Un caro benvenuto a Massimo Gerini (M.G.), Carlo Maria Marchionni (C.M.M.), Fabrizio Paggi (F.P.) e Giuseppe Petrucci (G.P.): Instant Curtain.
M.G.: Un saluto a te e grazie della disponibilità.
C.M.M.: Ricambio con piacere.
F.P.: Lieto di conoscerti.
G.P.: Grazie per l’accoglienza.
Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Instant Curtain e cosa c’è prima degli Instant Curtain nelle vite di Massimo, Carlo Maria, Fabrizio e Giuseppe?
M.G.: Il progetto Instant Curtain nasce all’incirca quattro anni fa, quindi è relativamente recente; all’epoca risposi ad un annuncio su di un sito per la ricerca di musicisti in cui si faceva riferimento ad un progetto per la costituzione di una band con l’obbiettivo di proporre materiale originale in ambito “progressive”; l’annuncio faceva anche riferimento ad alcuni gruppi, citando alcuni riferimenti stilistici di cui magari più avanti avremo modo di menzionare ed approfondire; si sottolineava, in particolare, la necessità di volere sviluppare una ricerca musicale che volesse essere quanto più “non derivativa” rispetto ai modelli musicali e, quindi, questa cosa mi incuriosì e risposi all’annuncio e così ebbe inizio questa bella collaborazione non solo musicale. Per quanto riguarda il periodo immediatamente precedente alla nascita del gruppo, ero impegnato nel “Voice to Teach”, percorso di specializzazione per insegnanti di canto e voce. All’epoca, inoltre, presi parte successivamente ad una seri di corsi di specializzazione presso la University of West London “Music Performance and teaching”; ero quindi particolarmente coinvolto nell’attività di studio ed approfondimento sia della tecnica vocale sia degli aspetti più legati alla dimensione della performance musicale o della didattica. Inoltre, ero coinvolto in un paio di gruppi in ambito “jazz fusion” con i quali già avevo avuto precedenti esperienze anche live. Rientrando dall’esperienza londinese, quindi, mi imbattei in questo annuncio di cui sopra e da lì ebbi l’occasione di conoscere Giuseppe e poi gli altri.
C.M.M.: Il progetto nel tempo ha avuto diverse fasi che hanno contribuito a sviluppare il percorso fino alla realizzazione del disco. Conoscevo già precedentemente Giuseppe Petrucci perché nell’ambiente musicale è un nome di riferimento sia in ambito concertistico che per l’attività didattica e di insegnamento dello strumento, quindi nella “comunità” musicale era impossibile non conoscerlo. Tuttavia era, all’epoca, una conoscenza non personale ma piuttosto legata al suo nome, avendolo visto più volte in concerto negli anni anche più indietro nel tempo, quindi sicuramente un riferimento in questo senso. In quel periodo ero particolarmente coinvolto nelle attività legate al mio studio di registrazione Carlo Maria Marchionni Studio (CMM Studio), che già da qualche anno era attivo, muovendomi sia in produzioni musicali di vario genere, soprattutto in ambito rock e metal, che nell’attività della sala prove contestuale allo studio. All’epoca, quindi, ero soprattutto coinvolto in questa attività anche se non avevo mai smesso lo studio della batteria che è il mio strumento, inoltre, in quel periodo, ero anche coinvolto in una formazione jazz che aveva all’attivo varie collaborazioni con musicisti del panorama jazzistico locale e numerosi live e partecipazione a festival. Fui coinvolto negli Instant Curtain in un momento in cui il gruppo stava subendo una trasformazione, essendo in parte cambiato l’organico della formazione, ma di questo credo ne parlerà Giuseppe, e soprattutto perché fui contattato proprio per iniziare una seconda fase di registrazioni dei brani. Credo comunque, anche di questo, ne parlerà più approfonditamente Giuseppe.
F.P.: Anche io conobbi Giuseppe e quindi entrai nel progetto Instant Curtain tramite un annuncio nel quale si richiedeva la disponibilità per una formazione in ambito ”progressive”; rimasi particolarmente colpito perché non troppo di frequente ci si imbatte in questo tipo di proposte musicali e, in particolare, per i riferimenti musicali che all’interno dell’annuncio venivano citati; quindi incuriosito, ma soprattutto spinto dalla motivazione a mettermi in gioco in una nuova realtà, risposi all’annuncio. All’epoca mi ero trasferito già da qualche anno nelle Marche, in provincia di Macerata, lasciando la mia Milano. Qui da subito iniziai una intensa attività di insegnamento del basso elettrico in varie realtà didattiche della zona, oltre che privatamente. Inizialmente, provenendo da una realtà come Milano, dovetti confrontarmi con un ambiente musicale nuovo ma altrettanto stimolante soprattutto in ambito jazz fusion. A Milano, iniziai precocemente lo studio del basso elettrico accompagnato anche dallo studio del sax contralto; all’età di diciassette anni fui introdotto allo studio del jazz con il maestro Enzo Greco che mi diede la possibilità di un approfondimento e di crescita nel linguaggio jazzistico. Lasciato lo studio del sax mi dedicai ad approfondire la tecnica ed il linguaggio musicale del basso elettrico, iniziando parallelamente numerose partecipazioni in formazioni jazz fusion. Trasferitomi nelle Marche, la routine era quella dell’insegnamento, oltre al suonare in varie formazioni musicali, soprattutto in ambito jazz fusion. Sentivo dunque la necessità di potere entrare in contatto con nuove realtà musicali, il bisogno di esplorare nuove dimensioni della musica dove poter portare il mio contributo ed il mio linguaggio musicale. Inizialmente, con Giuseppe, ci concentrammo nella registrazione dei primi brani che già avevano una forma piuttosto compita; infatti, io subentrai nel progetto Instant Curtain in una fase in cui una precedente incarnazione del gruppo aveva interrotto la sua attività, stando all’impossibilità di alcuni membri della formazione di potere continuare l’attività delle prove; inoltre, dopo svariate ricerche di musicisti, riscontrammo la difficoltà di sostituzione e quindi io e Giuseppe decidemmo di concentrarci nella registrazione dei brani già pronti, frutto della precedente lavorazione. Questa fase fu intensa e molto stimolante soprattutto a livello creativo di scrittura ed arrangiamento dei nuovi brani, di cui vedevamo la nascita e lo sviluppo. Gli eventi drammatici legati al sisma del 2016 ci imposero uno stop forzato a cui seguì una ripresa successiva nel 2017 per il completamento delle registrazioni.
G.P.: Il progetto Instant Curtain, come già accennato precedentemente dagli altri, ha attraversato diverse fasi e cercherò sommariamente di delinearle brevemente. Inizialmente, dopo una ricerca di musicisti, si creò un organico e iniziò una fase di prove dove il materiale iniziale del gruppo cominciò a prendere forma grazie al contributo di musicisti di diversa estrazione, ma comunque accomunati da una eguale passione ed interesse per il mondo “progressivo”, in una accezione più larga possibile; delineare questa fase è piuttosto difficile, in conseguenza di diversi avvicendamenti di musicisti all’interno della formazione che solo per un certo periodo raggiunse una dimensione stabile .Comunque i frutti di questo lavoro furono i primi brani contenuti nel disco. Data l’impossibilità di mantenere la continuità delle prove e del lavoro necessario all’arrangiamento dei brani, mi misi alla ricerca di nuovi musicisti ed ecco che conobbi Fabrizio, con il quale iniziammo la registrazione delle canzoni; è stato un periodo direi “pionieristico”, se posso usare questa definizione, perché insieme vedevamo nascere i brani frutto di una serie di rimaneggiamenti in fase di scrittura ed arrangiamento. Il contributo di entrambi fu decisivo e i brani da me scritti nella fase precedente presero decisamente vigore grazie anche all’apporto tecnico e creativo di Fabrizio.
Prima di Instant Curtain, le mie esperienze musicali sono innumerevoli, avendo iniziato a suonare piuttosto precocemente la chitarra. Da subito capii che la chitarra elettrica rappresentava il mio mondo e non mi dilungherò ora nell’elenco di ascolti, studi, trascrizioni di intere discografie che negli anni ho coltivato incessantemente con dedizione. Diverse formazioni si avvicendarono nel tempo, ma è con i Flying Gipsy che l’attività live prese decisamente il sopravvento contando concerti in Italia e all’estero e partecipazioni a festival come il Pistoia Blues nel 1996. Nei primi anni novanta ho aperto una scuola di strumento che propone corsi per tutti i livelli, dove propongo lo studio della tecnica chitarristica, l’approfondimento degli stili blues, rock, metal, jazz, classica, teoria musicale e guida all’ascolto.
Siete tutti “professionisti della musica” con, alle spalle, anni di studio, concerti, collaborazioni e insegnamento. Ma quando nasce l’esigenza di chiudersi in studio di registrazione per realizzare i brani che hanno visto la luce sotto il nome Instant Curtain?
M.G.: L’esperienza della registrazione di brani musicali rappresenta per un musicista una tappa obbligato nel suo processo di crescita; è un’acquisizione di esperienza a volte difficoltosa, perché dalla fase di studio del proprio strumento si passa alla concertazione delle varie voci strumentali in un insieme che è il gruppo musicale e la registrazione rappresenta una ulteriore fase perché introduce nuovi paradigmi e metodologie.
Io sono subentrato in un momento in cui i brani erano già piuttosto formati ma ho contribuito in questa fase ad una loro ulteriore crescita, non soltanto costruendo insieme a Giuseppe le linee melodiche e gli arrangiamenti, ma portando il mio contributo anche sul piano creativo delle canzoni. Direi che naturalmente si è arrivati alla registrazione di brani che già avevano assunto una forma piuttosto definitiva per l’esigenza di chiudere un cerchio che mancava di un tratto definitivo.
C.M.M.: Sono subentrato nel gruppo come batterista ma anche come “addetto” alla registrazione dei brani, quindi il mio apporto è stato sia di rinnovare gli arrangiamenti strumentali a volte riscrivendoli, o comunque intervenendo parzialmente nella rielaborazione di parti già presenti, sia nella fase ultima di registrazione, mixing e tutto quanto concerne l’attività legata a mettere nero su bianco i brani.
Direi che è stato decisamente un lavoro impegnativo sia per la ricchezza degli arrangiamenti strumentali, che quindi richiedeva una particolare attenzione nell’equilibrio dei livelli e dei volumi, sia per la creazione di uno spazio sonoro che rappresentasse esso stesso la qualità e l’intenzione del brano; quindi si è lavorato particolarmente sulla nitidezza dei suoni per aumentare la ricchezza degli arrangiamenti senza renderla artificiosa, cercando di mantenere una “pasta” sonora coerente e musicale.
F.P.: Come accennato in precedenza, ho partecipato nella prima fase di stesura dei brani attraverso le prove del gruppo e poi, successivamente, insieme a Giuseppe alla registrazione dei brani presso il mio studio personale; questa fase ha preceduto quella in cui è subentrato Carlo come addetto alla registrazione ed ha rappresentato anche il momento in cui i brani hanno assunto una veste quantomeno definitiva. La difficoltà si è rivelata nella contemporanea presenza di una fase di scrittura ed arrangiamento e di registrazione che, a volte, ha incontrato momenti di stallo (ma tenacemente abbiamo contribuito nello sbloccare le fasi più delicate).
G.P.: Ho assistito a tutte le diverse fasi di crescita delle canzoni e il processo di registrazione è stato a volte piuttosto ostico in virtù del fatto che, a volte, si sono rese necessarie diverse fasi di scrittura di una parte e, di conseguenza, anche i tempi ed i modi della registrazione, a volte, si sono complicati.
Devo dire che il contributo sia di Fabrizio prima che di Carlo dopo è stato parimenti rilevante perché entrambi, insieme a me, si sono rivelati decisivi per dare corpo al suono che insisteva nella mia mente e grazie a questa opera di traduzione si è reso possibile dargli una “forma”.
E Instant Curtain: come si arriva alla scelta del nome?
M.G.: Il nome di una formazione ne rappresenta la sintesi, quantomeno dà una forma ad un pensiero, un colore ed una vibrazione immediata che a volte arriva ancora prima del suono. Suono, il nome è un suono esso stesso che trova conferma nell’ascolto.
Instant Curtain traduce un guizzo di immagine ed emozione come una visione istantanea, appunto, difficilmente traducibile a livello razionale.
C.M.M.: Credo che l’intuizione del nome sia stata quella di “rivelare” quello che è intraducibile attraverso l’accostamento di un “sipario”, che per sua natura apre o chiude, quindi decide l’inizio o, piuttosto, la fine, e di “istante” “istantaneo”, quindi qualcosa di repentino, inafferrabile, concepibile solo con l’intuito che ne può rivelare la profondità che le parole non riuscirebbero a tradurre.
F.P.: Concordo nel dire che la parola “intuizione” meglio rende l’idea dell’istantaneità, appunto, di questa rivelazione ed il nome si palesa come qualcosa che già c’era, pronto a manifestarsi attraverso la musica, decisamente una scelta “giusta”.
G.P.: Il velo, o sipario, è metafora dell’imprevedibilità, della fugacità, ma rivela anche, nella sua intuizione istantanea, la capacità di percepire nel profondo quelle che sono le rivelazioni di un momento, di un’istante di vita, di un respiro che è già passato, ma dove si concentra, a volte, una verità che solo in quell’istante ci dice molto di più di mille parole, ci dice che in quel punto ci siamo noi.
Il 2020 è l’anno del vostro esordio discografico “Let Tear us Apart”. Al netto di quanto detto precedentemente, vi va di raccontarmi la genesi dell’opera?
M.G.: Direi che la genesi, come dici, è forse piuttosto un processo fatto di più momenti che si sono avvicendati nel tempo, ognuno dei quali si è rivelato determinante per lo sviluppo di quelli successivi.
C.M.M.: La fase embrionale è rappresentata dalla iniziale collaborazione tra Giuseppe e Fabrizio che hanno dato un contributo decisivo alla concretezza dei brani già esistenti; a questo, in un momento successivo, come detto in precedenza, mi sono aggiunto io sia come membro e batterista sia per quanto riguarda le registrazioni che si sono succedute fino alla forma definitiva dei brani contenti nel disco.
F.P.: Sono stato insieme a Giuseppe parte integrante della genesi del disco, dal momento iniziale di scrittura in fase di prove, negli arrangiamenti e a seguire nelle prime registrazione delle canzoni; un momento direi coinvolgente e assolutamente creativo ricco di momenti anche personali di vita.
G.P.: Come rivela il nome, Instant sta per intuizione e l’inizio di un processo creativo è una intuizione, un guizzo, un lampo a cui si dà forma ma a cui bisogna rimanere fedeli, un processo fatto di più intuizioni che si susseguono ma che comunque rimandano sempre a quella originaria. Così è nato “Let Tear us Apart”.
Gli ossessivi arpeggi intessono ricami ed il mellotron stende il suo velo mentre il basso pulsa e danza. Un sincrono di tamburi accompagna scale di Hammond mentre le distorsioni di chitarre riscaldano come la carezza di una madre […]: quali sono gli artisti che più vi hanno ispirato/influenzato nella stesura dell’album?
M.G.: Nelle mie esperienze musicali c’è una molteplicità di ascolti che ha contribuito alla formazione di un “gusto”, di un linguaggio e di una tecnica strumentale; direi innanzitutto il rock nella sua accezione più larga, soprattutto il rock settantiano sia quello di matrice blues dagli Humble Pie, Savoy Brown, fino alle derive “orientali” degli Zeppelin con il loro contributo acustico, il neoclassico dei Purple, i Sabbath, la stagione folk rock dei Fairport Convention, il prog canterburyano degli Hatfield and the North, i Genesis, il jazz rock di matrice Miles Davis ed oltre.
C.M.M.: Posso citare, in eguale misura, il jazz da Coltrane a Davis, passando per l’elaborazione del linguaggio fusion della Mahavishnu Orchestra, alle derive informali del free, all’elettronica kraut.
F.P.: Direi il jazz come linguaggio onnicomprensivo nelle sue diverse accezioni, sia acustico che elettrico, da Coltrane a Davis, dal bop al free, dai Weather Report al prog.
G.P.: Farò un elenco senza priorità: Henry Cow, Jimi Hendrix, Johnny Winter, Genesis, Yes, Hatfield and the North, S. R. Vaughan, Magma, Mahavishnu Orchestra, Matching Mole, National Health, Robert Johnson, Frank Marino, il metal, Tangerine Dream, Popol Vuh, Jethro Tull, Allman Brothers Band, Gentle Giant, Caravan, Nucleus, Lynyrd Skynyrd… e l’elenco potrebbe continuare.
I testi dell’album sono in inglese. Pensate sia più funzionale, per la vostra proposta, cantare in una lingua diversa dall’italiano?
M.G.: La scelta dell’inglese, credo, sia più rispondente alla musica proposta. Il suono, la struttura più sintetica delle frasi, ne consentono un utilizzo più funzionale; a volte mi sono chiesto come sarebbero suonati i brani con l’uso della lingua italiana. Ma questo è un altro problema. La sintesi metrica dell’inglese rende possibile un cantato più agile.
C.M.M.: Siamo abituati a “consumare” musica con testi in inglese da sempre nel rock e ne abbiamo assorbito il suono, abbiamo memorizzato le parole, a volte anche i significati; questo rende la lingua una parte della musica, il che non toglie che anche altri idiomi come l’italiano, vedi tutto il prog italiano, possano rendere a volte anche meglio e con maggiore densità il valore della musica.
F.P.: Ho ascoltato molta musica strumentale nel jazz, in particolare, e nelle sue derivazioni; qui la lingua è rappresentata dalle trame strumentali e quindi assume già di per sé un carattere “universale” e credo che questo possa valere anche per la scelta di una lingua per i testi di brani musicali.
G.P.: Non ascoltiamo forse la lirica nella sua lingua originale? Questo non significa che non vi sia la possibilità di sviluppare in maniera organica l’uso di idiomi differenti in un contesto che per “tradizione” è riservato ad una certa lingua. La scelta dell’inglese, dunque, mi è sembrata la più “naturale”.
“Let Tear us Apart”: il (quasi) richiamo al titolo del brano dei Joy Division è un fatto puramente casuale?
M.G.: Tutti noi, in maniera diversa, abbiamo apprezzato il lato oscuro dei Joy Division, quindi l’assonanza con il famoso titolo è facilmente ravvisabile, anche se su questo, credo, possa meglio rispondere Giuseppe.
C.M.M.: L’assonanza c’è ma credo non sia voluta.
F.P.: Le parole possono trarre in inganno o, a volte, rivelare disparità di contenuti ed assonanza di forme.
G.P.: Nel titolo dei Joy Division il senso è nel tentativo di associare qualcosa che dovrebbe unire, tenere legati, accomunare, con l’esito di una divisione, quindi, quanto più distante ed in conflitto.
L’accezione del nostro titolo potrebbe riservare delle assonanze, non solo verbali ma anche di senso; laddove io tradurrei con ”fateci a pezzi”, non nel senso letterale ma metaforico; lasciando le porte aperte ai manipolatori, manipolando noi stessi, laddove il silenzio è una dimensione inafferrabile.
Oltre la musica c’è il destino, oltre il destino c’è la musica!: chi di voi mi spiega questo “loop concettuale”?
M.G.: Credo che Giuseppe sia il più indicato.
C.M.M.: Concordo.
F.P.: Certamente.
G.P.: Ecco, non vorrei, dunque, avvilupparmi in un “loop concettuale” e voler spiegare quello che forse andrebbe tenuto lì, come volere spiegare un colore! Vorrei dire che la musica è quanto di più immateriale possa esistere, eppure così “pesante” da suggestionare e colpire più nel profondo, quindi, nel destino non ineluttabile di ognuno e quindi, oltre il destino determinato c’è la musica, cioè la possibilità di creare, quindi scegliere, provare ad essere felici non solo suonando uno strumento.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
M.G.: Siamo investiti dalla realtà virtuale come prodotto dei nostri tempi e, senza addentrarmi in disquisizioni, provo a dire che decisamente ha mutato la percezione del reale; l’oggetto in cui si concentra l’attenzione, la cura, lo studio, le forme si svuota, diventa liquido.
C.M.M.: Potrei aggiungere che il processo in atto viene da lontano; non è quindi una novità e se lo trasportiamo su di un piano “sociale” le dinamiche si assomigliano; cioè, l’assottigliarsi dell’oggettività in funzione di un “virtuale” che viene dunque percepito come fondamento del reale.
F.P.: Per la musica questo passaggio è stato “devastante”, con tutta una serie di implicazioni e conseguenze; l’oggetto fisico che conosciamo come vinile era il “feticcio” oggetto di amore, consumato, studiato in una relazione “romantica”, emotiva, profonda.
Ora la sostituzione di un oggetto d’arte con un surrogato evanescente tende a svuotare il senso rimanendo su di un piano superficiale, non emozionale, perché il tramite cambia la percezione.
G.P.: Il “medium” è importante, cambiandolo si cambiano dei parametri di senso, di relazione, esistenziali.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica?
M.G.: La scelta dell’autoproduzione è sembrata la più immediata di fronte alla difficoltà di avere dei riscontri a livello di case discografiche; la nostra ricerca andrà comunque anche in quella direzione.
C.M.M.: La difficoltà risiede nella dimensione del mercato che fagocita tutto espellendolo rapidamente un una coazione al consumo veloce, anzi, direi istantaneo; quando la musica richiede attenzione, il piacere dove sta?
F.P.: Concordo. Comunque, rimane sempre una dimensione di motivazione, dedizione, continuità, che andrà a contraddire il destino ineluttabile della forma liquida; attraverso la perseveranza si procede senza indugi ma si arriva.
G.P.: Sì, credo che quanto detto sia condivisibile; è giusto cercare visibilità ma la dedizione costante, per quanto possibile, credo rimanga la via maestra.
Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione? E c’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con queste giovani realtà?
M.G.: Credo che sia pensiero un po’ comune che, quello che è “firmato” o “griffato”, risponda ad una maggiore qualità, stile, mentre quello che non lo è sia da svalutare.
L’atteggiamento “svalutativo” e piuttosto frequente, laddove l’antidoto è solo rappresentato dalla conoscenza e dalla “verità”.
C.M.M.: Siamo un po’ indotti a ritenere che il marchio rivesta una certezza intrinseca; lì può risiedere di certo una qualità ma, spesso, si è portati per “pigrizia” a fare coincidere le due cose; il valore o qualità si nasconde, a volte, laddove non pensiamo.
F.P.: Consiglierei di rafforzare gli aspetti legati alla proposta musicale attraverso lo studio, la costruzione dei brani in maniera più solida possibile; costruire relazioni e contatti è fondamentale.
G.P.: La collaborazione ed il confronto tra musicisti, anche provenienti da aree diverse, sarebbe auspicabile ma, purtroppo, riscontro che oggi questo aspetto si sia affievolito. Il confronto con altre realtà musicali avviene su diversi piani e diverse situazioni, dal concerto, ai negozi di strumenti e ai seminari e, dunque, incentivare gli incontri e gli spazi sarebbe auspicabile.
Esulando per un attimo dal mondo Instant Curtain e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
M.G.: Il canto e l’insegnamento assorbono quasi totalmente il mio tempo, quindi ho interessi oltre la musica ma piuttosto come fruitore.
C.M.M.: Direi che la stessa cosa vale anche per me, la musica e quello che ruota intorno rivestono un ruolo di certo principale.
F.P.: Risponderei allo stesso modo.
G.P.: Interessi “artistici” diversi dalla musica ne ho: il disegno, la scrittura. Purtroppo, il tempo per dedicarsi è sempre poco.
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
M.G.: La scelta è difficile, cercherò per quanto possibile di essere sintetico; direi Hendrix, Beatles, Genesis, Coltrane.
C.M.M.: Hendrix, Miles Davis, Pink Floyd, Wheather Report.
F.P.: Miles Davis, Genesis, Coltrane, Pastorius.
G.P.: Henry Cow, Henrdrix, Johnny Winter, Hatfield and the North, Genesis, Matching Mole, Popol Vuh, Mahavishnu Orchestra, Area.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
M.G.: Allen Ginsberg.
C.M.M.: Robert Wyatt.
F.P.: Terje Ripidal.
G.P.: Il blues e le poesie del poeta russo Osip Mandelstam.
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
M.G.: Certo, nella situazione di incertezza, è difficile fare previsioni. Voglio, però, essere positivo e credere che si possa riprendere quanto prima soprattutto la musica live.
C.M.M.: Concordo con quanto detto da Massimo, mi auguro che si possa uscire dalla situazione stringente, riannodare i fili interrotti, dare alla musica il giusto valore.
F.P.: Credo che ci sia tanta voglia di buona musica, una voglia a volte inespressa che deve tornare ad uscire dalle secche del virtuale e riprendersi gli spazi che merita.
G.P.: Credo che la musica, e soprattutto la musica live, rivesta ancora uno spazio importante nel cuore e nella testa. Il mercato è troppo frammentato e la fruizione della musica ne risente pesantemente; qualità e opportunità dovrebbero essere le parole d’ordine.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?
M.G.: Ma direi l’incontro con gli altri della band ha rappresentato una giusta novità nella mia carriera musicale, questo posso dire.
C.M.M.: Certamente vedere suonare Giuseppe è qualcosa che mi ha colpito, la sua emozione è palpabile.
F.P.: Direi che l’incontro con gli altri della band è già di per sé evento da incorniciare.
G.P.: Concordo.
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro degli Instant Curtain che vi è possibile anticipare?
M.G.: Preparare i live di presentazione del disco per il prossimo anno.
C.M.M.: Sì, siamo concentrati sui live di presentazione per l’anno prossimo.
F.P.: I live, concordo.
G.P.: Confermo.
Grazie mille ragazzi!
M.G.: Grazie a te per la disponibilità.
C.M.M.: Un cortese grazie a te.
F.P.: Grazie a te e a presto.
G.P.: Un saluto a te e a presto.
(Ottobre, 2020)
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