Rubin Barbara – The Shadows Playground

BARBARA RUBIN

The Shadows Playground (2020)

Autoproduzione

 

Decidere di affidarsi esclusivamente alle proprie forze e alla propria creatività, scrivendo, eseguendo, registrando, mixando e masterizzando il proprio lavoro in solitaria, è un “lusso” che in pochi possono permettersi.

È tenendo bene in mente questo primo, fondamentale concetto, che inizia l’approccio con The Shadows Playground, l’ultimo album della cantautrice e polistrumentista Barbara Rubin. Polistrumentista, appunto. Barbara, oltre ad offrire la propria voce, “mette le mani” su viola, violino, pianoforte, sintetizzatori, chitarra, basso e batteria, avvalendosi della collaborazione di Andrea Giolo (voce solista e cori) e Veronica Fasanelli (voce nel coro polifonico di Helen’s Word).

Un approccio all’album che prosegue attraverso l’immagine di copertina, una foto di Simona Sottocornola che immortala Barbara nell’atto di offrire una coppa all’ascoltatore. Ed è lei a spiegarne la sua iconografia: Torna anche qui il tema della femminilità [come nei lavori “Opera Uno” con Veronica Fasanelli (2014) e “Luna Nuova…il coraggio che non ho mai avuto prima” con Simona Sottocornola (2017)]. Il calice è una delle simbologie che ha interessato la mia musica di recente. Nell’album “Luna Nuova” c’è uno strumentale intitolato “Gradalis”, che è il nome latino del Graal. Anticamente era considerato un simbolo di femminilità e di fertilità, rappresentava il ventre femminile. Con il gesto di porgerlo all’ascoltatore, lo invito ad attingere a questo mondo, sotto forma di musica. Nel disco c’è anche un brano dedicato a Maria Maddalena che riporta nuovamente al calice (leggi l’intervista).

E questo mondo femminile, che si apre, infine, ascoltando l’album, è reso “tangibile” da armonie eleganti e malinconiche, da liriche ispirate, intime e “sacre”, una sensibilità sonora ed umana palpabile che si sviluppa attraverso rappresentazioni idilliache e delicate in cui gli strumenti “principi” piano, viola e violino (senza dimenticare la preziosa presenza delle voci) realizzano “vette di suoni ed emozioni” da scalare avidamente senza affanno.

Un piano, malinconico e poetico: l’accoglienza del brano d’apertura Endless Hope è quasi “suggerita” dal sottotitolo dell’album (Piano works). Poi la dolce vocalità di Barbara prende in mano le redini del brano e, avviluppata stretta allo stesso strumento d’apertura, vola carezzevole. Lo stacco di violino quasi commuove, prima che la padrona di casa riprenda il suo cammino, arricchito dall’espressivo e caldo canto di Giolo e da altri tocchi mirabili di arco. […] Raise your head up to the sky / you could connect yourself / with a forgotten future / and you can show your real voice / in a endless theatre / while the violins play eternal songs […].

La tensione emotiva del piano che ci schiude Seven è palpabile, una pennellata descrittiva e nocenziana che avanza spedita per “raccogliersi”, più avanti, romanticamente. E poi, angelico, appare il canto di Barbara Rubin. Un passo a due delicato che esplode di passione con l’“aiuto” di Andrea Giolo. Every night I cried for my old life / but these tears become / drop of Sun / Seven times you betrayed me, brother / Seven lies, with everyone of them / you gave me life / Seven lives […]. E il piano, col trascorrere dei secondi, diviene sempre più magnetico, chiamando a sé, in coda, dei lampi sintetici.

Elegante e in punta di piedi prende corpo La Maddalena. Sempre più etereo ed emozionante il canto di Barbara, con i “rinforzi” di Andrea sempre azzeccati, un “botta e risposta” tra Maddelena e Gesù da brividi. Un’intensità coinvolgente senza essere esuberante, una classe e una raffinatezza che va oltre la musica classica, con sprazzi che riportano alla mente le parti “meno dure” di “Concerto grosso: The Seven Seasons” dei New Trolls.

Clouds. Breve frammento sentimentale piano/voce, una sorta di tenero “riassunto” di quanto proposto sinora.

Il piano descrittivo che apre Sunrise Promenade emana forti sensazioni alla Roberto Cacciapaglia. Gli intrecci di archi che seguono, invece, fanno sussultare. Pura poesia che sgorga dalle mani della padrona di casa, momenti che veleggiano tra le note più tenere dei Latte e Miele della “Passio 2.0”.

Placida, con il piano a tratti malinconico e a tratti poetico alla Mauro Pelosi, si mostra The Shadows Playground. Lo strumento avanza ipnotico, mostrando efficacemente il suo doppio volto, in un saliscendi introspettivo. E dopo un breve accenno vocale, sempre lui, torna protagonista, dapprima centellinando i colpi, poi intensificando i suoi toni (coadiuvato dalla voce), rafforzandosi sino a deflagrare romanticamente. […] The shadows playground / is a place that we’ve found / to be part of the night / not alone but always quiet […]. E si procede con una straordinaria carica emotiva, resa tale anche dalle stratificazioni vocali e da quel pizzico alla Iamthemorning che non guasta. Barbara mette sul piatto il proprio cuore e lo si percepisce nitidamente.

Avvio bacaloviano per Sleeping Violin, poi piano e viola intraprendono un percorso condiviso, struggente. Quanto segue è pura poesia, passione incandescente che erompe dalle dita di Barbara Rubin, essenza classica, solennità e magnificenza che fanno tornare alla mente l’arte di Saint-Preux. Un’esplosione di colori e di stati d’animo eccezionale. L’abilità “ricamatoria” di Barbara è invidiabile e qui esplode definitivamente. L’artista cesella un’opera d’arte sublime in cui i tasti del piano e le corde degli archi “parlano” una lingua suggestiva, toccante, a tratti religiosa, da pelle d’oca. Probabilmente il punto più alto dell’album.

La Ballata degli Angeli si apre con il “lamento composto” del violino. Poi è gioia classicheggiante, col piano che entra a stemperare gli animi e lo strumento ad arco che si lascia coinvolgere. E, poco avanti, il piano “fa il verso” al violino iniziale, una sorta di inversione dei ruoli che sfocia in qualcosa di diverso, più appassionato e intimo, l’ennesima carica viscerale che colpisce e coinvolge, con un finale travolgente e newtrollsiano.

Vivacemente prende il via Helen’s Word, episodio ispirato al romanzo “Heresy” di Hais Timur (come i due precedenti brani), con un gioco pluristratificato e alienante di archi. E anche l’intervento vocale seguente, con il suo “riflesso” da note iniziali di “Introduzione” del Balletto di Bronzo (album “Ys”), spariglia le carte, facendosi poi profondo e “spettrale”, solenne e quasi ecclesiastico, grazie al rinforzo offerto dalle voci di Veronica Fasanelli e Andrea Giolo. In seguito, il piano spazza via tutto, portando in scena una luce diversa, a tratti malinconica, che la voce di Barbara assimila completamente sovrapponendosi a lui. I lampi corali che seguono (come prima) aggiungono classe e intensità allo straordinario quadro. E poi tutto svanisce, placidamente, chiudendo un lavoro di un’eleganza unica.

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