Un caro benvenuto a Mirko Galli (M.G.), Tommaso Lambertucci (T.L.), Andrea Lazzaro Ghezzi (A.L.G.) e Marco Poloni (M.P.): Metronhomme.
Metronhomme: Un corale saluto a te e ai lettori di OrizzontiProg!
Diamo il via alla nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Metronhomme e cosa c’è prima dei Metronhomme nelle vite di Mirko, Tommaso, Andrea Lazzaro e Marco?
M.G.: Sono l’ultimo arrivato anche se la nostra amicizia è di molto precedente. Con Marco, in particolare, ho condiviso, oltre al liceo, anche diversi progetti musicali.
T.L.: La musica c’è sempre stata: ho studiato pianoforte classico dai sette anni, ma le prime esperienze con gruppi rock o di elettronica mi hanno fatto capire che era quella la strada. Il progetto è nato da Andrea, Marco e me. Dall’idea di provare a fare progressive, un genere che mi ha sempre affascinato (Andrea lo ascoltava da sempre) ma anche un po’ spaventato… È andata bene!
A.L.G.: La storia del gruppo ha inizio nell’estate 2003 quando mi incontrai con Tommaso e Marco in occasione di una circostanza conviviale. Tutti uscivamo da recentissimi “divorzi” o scioglimenti dei rispettivi gruppi precedenti. I patti iniziali vedevano la comune idea di dedicarsi esclusivamente a nostre composizioni, escludendo le “cover” dalle attività del gruppo.
Precedentemente, contestualmente ai miei studi sulla batteria, avevo fatto parte di altri progetti sempre di musica originale a Varese (con i Terzomillennio), a Perugia (con i Curvatura Nove) ed a Macerata (con i Meridiano Zero), ma i Metronhomme sono stati il mio gruppo più longevo e… stimolante!
M.P.: Prima c’è: lezioni di piano e solfeggio, poi approccio da autodidatta alla chitarra; tanti sogni e tante speranze con quello che sarebbe diventato, successivamente, il bassista dei Metronhomme, Mirko Galli; lezioni private e il progetto “Altalena”.
Metronhomme: come si arriva alla scelta del nome e cosa significa?
A.L.G.: Nei primi due anni di attività, il gruppo non ha avuto un nome fisso: cambiavamo mensilmente alla ricerca di quello che riuscisse convincente. Si passava da “Gli ombrelli dell’arrotino”, a “Piccoli veicoli musicali” e tanti altri nomi un po’ bizzarri, concepiti per di più dalle menti mia e di Marco, cassati puntualmente da Tommaso. Siamo andati avanti così fino al giorno in cui si dovevano mandare in stampa i manifesti del nostro primissimo spettacolo. L’ultimo giorno utile tiro fuori dal cilindro “Metronhomme”, nome che raggiunse, fortunatamente, il gradimento di tutti. È un gioco di parole che fa riferimento al metronomo (oggetto musicale per eccellenza), mescolandosi alla dimensione umana (-homme). Dopo sedici anni ancora mi piace, e provo un sobbalzo emotivo quando mi capita di vederlo scritto sul manifesto di un nostro concerto, o adesso, in una recensione o un post in internet!
Nel 2005, viene presentato lo spettacolo intitolato “L’ultimo canto di Orfeo”, una libera interpretazione musical-multimediale del mito greco di Orfeo ed Euridice. L’idea si basa sulla rappresentazione di un viaggio musicale avvalendosi dell’uso di un piccolo corpo di ballo, di voci narranti fuori campo per accompagnare lo svolgersi dei quadri musicali e della proiezione di alcuni videoclip sincronizzati all’esecuzione live dei quadri sonori. Come nasce e si sviluppa l’idea? E quali sono le difficoltà che s’incontrano nel realizzare un’opera del genere (sia in fase di scrittura sia sul palco)?
T.L.: L’idea è nata da un confronto interno: il genere progressive, per di più strumentale, ci ha spinti a provare una strada alternativa, quella di lavorare con i teatri. Siamo partiti così, sviluppando la storia di un mito greco che ben si prestava e che ci ha da subito appassionati. Con l’occasione, ci siamo confrontati con la mia fidanzata dell’epoca (ora diventata moglie!), videoeditor di professione. Sono nate bellissime idee fino ad arrivare ad uno spettacolo multimediale: qualcosa che a Macerata non credo si fosse mai visto prima.
A.L.G.: Fin dall’inizio ci siamo resi conto che l’assenza del cantato nei nostri brani avrebbe potuto restringere molto la fruibilità delle nostre esibizioni dal vivo. Inoltre, è stato difficile trovare una collocazione live adeguata: la nostra proposta musicale non si presta alle sagre della porchetta, non è da pub né da festa del patrono… e solo con questo ci siamo giocati l’80% degli spazi possibili! Ragionando su questi punti arrivammo alla soluzione di provare a creare un live con degli elementi a supporto, che sopperissero l’assenza del front man. In pratica la mancanza della voce ha funzionato da molla creativa che ci ha portato alla realizzazione del nostro primo spettacolo (l’Orfeo), risolvendo anche il problema della nostra collocazione: il teatro!
L’idea di musicare il mito di Orfeo ed Euridice nasce da una proposta di Tommaso, come pretesto per darci un tema sul quale lavorare. Abbiamo passato un periodo di brain storming per studiare i numerosi scritti sul tema ed immaginare come avremmo potuto realizzarlo musicalmente e visivamente.
Così si sono sperimentate connessioni tra video, recitazione, musica e danza.
In particolare la musica non ci diede problemi: per nostra fortuna abbiamo sempre avuto una fervida creatività sotto questo punto di vista. Ma ne l’Orfeo ci trovammo a ricoprire anche i ruoli di registi e di tecnici. C’erano brani danzati, proiezioni video, voci narranti, tutto sincronizzato con la nostra musica eseguita dal vivo. Lo spettacolo era completamente a “click” per permettere tali sincroni, addirittura anche le luci erano completamente programmate al computer per tutto lo spettacolo. L’organizzazione fu un’avventura incredibile a ripensarci: tutti quegli elementi da far collimare, la supervisione di tutto… Ancora oggi ci chiediamo come riuscimmo a costruire quell’impianto, con un budget veramente ridicolo. Tantissime le collaborazioni. Ringraziamo tutte le persone che ci hanno aiutato con passione, perché con il loro apporto siamo riusciti a realizzare spettacoli che sembravano un azzardo solo a pensarci, rapportandoli alle nostre risorse, ed ovviamente a tutti loro va la nostra riconoscenza! Per chi fosse curioso, QUI è possibile vedere l’intero spettacolo tratto dal video promozionale che realizzammo al tempo.
Il 2008 vi vede alle prese con un nuovo spettacolo: “Neve” (rappresentazione musical-teatrale liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Maxence Fermine). Mentre, nel 2010, è la volta di “Bar Panopticon”. Questi due lavori vi vedono sempre più coinvolti nel processo globale di creazione, tra ricerche, collaborazioni e realizzazione di musiche, sceneggiature e video. Ma quali sono i punti di contatto e le differenze tra le tre opere? A “bocce ferme”, qual è quella che vi ha più soddisfatto (sia nella produzione sia sul palco) e a cui siete più legati?
M.G.: Punto di contatto è il modo di produrre lo spettacolo e il luogo deputato alla rappresentazione, ossia i teatri. La differenza tra “Neve” e “Bar Panopticon” è il tipo di “narrazione” che abbiamo ideato. In “Neve” la leggerezza degli haiku utilizzati nell’esibizione ha donato leggerezza alle nostre musiche. Le riprese e la recitazione di “Bar Panopticon” hanno spinto i nostri pezzi verso ricerche stilistiche più azzardate e peculiari.
T.L.: “Orfeo”, per una serie di motivi, il primo dei quali è quello che eravamo maledettamente giovani e liberi. Non avevamo esperienze di teatro e questo ci ha dato infinite possibilità. Avevamo il tempo, cosa che oggi scarseggia… Tutti i progetti sono stati molto interessanti da sviluppare, perché hanno previsto collaborazioni sempre diverse. I punti di contatto tra le opere sono il voler raccontare una storia e farlo con più canali comunicativi, l’utilizzo della musica come vettore principale, l’intraprendenza. Le differenze consistono unicamente nei “media” utilizzati: in “Orfeo” musica, video, voci di attori, corpo di danza. In “Neve” musica, scenografie video, attori in scena, musicisti in scena ma in secondo piano. In “Bar Panopticon”, lo spettacolo più complesso, attori su palco ed in video (avevamo tre proiezioni sincronizzate sulle scene!), musicisti che diventano attori… Un delirio!
A.L.G.: Ogni spettacolo ha avuto il proprio carattere: l’“Orfeo” è stato il primo esperimento, dove la nostra ingenua “inesperienza” ha giocato un ruolo fondamentale. Fu un autentico azzardo.
Con “Neve” provammo a sollevarci di una parte delle componenti organizzative, affidando tutta la parte recitativa ad una compagnia teatrale. In realtà questa scelta creò altre problematiche che ricaddero sempre sulle nostre spalle, e l’intero spettacolo prese una piega più teatrale in senso stretto, collocando la musica quasi in secondo piano.
“Bar Panopticon” fu il salto di qualità. Coinvolgemmo regista, attori e scenografi professionisti. Autore della primordiale sceneggiatura, poi rimodellata, è stato Marco. Era in stile noir, nella quale noi comparivamo anche come attori oltre che musicisti. La scenografia era supportata da tre schermi installati sul palco, sui quali venivano proiettati i video a supporto della storia: spesso gli attori interagivano con altri personaggi precedentemente filmati e proiettati in scena. Un lavoro cervellotico ma di grande effetto!!!
La stupenda locandina è stata disegnata dal nostro caro amico, bravissimo artista, Roberto Rinaldi (Il Giornalino, Dylan Dog, Martin Mystere, Gazzetta dello Sport, ecc.…).
Il problema di “Bar Panopticon” fu che risultò molto dispendioso: aveva una scenografia enorme e pesante, servivano troppi tecnici, e quindi risultò “invendibile”! In quel caso facemmo il passo troppo lungo!!! …tutt’ora l’intera scenografia giace in un magazzino di un teatro cittadino! Di quest’ultimo spettacolo sono anche andate perse le foto e le riprese effettuate con cui si voleva realizzare un DVD, cosicché la memoria resta affidata esclusivamente ai soli presenti in sala!!!
Escludendo la parte letteraria dell’opera, quali sono le fonti d’ispirazione musicali che vi hanno “aiutato” nella realizzazione dei tre lavori?
M.G.: L’ispirazione nasce dall’interazione e dall’ascolto reciproco.
T.L.: Durante “Orfeo” ascoltavo “1.Outside” di Bowie a ripetizione. Sono ossessionato dal pianoforte di Mike Garson. Poi c’è stato il mio periodo di Notwist, Postal Service, ecc., tutta musica lontana anni luce dal prog ma che ci ha aiutato a non restare dentro lo “standard prog.”. Idem per i successivi, a cui si aggiungono le suggestioni dei miei compagni di avventure.
A.L.G.: Le esperienze personali: siamo tutti appassionati ascoltatori di musica e fruitori di eventi culturali. Abbiamo tratto spunto dal bagaglio di conoscenze costruito negli anni. Ascoltando tanti generi musicali differenti tendiamo a non darci limiti di genere in fase compositiva. L’ispirazione deriva dalla elaborazione di quanto assimilato da ciascuno e dal continuo confronto tra noi.
M.P.: Non mi accorgo delle inevitabili contaminazioni. Amo i loop, le ripetizioni ossessive. Non saprei individuare le fonti della mia e della nostra ispirazione. Amiamo tutti profondamente la musica, sia quella innovativa che le pietre miliari del passato e tutti e quattro ci portiamo dentro, quotidianamente, questa curiosità musicale.
Come sono stati accolti dal pubblico e dalla critica i tre spettacoli?
T.L.: Dal pubblico molto bene. Sono spettacoli davvero impattanti. Purtroppo, nonostante i riconoscimenti (tra cui quello dell’AMAT, associazione che nelle Marche gestisce il teatro amatoriale e che ci ha prodotto “Bar Panopticon”), il bacino è ristretto, per i noti problemi che affliggono la fruizione dell’arte in genere in Italia. Quanto alla critica, noi siamo rimasti sempre molto nascosti, non saprei dire per quale motivo… Solamente con “4” siamo usciti alla ribalta, grazie allo sforzo che Andrea ha fatto per promuoverci. Visti i risultati che stiamo ottenendo, rimpiango non sia stato fatto anche prima!
A.L.G.: A livello di pubblico, sono andati oltre le aspettative. Abbiamo (quasi) sempre avuto un ottimo riscontro, anche numerico. Dei primi due lavori facemmo diverse repliche in vari teatri, arrivando ad esibirci fino a Trento, mentre “Bar Panopticon” vide la luce solo una volta: la Prima… nel bellissimo teatro settecentesco della nostra cittadina, il Teatro Lauro Rossi. Fu una splendida serata sold out!!!
Riguardo alla critica: coloro più aperti alle sperimentazioni e alle commistioni di diversi linguaggi artistici hanno apprezzato i nostri lavori. L’AMAT (il maggiore ente organizzatore di attività teatrali delle Marche), ad esempio, ha più volte espresso belle parole di lode nei nostri riguardi.
M.P.: Chi mi ha preceduto ha saputo rispondere meglio di me alla domanda!
E come mai solo “L’ultimo canto di Orfeo” ha poi visto la luce anche su formato fisico?
T.L.: I dischi li ho registrati io, nel mio home studio. “Orfeo” l’abbiamo fatto con tutti i crismi, poi siamo stati presi dagli spettacoli. Ma siamo arrivati sempre molto stanchi alla fine del percorso di messa in scena, quindi scelleratamente non abbiamo intrapreso la registrazione su un formato audio. Va anche detto che “Neve” e “Bar Panopticon” nascono come spettacoli integrati, per cui le musiche sono più difficilmente inseribili in un disco “compiuto”.
A.L.G.: Perché le musiche dello spettacolo erano pensate come veri e propri brani, quindi presentabili non solo dal vivo, ma anche separatamente su un album (ascoltabile QUI). La cosa non è invece stata possibile per i successivi due lavori, le cui musiche contavano numerosissimi interventi, ma di breve durata e finalizzati al contesto dello spettacolo e non presentabili singolarmente come album.
Collegandoci a quanto detto sinora, sul vostro sito si legge: I Metronhomme sono attivi e disponibili anche per la composizione e l’adattamento di musiche e colonne sonore per spettacoli teatrali, audiovisivi, film, cortometraggi, video pubblicitari, videogiochi, etc…. Quali sono le problematicità oggettive che s’incontrano nel creare “musica su richiesta”?
M.G.: È necessaria l’empatia col committente, senza mai snaturare la propria essenza.
T.L.: L’attività di composizione (che faccio come secondo lavoro) è un’attività che mi piace definire “sartoriale”. Dipende molto dal committente e dal rapporto che si crea con lui. Occorre essere bravi ad individuare le esigenze di quest’ultimo, ed essere disposti alla malleabilità.
A.L.G.: Cercare di interpretare l’idea del richiedente per farla propria e trasferirla in una musica che piaccia anche a te che la componi!!! Ma è anche una cosa divertentissima!
M.P.: Il pericolo è l’assenza d’ispirazione. Quando sei abituato a realizzare ciò che ti piace rischi sempre di avvertire un certo disagio nel dover rispettare alcuni limiti.
Dopo “Bar Panopticon”, sino al 2019, c’è una sorta di “vuoto” nelle attività dei Metronhomme. Cos’avete fatto in questi anni?
T.L.: Creare “4” è stato davvero un processo lungo e molto faticoso. Volevamo fare tutto bene, perché sapevamo che avremmo stampato un vinile. Un vinile è come un diamante: è per sempre.
A.L.G.: “Bar Panopticon” ci impegnò molto tempo anche dopo la sua prima ed unica rappresentazione. Abbiamo cercato in tutti i modi di promuoverlo per fare nuove esibizioni, o di rimodellarlo per renderlo più snello. Impiegammo un paio d’anni prima di cedere e di concentrarci su un nuovo progetto. La realizzazione macchinosa e faticosa di “Bar Panopticon”, seguita dalla delusione per non aver mai replicato, aveva accumulato parecchio stress e frustrazione all’interno del gruppo. Eravamo stanchi di dover gestire le ballerine, gli attori e tutte le questioni tecniche e burocratiche, ciascuno con le sue esigenze e i propri capricci… Sentivamo il bisogno di alleggerire e di tornare all’essenza del nostro gruppo. Così decidemmo che il nuovo progetto sarebbe stato esclusivamente musicale: un album. Scegliemmo fin da subito il vinile come supporto: tutti noi abbiamo sognato, fin da ragazzini, di possedere il disco del proprio gruppo, infilato lì, tra gli altri LP della collezione, magari mescolato tra i big… Ecco volevamo realizzare questo piccolo sogno comune!
Inoltre, dal 2012, il gruppo ha visto in sequenza matrimoni e varie nascite che hanno ovviamente inciso sugli impegni familiari e sui ritmi delle nostre attività musicali. In questo periodo abbiamo continuato a suonare in sala prove con una frequenza più ridotta. I brani nascevano ugualmente, tuttavia la composizione, gli arrangiamenti e la definizione, attività che maggiormente facciamo insieme alle prove, hanno acquisito tempi biblici!
“4” è stato una lunghissima gestazione di un’attività compositiva che non abbiamo mai abbandonato, ma solo rallentato. Ci siamo presi il nostro tempo, cercando di finalizzarlo al meglio per la buona riuscita dell’album.
Il 2019, appunto, vi vede tornare con un nuovo lavoro, il vostro primo, vero album: “4”. Come e quando nasce l’esigenza di “emanciparsi” dal mondo del palco e dalle esigenze teatrali? Poste le basi su di un prog che si muove tra le sonorità di casa nostra e un occhio alle idee d’oltremanica, [la band] spazia liberamente tra la sperimentazione, la psichedelia, un tocco di jazz e tanto altro. Vi siete sentiti, dunque, più “liberi” con “4” rispetto al passato?
M.G.: Forse il mio inserimento e la conclusione di un ciclo hanno prodotto la propensione a una maggiore libertà compositiva.
T.L.: No, mi sono sempre sentito libero. Per questo continuo a fare musica!
A.L.G.: Sicuramente più liberi dai vincoli che uno spettacolo richiede. Affrancati da tali “paletti”, in “4” ci siamo concentrati esclusivamente sull’aspetto musicale, concedendoci la massima libertà compositiva.
Mi raccontate la genesi di “4”? E quanto dei “vecchi” Metronhomme c’è nell’album?
M.G.: Genesi lunga anche per vicende personali dolorose. Basti pensare che il sottoscritto, in esilio a Romaper quasi tre anni, ha dovuto registrare i pezzi via mail. Questo, d’altro canto, ha permesso un limae labor altrimenti impensabile.
T.L.: “4” ha seguito un processo creativo diverso dai precedenti (in cui uno proponeva un brano e si finiva di arrangiarlo assieme). È personalmente un procedimento che non mi appartiene, per cui sono stato quello più in difficoltà durante le lavorazioni. Poi, però, vedevo che le cose prendevano la giusta forma, così… Via! Dentro, a differenza degli altri, c’è solo una maggiore consapevolezza, data dall’esperienza.
A.L.G.: Come già accennato prima, l’album è nato dalla nostra necessità di realizzare un lavoro che vedesse protagonista la sola musica, dimenticando tutte le altre questioni. “4” è la cristallizzazione delle idee, dei gusti e delle vicende personali di quel periodo. È stata un’esperienza di condivisione musicale gratificante. Come detto anche da Tommaso, siamo sempre noi, più svincolati e (forse) maturi.
Tra le tante peculiarità che mi hanno colpito del vostro album, ce n’è una in particolare: i titoli dei brani. Chi di voi mi spiega il nesso (se c’è) con i singoli brani strumentali?
M.G.: Per noi divertirsi e ridere è un presupposto istintivo…
A.L.G.: Ahahah! I titoli dal carattere “metafisico” traggono dalla nostra parte giocosa. Fanno riferimento a episodi successi nei tanti momenti vissuti insieme mentre nascevano i brani: qualcosa di strano che abbiamo visto, un episodio che ci ha fatto sorridere, a volte anche qualcosa di serio, e su cui abbiamo concentrato la nostra attenzione…
Il periodo del lockdown dovuto alla pandemia vi ha visti piuttosto attivi “a distanza”. Frutto di questa “clausura” è “Tutto il tempo del mondo – 1.òikos”. Com’è stato suonare senza contatto fisico? E qual è stato, dunque, l’impatto della pandemia sulle vostre vite?
M.G.: Io vivo in campagna isolato, per cui ho mantenuto una certa libertà di movimento. Suonare e comporre a distanza è stato comunque molto faticoso, per via della necessità di consegnare materiale finito. Però la destrezza del nostro tecnico del suono (Tommaso “Tot”), unita alla nostra ineluttabile voglia di suonare ci ha permesso di produrre brani di cui andiamo fieri.
T.L.: È stato, per quanto mi riguarda, fantastico. Una nuova esperienza. Che ha funzionato. I primi sei brani sono tutti nati in un mese o poco più. Io durante quel mese non ho lavorato, per cui, il primo pomeriggio e la sera dopocena (con i bimbi a nanna) avevo a disposizione due “sessioni” in studio. E li ho sfruttati tutti, fino all’ultimo secondo! In questo senso, la prima parte di “1.òikos”, è stata l’opposto di “4”. Ed è la modalità di composizione che preferisco!
A.L.G.: Nell’impossibilità di raggiungere la sala prove, il secondo giorno di “quarantena”, Marco ci ha proposto di provare a comporre un brano “a distanza”. In un paio di giorni è nato “Quarantine”. Abbiamo continuato così per tutto il periodo di clausura, arrivando alla composizione dell’EP. È stata un’esperienza tanto strana quanto entusiasmante… Era una sorpresa continua ascoltare l’evoluzione. Di giorno componevo e registravo le parti con vari oggetti a disposizione in casa, la sera ascoltavo il materiale ricevuto via mail dagli altri… Da questo punto di vista, la pandemia ci ha avviati fuori dalla strada già battuta per provare ad esplorare nuove soluzioni.
M.P.: Il tragitto che separa le nostre case dalla sala prove è, per me, un tragitto magico, una sorta di percorso allegorico che prevede riti e ripetizioni settimanali. Non averlo è stato pesante. Ma abbiamo imparato subito questa nuova possibilità dell’agire a distanza. Io mi ci sono trovato molto bene e sono riuscito a vuotare il sacco rigonfio di idee che portavo sulle spalle.
L’essere limitati in casa come ha influito sulla qualità dell’album e sulla sua effettiva concretizzazione? Quali sono le differenze con “4”?
M.G.: Per me la difficoltà, il fastidio direi, maggiore è stato dover sdoppiarmi in musicista e tecnico del suono…
T.L.: È quasi un altro genere. Avevamo davvero troppe limitazioni e queste hanno tirato fuori il meglio di noi. Marco si era comprato un’infinità di strumenti, tra cui il Maschine, per cui è uscito dalla chitarra, Andrea è stato quello che più di tutti ci ha stupito: lui è il nostro pilastro progressive. Sentirlo suonare una bacinella dei panni come cassa, vedere che pattern ritmici è stato in grado di tirare fuori, mi ha sorpreso.
A.L.G.: Per quanto mi riguarda ha influito in modo decisivo. Le differenze sono evidenti. Senza la batteria (neppure quella elettronica) ho dovuto cercare metodi alternativi per costruire le parti ritmiche, per le quali ho utilizzato i più disparati oggetti casalinghi: dalla bacinella per il bucato a spazzole per capelli, dispenser del sale, monete, tappi, bottiglie, matite, il respiro, ecc., scoprendo che la casa offre tanti strumenti informali quanti un negozio di strumenti musicali, ed ancor di più! Non ho voluto “imitare” la batteria, ma cercare di comporre ritmiche che accompagnassero i brani in modo più percussivo suonando gli oggetti a mano.
M.P.: L’approccio è più intimistico, stralunato, corposo e denso. “4” è un album potente e divertente. Il nuovo lavoro esplora nuovi approdi e sfrutta capacità di ognuno di noi che in genere non utilizziamo quando suoniamo insieme.
Vista la straordinaria risposta a livello internazionale ottenuta da “4” (incoronato anche quale “album dell’anno 2019” da Progressive Rock Journal), e la successiva realizzazione di “Tutto il tempo del mondo – 1.òikos”, con quale “occhio” vedete ora il progetto? Siete soddisfatti di questo nuovo corso? E, in definitiva, siete ancora una “band da teatro” o, ormai, il tracciato verso la produzione “libera da necessità dello spettacolo” è quello definitivo?
M.G.: Da anni ormai ho imparato a prendere ciò che viene senza esaltarmi nella buona sorte, né abbattermi nella cattiva. L’importante, dal mio punto di vista, è che rimanga immutata la voglia di condividere le nostre passioni non solo musicali. Solo così si possono superare anche gli attriti che inevitabilmente sorgono tra personalità forti e diverse.
T.L.: Lo scenario musicale attuale è completamente mutato. Occorre adeguarsi, c’è poco spazio per i nostalgici, ahimè. Suonare è per necessità di cose il sogno di ogni musicista. Il teatro ormai è lontano, quasi inaccessibile, per suonare il nostro genere occorre trovare quei posti (sempre più rari) gestiti da gente che ha a cuore la musica indipendente. A me piace lavorare in studio, per cui non mi sento così male in questa veste…
A.L.G.: Le modalità compositive del tutto inusuali di “Tutto il tempo del mondo” ci hanno stimolato creativamente. Uscendo dalla nostra comfort zone siamo stati capaci di esplorare nuovi territori, nuove sonorità, realizzando un lavoro coerente.
Riguardo al teatro, niente è “definitivo”. Abbiamo sempre cercato di arricchire i nostri live con qualche elemento ulteriore ed il teatro è il luogo perfetto per farlo. Adoro l’idea di poter scegliere liberamente se suonare svincolati da uno spettacolo o se, all’occorrenza, inserire qualche elemento coreografico che arricchisca le nostre esibizioni.
M.P.: Io voto produzione libera! Siamo molto contenti di come il nostro lavoro sia stato accolto, questo ci ha spinto ad osare, nel nuovo lavoro. Quando le cose iniziano a rotolare è opportuno correre con loro.
E, sempre restando in tema “successo”, come nasce la collaborazione con le etichette Lizard Records e M.P. & Records per la distribuzione di “4” in Italia e all’estero?
A.L.G.: Dopo la stampa del vinile “4”, abbiamo pensato di promuovere (per la prima volta) l’album tramite canali diversi dai nostri soliti legati al teatro. Abbiamo avuto la fortuna di trovare l’interesse di Vannuccio Zanella e Loris Furlan che ci hanno offerto il loro aiuto per la distribuzione dell’album (oltre, ovviamente, ad Antonino Destra della G.T. Music Distibution), e che ringrazio ancora per il loro gentile supporto e l’amicizia dimostrata. Con Vannuccio il rapporto è andato oltre a “4” e stiamo collaborando anche per “Tutto il tempo del mondo”.
Spostandoci, invece, sul fronte live, come sono diventati negli ultimi anni i Metronhomme sul palco (privati della parte teatrale)? Cosa c’è da aspettarsi da un vostro concerto?
M.G.: Ognuno di noi si comporta in modo diverso: personalmente io sono un istrione, non riesco a stare fermo e manifesto con forza le mie emozioni.
T.L.: Chiaramente, essendo familiari, “4” lo abbiamo presentato… in teatro! Sinceramente nelle Marche sono davvero pochi i posti dove poter suonare musica strumentale con un pubblico attento. Comunque, teatro a parte, il nostro live “regge”, perché “4” è un disco che riesce ad incuriosire il pubblico e non annoia, alternando sempre il “forte” al “piano”, intesi non solo come volumi.
A.L.G.: Dal vivo diamo tutto. Curiamo molto le luci, la valorizzazione della location (se è il caso), usiamo videoproiezioni… in sostanza cerchiamo sempre di allestire uno show che riesca a catturare il pubblico, che lasci un segno. Saremmo molto contenti di partecipare a qualche rassegna o festival. Quest’anno, purtroppo, è saltato ma speriamo di riuscire ad interessare qualche organizzatore per l’anno futuro.
M.P.: Secondo me siamo proprio cambiati. Trapela, nelle nostre esibizioni live, il piacere di essere sul palco e suonare per chi ascolta. Ci divertiamo da matti… tranne Tot, Mr. tastiera, lui è sempre il più serio! 🙂
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
M.G.: La musica è per me un modo ancestrale di stare insieme, per cui…
T.L.: Sarebbe da seguire bene cosa dice Daniel Ek, il CEO di Spotify a riguardo. C’è chi si arrabbia. Personalmente ritengo che questa mutazione vada accolta e, necessariamente, cavalcata. Produrre “1.òikos” come un insieme di tanti brani lanciati singolarmente risponde esattamente a queste esigenze.
A.L.G.: Io sono un romantico… Amo ascoltare la musica in modo tradizionale, seduto comodo e concentrato davanti al mio impianto hi-fi, magari condividendo una serata di ascolti con gli amici e discussioni annesse. È una delle cose che adoro di più. Le nuove tecnologie hanno stravolto tutto. Pro: si può ascoltare tutto quel che si vuole e arrivare ovunque in un solo istante, ma il prezzo da pagare è l’oceano caotico del web che tende ad appiattire tutto.
M.P.: Adoro l’innovazione. E poi, se vuoi, c’è sempre il mitico vinile. La nostra civiltà è complessa e saper cogliere questa complessità, permette di vivere con più profondità le cose. Il rischio, però, è di eccedere e vivere con superficialità il rapporto con la musica. Con un click oggi hai tutto; l’insoddisfazione è dietro l’angolo.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?
T.L.: Lo abbiamo fatto serenamente (su questo fronte siamo rassegnati). Siamo tutti belli grandicelli, la musica non è la nostra fonte di guadagno, per cui ciò che conta è fare bene le cose. Per quanto riguarda la promozione: abbiamo Andrea. Nessun gruppo può vantare tanto, in termini di comunicazione!
A.L.G.: La difficoltà maggiore ce la siamo imposta noi stessi! Il genere di musica che proponiamo è difficilmente classificabile. A noi non interessa tale classificazione, anzi è proprio un concetto che rifuggiamo. Però, in termini pratici, in un mondo dove tutto viene etichettato, significa non trovare una collocazione definita… Ciò si traduce nel fatto che siamo poco “prog” per un festival prog, poco jazz per una rassegna jazz, non cantiamo quindi niente palchi pop, e così via… Quindi ci siamo quasi sempre autoprodotti album e concerti!
M.P.: Domanda difficile. Il settore musicale è sommerso da produzioni di ogni genere, purtroppo le cose che a noi paiono interessare di più, in genere restano ai margini anche se meritevoli di ogni attenzione. Purtroppo stiamo vivendo un momento di impoverimento dei contenuti a favore della forma. Le strade che ti permettono di far conoscere la tua musica sono sempre meno, anche se, cosa assurda, la società moderna offre possibilità di comunicazione senza precedenti. Più ci si allontana dal selciato comune, meno si hanno possibilità di visibilità.
Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?
M.G.: Sì, se lo scopo è quello di esprimere se stessi in modo autentico.
T.L.: Questa cosa esiste, è chiaro. D’altronde noi siamo recensiti come “band indipendente”. Ci hanno classificato in una precisa casellina. L’idea di una musica “prodotto” non mi piace, la detesto. Ma viviamo nel ventunesimo secolo, dovremo farcene una ragione.
A.L.G.: L’autoproduzione è la soluzione in assenza del “produttore”. Questa figura, tradizionalmente intesa, è ormai un ricordo del passato… L’importante, a mio avviso, è la cura qualitativa dei contenuti. Ci sono produzioni del mainstream di bassissimo livello. Quindi se un’autoproduzione è di alta qualità musicale, non vedo alcun problema!
M.P.: L’autoproduzione è l’unica via che ti permette di fissare le tue idee in modo stabile. Resta comunque necessario trovare una persona che creda nel gruppo e che ti supporti nella giungla musicale. Autoprodursi non deve essere sinonimo di chiusura. Esistono ancora delle realtà interessantissime che, purtroppo, destano l’interesse di pochi.
E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà?
M.G.: Il Covid ha forse dato il colpo di grazia a una nazione che, pur essendo considerata nell’immaginario mondiale un paese di musicisti, non ha mai fatto abbastanza per promuovere la musica come strumento prezioso per elevare le qualità spirituali della società. Ma questo apre un discorso sulla scuola sul quale è meglio stendere un velo pietoso, e lo dico da insegnante. L’Italia è piena di realtà musicali locali di primissimo livello, ma senza un sistema che dall’alto le coordini e le sovvenzioni, restano isolate e qualche volta anche in competizione tra loro.
T.L.: Qui nelle Marche, ahimè no. È un aspetto che mi manca, sinceramente.
A.L.G.: La scena progressive italiana pur essendo di nicchia è una realtà molto attiva e consistente! Un appunto di carattere assolutamente personale: moltissime nuove uscite mi sembrano ancora troppo legate al progressive anni ’70… dischi che nascono già vecchi. La mia visione è quella di fare tesoro di ciò che ci ha regalato la storia, cercando di apportare qualcosa di nuovo e personale, svincolandosi dagli schemi compositivi e sonori già collaudati. Il (glorioso) prog degli anni passati dovrebbe essere il punto di partenza, non quello di arrivo…
M.P.: Siamo molto aperti ad ogni tipo di collaborazione. Per quel che mi riguarda sento di essere più rivolto alla sperimentazione che al prog attuale. Molto interessante è la scena post-rock e dark-metal attuale, italiana, ma soprattutto internazionale.
Esulando per un attimo dal mondo Metronhomme e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
M.G.: Io amo scrivere poesie e dipingere, oltre che occuparmi del mio orto.
T.L.: Produco musiche per una nota marca di giochi per bambini. È un’attività che mi dà davvero grandi soddisfazioni e non mi stanca mai (sono 15 anni che lo faccio). Ogni tanto poi mi capita di produrre il disco di un musicista/gruppo che stimo, anche se questa attività si riduce sempre di più nel tempo per motivi lavorativi e per vita familiare…
A.L.G.: Mi diletto a scrivere recensioni musicali!
M.P.: Dipingo, quando posso disegno e dipingo. E scrivo, quando posso scrivo!
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
M.G.: Pink Floyd, Bill Evans, Mozart.
T.L.: Certo! Faccio finta che il podio sia minuscolo e ne metto solo tre, costringendomi anche a “pescare” tra i viventi, sennò poi diventa triste: il mio David Bowie, James Blake, Radiohead. Ne ho tralasciati troppi, soprattutto del genere prog, non me ne abbiano a male gli altri!
A.L.G.: Ti elenco il podio della mia musica preferita: 1 il Rock in tutte le sue forme (blues, prog, fusion, sperimentale, ecc…), 2 la Musica classica (J.S. Bach su tutti e una passione sfrenata per i compositori sovietici), 3 il Jazz. Con rock e classica sono cresciuto, il jazz l’ho scoperto a Perugia durante gli anni universitari. Avevo casa in centro, proprio nel mezzo della nota manifestazione Umbria Jazz. È stato illuminante! In ogni caso, “The lamb lies down on Broadway” è il mio disco preferito in assoluto: lì c’è tutto quel che mi serve per stare bene.
M.P.: Gli U2 ed i… Pooh! (mi confesso). Se dovessi dar vita ad un podio, ai primi posti in ordine misto, a seconda dell’umore, metterei: Radiohead, U2, Genesis, King Crimson, Ralph Towner, Antonio Carlos Jobim, Pink Floyd e qualche esponente della c.d. musica concreta, tipo Terry Riley…
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
M.G.: Pasolini.
T.L.: Voglio essere originale. Vi consiglio di ascoltare i lavori di Disasterpeace. Un compositore che lavora nei videogiochi e che reputo un genio. Soprattutto per i nostalgici degli “8bit”…
A.L.G.: Amo leggere Georges Simenon di cui mi piacciono sia i Maigret che i libri svincolati dal famoso commissario. Musicalmente, invece, consiglio l’ascolto degli album originali di Friedrich Gulda: una figura sopra le righe che reputo straordinario anche come compositore, oltre che come pianista classico.
M.P.: Sì, ce ne sono moltissimi. Pescando nel passato: Bulgakov “Il Maestro e Margherita”, pescando nel futuro, tutto ciò che è sincretismo, contaminazione, invito ad ascoltare chi sperimenta, chi innova, chi ci prova, anche se il risultato certe volte non lo si percepisce subito; uno tra i più interessanti innovatori che ho sentito ultimamente è Mercan Dede, un grande compositore; il consiglio: ascoltate “Messenger from mystery”, pezzo super. Un bel film visto di recente: “A Ghost Story”. Inoltre, visitate l’Accademia di Brera se potete: i quadri del passato hanno una forza innovativa incredibile; non pensavo fosse possibile, o forse non me ne ero accorto, ma anche loro sembrano venire dal futuro!
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
M.G.: Il mondo sta andando verso l’atomizzazione della società, l’Italia non farà eccezione.
T.L.: Preferisco non immaginare troppo e vivere alla giornata, via…
A.L.G.: Auspico che si torni presto a fare musica dal vivo. Tanta musica dal vivo… possibilmente originale (i tributi non mi interessano)!
M.P.: Con la mascherina.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi (quasi) vent’anni di attività?
T.L.: Nel nostro primo CD c’è un ringraziamento ad una persona finita successivamente nella cronaca nera per tentato uxoricidio. Può bastare?
A.L.G.: In tanti anni ho riscontrato una estrema difficoltà nel comunicare il nostro nome… Tutte le volte che una persona chiede “come si chiama il tuo gruppo?” M-E-T-R-O-N-H-O-M-M-E… quell’”acca” e la doppia “emme”… sembra uno spelling impossibile da far comprendere!!! In pratica abbiamo un nome che ci fa “perdere” ascoltatori perché non riescono a trovarci nel web!!!!… Giuro che stiamo facendo i biglietti da visita solo per questo motivo!!!
M.P.: Il contratto di locazione. Il nostro primo contratto di locazione della sala prove, che esponevamo come un cimelio storico in sala prove. Beh, il vecchio padrone di casa, un tipo del tutto particolare, se non erro, applicando dei parametri tutti suoi, era riuscito a calcolare l’importo mensile in euro 66,6.
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Metronhomme che vi è possibile anticipare?
T.L.: Stiamo per trasferirci in una sala prove nuova, dove allestiremo le registrazioni della seconda parte del disco che stiamo facendo. Sarà un esperimento interessante: mentre la prima è stata costruita con metodica asincrona e “alla cieca” (ciascuno registrava il suo contributo su una “base” fornita da uno di noi), questa sarà caratterizzata da una registrazione live, in presa diretta. Un lato A e lato B davvero diversi!
M.P.: In questi giorni stiamo cambiando sala prove: addio Nello (il vecchio proprietario), benvenuta mamma di Davidino (la nuova proprietaria)!
Grazie mille ragazzi!
M.G.: Bòna!
T.L.: Prego, è stato un piacere! A presto!
A.L.G.: Grazie a te e un sincero in bocca al lupo per OrizzontiProg!
M.P.: Ciao, grazie!
(Ottobre, 2020)
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