Inizia dove finisce e viceversa. Il disco racconta i dubbi e le perplessità di Rajas nel suo viaggio verso l’isola di Rebis. In questo viaggio è accompagnato dal suo mentore Sattva e dal suo vecchio amico Tamas, con i quali cercherà di dissipare i dubbi che lo tormentano. I nomi dei tre personaggi sono termini della filosofia hindu per indicare i tre “guna”, componenti ultimi della materia. E così Rajas diventa simbolo di attività e desiderio, Sattva diventa simbolo di saggezza e purezza e, infine, Tamas di indolenza e torpore. I tre personaggi sono quindi tre fili intrecciati della stessa corda e come tali si comportano per raggiungere Rebis. Lo scenario in cui avviene il viaggio prende il nome dalla leggendaria Ys, un’isola della Bretagna che attraverso un sistema di dighe poteva comparire e scomparire, metafora quindi di un mondo in bilico tra onirico e concreto.
Post rock, psichedelia, progressive rock: Andrea quali sono, dunque, le fonti d’ispirazione che ti hanno “guidato” nella stesura di “Rebis”?
A.Z.: Gran parte dell’ispirazione è un mix dei miei ascolti musicali del periodo. Sicuramente Mogwai, Steven Wilson e Pink Floyd post Waters sono state le ispirazioni principali, i Mogwai per quanto riguarda il tipo di sound che volevo imprimere al disco, gli altri per le strutture, la composizione e l’atmosfera.
Una delle caratteristiche “insolite” dell’album è la scelta di narrare i testi (compito affidato agli attori teatrali Roberto Bonfantini, Lodovico Zago e Gioele Barone). Come mai questa opzione? E come si è svolta la collaborazione con lo scrittore Lorenzo Polonio che ha curato i dialoghi tra i tre personaggi dell’opera?
A.Z.: Volevo dare un taglio teatrale alla storia che avevo scritto e per questo ho preferito la narrazione al canto, mi permetteva maggiore libertà. Lorenzo, oltre a essere un bravissimo scrittore, è un mio amico di vecchia data a cui ho affidato il delicato e complesso compito di far vivere la storia che avevo scritto solamente attraverso i dialoghi tra i tre protagonisti. E ci è riuscito perfettamente.
Esoterismo, simbolismo, filosofia hindu, mitologia: quanto e perché queste tematiche “altre” ti affascinano? E secondo quale processo le “riformuli” in musica?
A.Z.: Il simbolismo e la mitologia soprattutto mi hanno sempre affascinato sin da giovanissimo, in “Rebis” ho provato con i dialoghi e i titoli delle canzoni a stimolare l’ascoltatore a “decifrare” i tanti simboli presenti nel disco, a cercare le corrispondenze tra mondo oggettivo (Ys) e percezione soggettiva (l’isola di Rebis). Molte composizioni sia di “Rebis” che di “Rajas”, inoltre, presentano delle strutture che rimandano alla geometria sacra e questo personale approccio alla composizione l’ho trovato così confortevole che è diventato per me ormai un modus operandi che, quando posso, adopero anche in altri progetti musicali.
E quanto il “riparato” paesaggio gallese ha influito nella stesura dell’album?
A.Z.: Del Galles ho adorato il lato più selvaggio, in particolare ricordo che la penisola di Gower era praticamente come mi immaginavo fosse Ys!
Il 2020 vede tornare i Bridgend con un nuovo album: “Rajas”. Una prima novità importante riguarda la formazione che vede i nuovi innesti di Leonardo Rivola, Massimo Bambi e Matteo Esposito. Come avviene la “collisione” con il progetto di Andrea? E cosa c’è nelle vostre “vite musicali” in precedenza?
L.R.: Io e Andrea ci siamo incontrati… a scuola: Andrea era appena approdato ad Artistation a Faenza, dove io già insegno da diversi anni. Aveva in mente un progetto, me ne ha illustrato le linee guida ed io, spinto dalla “storia” che mi aveva narrato, gli ho presentato un brano costruito in una notte. La mia risposta gli è piaciuta e così siamo andati avanti. La sinergia è stata incredibile, tutto si è infilato senza mai avere dei dubbi su quello che stavamo facendo. Il bello è che quello è stato solo il primo passo, man mano che andiamo avanti continuiamo a stupirci di come parliamo esattamente la stessa lingua.
M.B.: Ho conosciuto Andrea una sera mentre suonavo con un altro gruppo. Mi parlò del suo progetto a fine concerto e mi piacque molto l’idea. Era sempre stato un sogno per me suonare in una band progressive e quell’incontro fu una benedizione.
M.E.: Andrea mi ha contattato e ci siamo incontrati nel suo studio per ascoltare qualche traccia in fase di realizzazione. Ho detto che mi sarebbe piaciuto portare il mio sound nel suo progetto, con tutto che non ho un’identità molto prog, ma più pop/jazz/funk.
“Rajas” è il prequel dell’esordio discografico e racconta la notte che precede gli avvenimenti narrati nel primo disco attraverso la sola composizione strumentale. L’album era già “scritto nella mente” di Zacchia (almeno in parte) al momento della realizzazione di “Rebis” o è una “creatura” nata a posteriori? E come mai, dunque, l’esigenza di una “introduzione” a “Rebis”?
A.Z.: È una creatura nata a posteriori, volevo raccontare il punto più profondo del tormento provato da Rajas, quella spinta e quella malinconia tali da farti abbandonare tutto e partire. Inoltre, al momento, non riesco a immaginare il progetto Bridgend senza l’universo di “Rebis”.
Altre novità degne di nota sono l’assenza della voce e la scrittura a quattro mani con Leonardo Rivola. Ritenete, dunque, superfluo l’utilizzo di una nuova “narrazione parlata” nel raccontare una storia che, ad un primo ascolto dell’album, si mostra davvero immaginifica e descrittiva? E com’è cambiato il modo di scrivere di Andrea con l’arrivo di Leonardo?
A.Z.: All’inizio era prevista una voce, quella di Rajas. Ci siamo resi conto subito di voler provare a raccontare la storia senza nessuna voce, usando solo la musica per descrivere i vari stati d’animo di Rajas durante la sua notte più lunga. Scrivere a quattro mani con Leonardo è stata la cosa più naturale e fluida che mi sia capitata nella musica, grazie alle sue incredibili capacità di compositore e tastierista siamo riusciti a scrivere un disco che è, a differenza di “Rebis”, interamente riproducibile dal vivo esattamente come è registrato. Nessun overdub o sovraincisione a differenza di “Rebis” dove, invece, ne avevo fatto largo uso. Semplicemente non ce n’era bisogno.
L.R.: Di sicuro è cambiato il mio modo di scrivere. Cioè, i suoni, le note sono le mie, e non c’è dubbio al riguardo, ma Andrea mi ha condotto in un mondo che io conoscevo solo in minima parte, accompagnandomi nel disegnare un quadro in cui, dietro all’apparente nebbia, trovi un soggetto ben definito, e da un’estensione di quel soggetto ne comincia un altro che è evoluzione del primo.
Quali sono, a vostro modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i due album?
A.Z.: Il punto di contatto è rintracciabile nelle atmosfere, sono quelle che secondo me fungono da filo conduttore tra i due dischi. Le differenze sostanziali sono nelle ispirazioni rock progressive diverse, in “Rajas” più anni ‘70 e in “Rebis”, invece, più moderne.
L.R.: Il legame tra i due album, a mio parere, si sente soprattutto se li ascoltiamo uno di seguito all’altro. “Rajas” è incredibilmente realistico come prequel di “Rebis”: quest’ultimo è più moderno, minimalista, sembra quasi che sia stato scritto effettivamente in seguito all’esperienza di “Rajas”. Se un ascoltatore non andasse a scrutare le date di produzione direbbe: “Apperò, guarda dove sono andati a finire!”.
M.B.: I due album si somigliano molto come pensiero, a differenza di “Rebis”, il sound è meno “moderno” e la mancanza di narrazione e cantato permette agli strumenti di avere maggiore voce.
Un dettaglio che mi piacerebbe approfondire è quello relativo all’artwork realizzato da Paolo Di Orazio. Come nasce e si sviluppa la collaborazione con lo scrittore, fumettista e batterista dei geniali Latte & i suoi Derivati?
A.Z.: Lo stesso giorno in cui ci siamo conosciuti Paolo mi ha mostrato i suoi disegni, il suo stile e la sua tecnica erano semplicemente perfetti per “Rajas”. Oltre ad essere un disegnatore fantastico ha una profonda cultura musicale e ironia che hanno reso naturale la collaborazione.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
M.B.: I social network ad oggi sono degli ottimi canali per avere maggiore visibilità. Sarebbe un peccato non usufruirne. Inoltre, sono un ottimo sistema per restare in contatto col proprio pubblico e poter ricevere feedback sul proprio lavoro. In questo modo si può sempre crescere e migliorare. Di contro però “Levatevi quel telefonino e venite a sentirci dal vivo!”.
M.E.: Se per social si intende un mezzo diverso di promozione, va bene lo stesso. L’importante è continuare ad ascoltare attentamente la musica, anche su nuove piattaforme.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? Ad esempio, “Rebis” è uscito per Orange Park Records mentre “Rajas” in autoproduzione. Come mai la scelta di “mettersi in proprio”? Non c’è stato nessun tentativo o volontà di proseguire sulla strada delle etichette discografiche?
A.Z.: Il tentativo di proseguire con le etichette c’è stato, ma nessuna è stata in grado di offrirmi più di quanto non potessi gestire in autonomia. Le difficoltà maggiori sono tutte successive alla realizzazione del disco, ed è su questo aspetto che non ho ricevuto proposte valide.
Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?
A.Z.: Un’etichetta valida, che ha le possibilità di investire concretamente in un progetto, sicuramente può dare un valore aggiunto alla produzione di un disco, oltre che aprire i canali importanti per distribuirlo e promuoverlo. Ma la percezione che un prodotto sia più o meno valido a seconda di questo parametro credo sia figlia dell’incapacità di giudicare autonomamente un’opera. Molto dipende dagli obiettivi che ci si pone, ma l’autoproduzione è una via sicuramente percorribile da chi si affaccia al mondo della musica e può rappresentare un ottimo biglietto da visita per presentarsi successivamente ad un’etichetta.
E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?
A.Z.: ci sono degli elementi nel progressive italiano attuale con i quali collaborerei molto volentieri, ho avuto diverse occasioni di confronto e crescita e mi piacerebbe ampliare questo tipo di esperienze. Per la musica dal vivo bisogna sicuramente accedere ai canali idonei per poterla proporre.
M.E.: Sì, con i canali giusti.
Esulando per un attimo dal mondo Bridgend e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
A.Z.: Chitarrista a tempo pieno, mi sto dedicando alla liuteria da qualche anno. La chitarra che ho usato nelle registrazioni di “Rajas” l’ho costruita con il mio maestro di liuteria appositamente per il disco.
L.R.: Sono pianista/tastierista da una vita ormai. Sono sempre stato appassionato di chitarre, tant’è che spesso i miei assoli con i sintetizzatori sono più chitarristici che prettamente tastieristici. Avendo una maniera particolare di suonare la chitarra – sono mancino ma uso chitarre destre “al contrario”, senza girare le corde – sono giunto al punto di costruirmi una chitarra personale: da quell’esperienza ne sono nate altre (più consuete come costruzione) di cui vado fiero. La via della liuteria è un’altra cosa che condivido con Andrea.
M.B.: La vita quotidiana è un’attività artistica!
M.E.: Oltre a suonare da parecchi anni, ho la passione per la didattica e per qualsiasi forma riprese video, dunque anche associato al montaggio (video/suono).
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
A.Z.: Se escludiamo il prog italiano di cui sono avido accumulatore di vinili, i miei ascolti preferiti spaziano tra Django Reinhardt, Steely Dan, Stevie Wonder, Marillion e Frank Zappa.
L.R.: Domanda quasi impossibile. Comunque direi Herbie Hancock in qualunque sua forma, Stevie Wonder, Pink Floyd e Doors a parimerito.
M.B.: Adoro e rispetto tutta la musica, in particolare gli artisti che mi hanno influenzato di più in questi anni sono Dream Theater, Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath e Billy Cobham. La lista è ancora lunga e un podio sarebbe difficile da scegliere perché ognuno mi colpisce nell’anima in modo diverso.
M.E.: Non c’è un vero e proprio podio, diciamo. In base alla mia esperienza musicale, ho suonato di tutto, ma mi oriento da quasi sempre verso una musica (jazz/rock), dove il jazz rappresenta la sfumatura ricca dell’apporto armonico ed il rock rappresenta la spinta ritmica che crea la pulsazione.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
A.Z.: Tre musicisti geniali: Miles Davis, John Coltrane e Django Reinhardt.
L.R.: Due libri: l’autobiografia di Miles Davis e “Lo Zen e l’Arte della Motocicletta”, da rileggere ogni sette anni.
M.B.: Adoro “It” di Stephen King, esalta il valore di essere un gruppo e trarre forza dalle situazioni difficili.
M.E.: Forse Sting e Miles Davis che hanno avuto il coraggio e la curiosità di reinventare un loro mondo musicale per tutta la vita.
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
M.B.: Speriamo solo non piena di trap!
M.E.: C’è un’altra domanda di riserva?
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?
A.Z.: Mi ricordo questo ragazzo che al termine di un concerto di “Rebis” (reso interamente strumentale per motivi logistici) mi disse in tono deluso che non avevo cantato bene come nel disco! Non seppi neanche da che parte iniziare a rispondergli!
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Bridgend che vi è possibile anticipare?
A.Z.: Vorremmo portare “Rajas” e una buona parte di “Rebis” dal vivo, stiamo valutando se ci sono le premesse per farlo. E sicuramente in futuro vorrò concludere con un album finale questa trilogia!
Grazie mille ragazzi!
Bridgend: Grazie a te!
(Settembre, 2020 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti)
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