Un caro benvenuto a Matteo Balestrazzi (M.B.), Alessio De Angelis (A.D.A.) e Paolo Zacchi (P.Z.): I Giullari di Corte.
M.B.: Grazie per averci dato la possibilità di farci conoscere.
A.D.A.: Grazie, è un piacere essere qui e rispondere alle tue domande.
P.Z.: Grazie a te.
Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto I Giullari di Corte e cosa c’è prima de I Giullari di Corte nelle vite di Matteo, Alessio e Paolo?
M.B.: Nella mia vita ho cominciato un po’ come tutti i ragazzi, da autodidatta, e ho suonato in un mucchio di cover band del mio paese, più per divertimento che per volontà di fare qualcosa. Ad un certo punto ammetto che con le cover, anche perché erano sempre le stesse, un po’ ci si annoiava e ho cominciato a pensare di scrivere qualcosa di mio.
A.D.A.: Io ho un progetto parallelo che sto sviluppando tuttora e che c’era anche prima de I Giullari di Corte, però I Giullari di Corte sono un qualcosa di sperimentale ed innovativo che avevo voglia di sviluppare con Matteo e con Michele Poggio, il violinista che suonava con noi all’inizio, progetto che si è fermato per tanti anni e poi è ripreso. Ripreso alla grande, per fortuna.
P.Z.: Posso dire che ero un fan della band agli inizi e, nel 2017, ho pensato “mi sono stufato di fare cover”, perché anche io, come loro, ho fatto per tanti anni cover, “voglio fare qualcosa di mio” e mi sono venuti in mente loro. Ci siamo sentiti, abbiamo cercato di rifondare la band, che era ferma da anni e, nonostante io non sia un violinista (quindi la band ha dovuto assumere un’altra impronta), credo che qualcosa di bello sia venuta fuori lo stesso alla fine.
I Giullari di Corte: come si arriva alla scelta di un nome così settantiano?
M.B.: All’inizio è perché, effettivamente, con l’impronta di un violino, mi immaginavo sempre un Michele Pozzo da giullare, da persona capace di tirare fuori la musica e i sentimenti perché sai, i giullari sono poi quelli che fanno un po’ ridere e un po’ piangere. La corte perché, fondamentalmente, bisogna comunque anche dare un nome al pubblico!
A.D.A.: Il sound, come hai potuto ascoltare, è tipico degli anni ’70. Il giullare di corte, per come l’ho visto io, così come immagine, aveva sia un lato allegro, con il quale divertiva, appunto, il re e tutta la corte, sia un lato malinconico poiché, comunque, si trattava in genere di un essere umano, a volte deforme, vestito in modo abbastanza stravagante che faceva spettacoli, e questi spettacoli, regalavano sì allegria, ma restituivano anche molta malinconia, e questa miscela di allegria e malinconia è presente anche nella nostra musica.
Nel 2003, appena un anno dopo la nascita della band, registrate la demo “In una Notte di Tempesta”. Quali artisti vi hanno ispirato nella sua stesura?
M.B.: Beh, veramente tutti perché, a quel tempo, non eravamo né bravi né capaci, e proprio per quello andavamo a cercarci quelle persone che, come noi, all’inizio non erano, forse, in grado ma avevano tante idee. Anche adesso abbiamo tante e idee e confidiamo soprattutto su quelle… Se poi devo dire a chi mi sono ispirato, beh, Jethro Tull, AC/DC, Caterina Caselli, Laura Pausini, Litfiba…Non ho avuto un metro di riferimento, ho solo avuto delle buone idee, abbiamo avuto delle buone idee.
A.D.A.: Io parlo logicamente da batterista e, quindi, posso esprimere le mie influenze da batterista. Ovviamente io mi sono ispirato sempre a dei batteristi un po’ diversi fra loro e quindi posso citare Nick Mason dei Pink Floyd, Bill Bruford degli Yes, oppure John Densmore dei The Doors. Ho fatto una sorta di “miscela”, strizzando un po’ l’occhio anche ai batteristi jazz, perché nella musica de I Giullari c’è una varietà di generi che, penso, riesca a saltare all’orecchio.
Pochi mesi dopo, però, il cammino della band s’arresta a causa dell’abbandono di Michele Poggio che sceglie la carriera orchestrale. C’era già in cantiere una sorta di “evoluzione” della demo (o altre composizioni già pronte)? E non avete mai pensato di proseguire immediatamente, cercando qualche altro elemento valido per portare avanti il vostro progetto?
M.B.: La più grande verità è che, oltre all’uscita di Michele, io, ammetto, che non ne avevo più. Avevo dei problemi anche a livello familiare abbastanza importanti, con un fratello disabile e, onestamente, non avevo più stimoli. Al pensiero di rimpiazzare Michele con un’altra persona, mi dicevo che era un progetto così unico che non avrei creduto nel continuarlo diversamente. Effettivamente, la colpa della fine è mia. Da aggiungere che, dall’inizio, ci siamo detti di non servirci di cantanti e chitarristi perché li odiavamo tutti!
A.D.A.: No, non credo che sia stata colpa di Matteo. Io penso che la colpa sia stata più che altro del genere perché, comunque, è un genere molto di nicchia, un genere per il quale, diciamo la verità, si fa fatica a trovare persone che abbiano voglia di suonarlo, quindi, per un po’ ci siamo persi di vista e le nostre vite hanno preso strade diverse. Però, in fondo al cuore, sia io che Matteo abbiamo sempre avuto il desiderio di ricominciare, poi sono passati degli anni, è passata tanta gente con cui abbiamo suonato ma senza ottenere la stessa soddisfazione. E, infine, è arrivato Paolo che ha acceso di nuovo questa scintilla che è diventata un fuoco.
È il 2017 quando I Giullari di Corte ritornano in pista, grazie all’iniziativa di Paolo Zacchi. Paolo, nonostante tu non fossi parte integrante della prima formazione, come mai spingi per la ripartenza del progetto? Quali potenzialità hai “intravisto” ne I Giullari di Corte? E cos’hanno fatto Matteo e Alessio in questi anni di “pausa”?
P.Z.: Comincio dicendo che quando, in passato, vedevo I Giullari di Corte da “esterno”, a me piacevano molto, sono sempre stato un appassionato di questo genere, e comunque mi affascinava quello che riuscivano a fare solamente in tre, la creatività che avevano. Quando nel 2017 ho pensato di far ripartire il progetto, inizialmente non era un’idea legata a I Giullari di Corte, ma avevo pensato di far nascere un gruppo Prog stile anni ’70 italiano. Poi, niente, alla fine è venuto da sé, conoscevo loro, ci siamo sentiti e abbiamo detto “Ma perché non continuare il progetto?”. E tutto è nato così. Pensa che neanche m’era venuto in mente di chiamare Matteo. Ho contattato Alessio per primo che mi ha detto: “Senti, ma se contattassimo anche Matteo e provassimo a ripartire insieme?”. E così è avvenuto.
M.B.: Beh, io praticamente, per otto anni, ho mollato il basso e non ho più ripreso a suonare. E ho fatto, che ci crediate o no, per sei-sette anni il cantante in un gruppo tributo degli AC/DC. Poi, fondamentalmente, mi sono specializzato nel “montare” concerti, avendo un impianto luci e un impianto audio. E ad un certo punto ho cominciato a riavere voglia di suonare perché, finalmente, c’erano anche degli altri gruppi che facevano degli altri generi, che probabilmente manco mi piacevano, ma che ricominciavano a stimolarmi (non più tribute band).
A.D.A.: Anch’io ho smesso quasi totalmente di suonare la batteria, ma con la musica non mi sono mai fermato perché, comunque, ho il mio progetto e ho sviluppato quello. Io sono un chitarrista cantante folk-blues, scrivo pezzi miei e tuttora sto continuando questo progetto. Ho fatto, dunque, sostanzialmente quello, ho scritto poesie, ho scritto molte canzoni stile Bob Dylan, Cat Stevens, con una strizzata d’occhio ai Pink Floyd, perché volevo delle sonorità un po’ tipiche degli anni ’70.
Il risultato di questa rinascita è “Presa di Coscienza”, album pubblicato nel 2020. Ricco di sonorità che richiamano il Prog dei ’70, con diversi riferimenti al mondo letterario (dal Nautilus, immagino riferito al sottomarino ideato e comandato dal Capitano Nemo nel romanzo di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari” a “La cicala e la formica” di Esopo, passando per Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle) e con quella sorta di “omaggio” ai Black Sabbath nel brano di chiusura, l’album si manifesta come un piccolo scrigno ricco di immagini policrome. Mi narrate la sua genesi?
M.B.: All’inizio, effettivamente, una cosa che ho tralasciato di dire, è che la nostra musica nasceva come volontà di realizzare colonne sonore. Cioè, noi, invece, di lasciarci ispirare da degli album o degli artisti, avremmo molto più voluto guardare un film e vedere cosa si sarebbe potuto fare musicalmente. Effettivamente, “Viaggio in treno senza biglietto” ho cominciato a scriverla guardando un vecchio film in bianco e nero di Alberto Sordi in cui lui suona nella banda dell’esercito. L’attore carica tutti i militari, “Sì, andiamo in guerra, andiamo in guerra!”, ma quando smette di suonare si vede proprio l’elemento tragico della gente che non vuole andare a combattere, e quello mi colpì molto. E allora, da lì mi immaginai “Viaggio in treno senza biglietto”. Perché, dunque, partire per la guerra se non hai fatto il “biglietto”?
A.D.A.: Beh, io ho sempre associato, nelle mie composizioni, ma anche nelle nostre composizioni, la musica alle immagini e, quindi, tutti i pezzi dei Giullari sono stati pensati, mentre erano in fase di composizione, come delle immagini. Quindi, ad esempio, “L’ombra di Sherlock Holmes” è una sorta di viaggio introspettivo, un guardare dentro se stesso alla ricerca di indizi utili per capirsi di più, per evolvere. E tutto il disco ha un filo logico da seguire, a partire da “Nautilus”, “Presa di coscienza”, “Viaggio in treno senza biglietto” e tutto il resto, tutto è legato.
P.Z.: Dunque, io mi sono ritrovato, per quanto riguarda la genesi dell’album, a “prendere in mano”, come ho detto prima, dei pezzi che già conoscevo (perché li avevo sentiti da loro), ascoltati quando ero molto piccolo (all’epoca avevo quattordici-quindici anni), ma che erano stati realizzati, appunto, con il violino. Io ho cercato inizialmente di riprendere quello che aveva fatto Michele Poggio con il violino e di rifarlo sulla tastiera ma, essendo due strumenti molto diversi tra loro, il risultato fu abbastanza di dubbio gusto. Alla fine, dal punto di vista musicale, ho riarrangiato alcuni pezzi presenti nella demo, personalizzandoli. I pezzi nuovi sono nati sempre cercando, in una certa maniera, di non avere dei vincoli di genere, per forza legati al Progressive Rock Italiano. Quello che sentivamo, che nasceva dal cuore o da un nostro giro che “girava” in testa, l’abbiamo trasformato in un pezzo. Ed è forse questa, poi, l’alchimia più bella di questo gruppo, non aver bisogno di doversi per forza mettere lì a dire “dobbiamo fare questo e quest’altro… per forza tempi dispari… deve essere per forza in levare”. No, questo è quello che ci sentiamo di fare e quindi l’album è venuto fuori così e i titoli dei pezzi sono nati uno dopo l’altro, anche con un senso di continuità perché, appunto, “Presa di coscienza” è la narrazione di una persona che, ad un certo punto della sua vita, fa un resoconto e inizia a pensare a tante cose, ha un’illuminazione, o almeno questo è il mio modo di vedere la cosa. Poi credo che ognuno di noi la veda un pochino diversamente, ma è bello anche per questo suonare insieme perché, unendo le varie esperienze, si è riusciti, e si riesce tuttora, a tirare fuori qualcosa di nuovo.
“Presa di Coscienza” contiene anche dei brani riarrangiati provenienti da “In Una Notte di Tempesta”. Oltre al “passaggio di consegne” tra le parti di violino e quelle di tastiera e chitarra, cosa li rende davvero “nuovi”?
M.B.: Beh, soprattutto quello che cambia è, inevitabilmente, il suono perché il violino è uno strumento assoluto, lo puoi “effettare” ma più di tanto non fa. Se poi parli di un pianista e tastierista che può creare un’infinità di suoni, questo ti permette di ingrandire la varietà di composizione. Prima, lo ammetto, io e Alessio eravamo al “servizio” di Michele, ma solo perché il violino è uno strumento cui si poteva assegnare delle parti abbastanza nette mentre ora, con le tastiere, puoi variare e fare molte più cose.
A.D.A.: Io ho sempre pensato che con il violino di Michele ci fosse un sound diverso, più psichedelico che Progressive. Il violino è uno strumento eccezionale, uno strumento che ha dato tanto alle composizioni dei Giullari. Però penso che la nostra musica ha preso un’impronta più marcatamente Progressive con le tastiere di Paolo, perché c’è una varietà incredibile di suoni, siamo riusciti a miscelare diverse cose combinando suoni diversi. Ed è uscito fuori un lavoro puramente Progressive perché, secondo me, Paolo ha fatto un lavoro veramente eccezionale.
P.Z.: Grazie Alessio! Io direi che, più o meno, a questa domanda ho risposto precedentemente, ossia, ho riarrangiato un po’ tutto ed è per questo che, appunto, i pezzi sono nuovi, non ho fatto delle “cover”. Va detto che la demo nessuno l’ha ascoltata, o meglio, è stata ascoltata ma non è stata diffusa su internet, anche perché all’epoca internet… Con il nuovo lavoro è, comunque, difficile fare un confronto diretto perché i brani, in definitiva, sono cambiati parecchio.
Presa di coscienza = acquistare piena consapevolezza di sé e della realtà circostante. Con questo lavoro avete, dunque, acquisito piena consapevolezza del vostro essere, delle vostre capacità artistiche e della realtà che vi circonda?
M.B.: Ovviamente no! Se io fossi stato cosciente avrei fatto altre cose, ecco, mettiamola così! Mentre io sono felice di essere cosciente di non aver preso coscienza di tutto ciò!
A.D.A.: Sostanzialmente è una cosa talmente soggettiva che dare una risposta “universale” è un po’ difficile perché ognuno ha una sua visione della “presa di coscienza”. Per quanto mi riguarda, la presa di coscienza è relativa all’album, ovviamente, ed è legata a tutti i pezzi. Ad esempio, “Nautilus”, brano in cui si narra di una persona che viene gettata in mare dopo aver fatto degli affari loschi e che si risveglia su una spiaggia deserta cominciando un viaggio introspettivo. Ecco, questa è anche presa di coscienza.
P.Z.: Come detto da loro, una presa di coscienza, appunto, è difficile da raggiungere. Ma forse è meglio anche non raggiungerla mai del tutto. È una ricerca e la ricerca porta sempre a evolversi e a migliorarsi. Se uno mi dicesse “Ho raggiunto la mia presa di coscienza. Ho raggiunto la mia consapevolezza, la mia massima capacità artistica”, penso che, a quel punto lì, non avrebbe nemmeno più voglia di evolversi o di provare cose nuove, si fermerebbe lì e morirebbe tutto probabilmente. Cito due filosofi, essendo il mio campo, per certi versi: Aristotele diceva che l’uomo per natura desidera conoscere. Ciò significa, appunto, che l’uomo, nella sua natura stessa, ha il desiderio di continuare a conoscere, a ricercare, ad evolversi. Quindi, arrivare ad una presa di coscienza significherebbe fermarsi in questo senso e, dunque, a questo punto, mi collego a ciò che diceva Socrate, l’altro filosofo: So di non sapere. Una frase che sembra banalissima, ma che, in realtà, racchiude tutto quello che ti muove verso la conoscenza, continuare a dire “Io, comunque, non so e devo continuare a ricercare, devo continuare ad avere il desiderio di cercare”. Coscienza e conoscenza sembrerebbero due concetti diversi, ma in realtà, per certi versi, sono accomunati… ma questa non è la sede per parlarne approfonditamente!
E, eccezion fatta per la “sostituzione” Poggio-Zacchi, quali sono, a vostro modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i vostri due lavori?
M.B.: Differenti, innanzitutto, le età e la qualità di registrazione. Prima, eravamo tre piccoli sporchi bastardi. Adesso, invece, siamo tre che, almeno, hanno un po’ di “decenza”, fuori e dentro la musica, ed è questo il vero, grande cambiamento.
A.D.A.: La differenza con oggi è che all’epoca eravamo davvero molto “acerbi”. Non senza entusiasmo, ovviamente, perché avevamo un entusiasmo incredibile con Michele. Però ci siamo evoluti in questo viaggio da musicisti, diciamo così, un po’ più esperti, con una visione più ampia della musica. E poi le sonorità sono talmente diverse che è difficile fare un paragone, però abbiamo intrapreso una strada che partiva da quella base solida e da quella base abbiamo costruito tutto.
P.Z.: Io penso di essere d’accordo con Matteo e Alessio. La differenza sostanziale che ho apportato al gruppo è quella che hanno detto loro, e cioè, essendo il violino uno strumento più classico, portava, nonostante le sonorità psichedeliche che abbiamo citato prima, anche sonorità più da musica classica. Io non ho questa conoscenza del mondo classico e il mio strumento, non è così “classico”, quindi un pochino, anche la presenza di questo tipo di sonorità, ha portato differenze tra i due album.
Riascoltando il vostro album e qualche mese di distanza dalla sua uscita, siete soddisfatti del lavoro svolto? E com’è stato accolto da critica e pubblico?
M.B.: Io sono sempre soddisfatto di quello che faccio e, anche se so che avrei potuto fare qualcosa di più, mi sento molto soddisfatto di questo album che, ribadisco, non è un capolavoro perché ci sarà sempre gente che suona meglio di noi, chi ha una voce di tre ottave sopra e spacca il culo e così via. Però, è importante ribadire, che è un album composto da noi, suonato da noi e cantato da noi (anzi, cantato da loro perché io non canto!), perciò io sono molto felice di questa cosa.
A.D.A.: Io, sostanzialmente, ascoltando tutte le tracce, e le ascolto quasi tutti i giorni, sono molto soddisfatto, anche se avrei voluto avere più tempo per registrare. Poi c’è un aneddoto particolare che mi ha anche un po’ distratto in studio. Mentre stavamo registrando, ci fu una terribile tempesta, una grandinata che ci ha un po’ sconvolti e che, diciamo la verità, m’ha rovinato la macchina nuova. Ecco, quello mi ha fatto un po’ arrabbiare! [Matteo: Voglio solo aggiungere che, sembra, che l’album “In una Notte di Tempesta” abbia voluto regolare i conti con il nuovo lavoro!]. Alla fine, però, mi piace molto l’album, sia sotto l’aspetto del sound, perché io avevo richiesto al tecnico del suono un sound anni ’70, e così è stato (bravissimo il nostro tecnico che ha tirato fuori proprio quei suoni che volevamo noi). Per quanto riguarda critica e pubblico, sembra che, anche essendo un genere di nicchia, quelli che amano questo genere hanno apprezzato la nostra proposta. Poi spero che sempre più persone riescano ad avvicinarsi a questo genere perché ne vale davvero la pena.
P.Z.: Io sono molto soddisfatto, per me è stato come realizzare un sogno, il poter finalmente fare un album con gruppo, un lavoro come piaceva a me, senza nessun vincolo se non quello di sentire la musica che stavo facendo. E poi, vabbè, il mio animo perfezionista avrebbe fatto forse qualcosa di più, però, appunto, è una cosa mia e sono più che contento di quanto fatto. Penso che, razionalmente parlando, ho dato quello che potevo dare al meglio. Io mi sono divertito anche a completare l’album, perché è stato registrato in due momenti diversi, e la mia parte l’ho registrata in autonomia e mi sono divertito anche a sistemare ancora di più i suoni facenti parte della registrazione iniziale, quelli di basso e batteria, cercando, appunto, di farli avvicinare il più possibile agli anni ’70. Mi è stato detto da più parti che il risultato è stato buono e quindi sono contento, e questo emerge anche in quello che dice la critica e pubblico. Io ho visto, praticamente all’unanimità, un ottimo riscontro. L’album è piaciuto praticamente a tutti, forse giusto una persona o due hanno fatto qualche critica, ma cose leggere. Poi, onestamente, mi sembrerebbe falso che nessuno facesse neanche una critica, non siamo Paganini, non siamo certamente il gruppo perfetto, e quindi è normale riceverne. Però, ripeto, le critiche sono state davvero poche, quindi sono ancora più felice.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
M.B.: Beh, io ho 45 anni e a me internet non piace, lo dico onestamente. Però, senza internet, per esempio, questo album non sarebbe arrivato alle tue orecchie e perciò devo dire grazie internet, anche se, ripeto, non mi piace.
A.D.A.: Anch’io sono piuttosto all’antica, con influenze che partono dai bluesmen degli anni ’30 e dalla musica classica sino alla musica degli anni’ 70. Sono poco tecnologico, ecco, mettiamola così. Però ho comunque constatato l’importanza del web, di internet, delle varie piattaforme e dei social che sono a nostra disposizione. Se uno li sa usare bene riesce a promuovere un lavoro come il nostro e, in questo, sia io che Matteo tiriamo un po’ le mani indietro perché non sappiamo effettivamente dove cominciare e, quindi, abbiamo lasciato soprattutto a Paolo l’onere di promuovere il nostro disco.
P.Z.: Io, un po’ per passione, un po’ anche per questioni lavorative del passato, ho sempre avuto a che fare col web e, diciamo, è venuto abbastanza automatico il poter promuovere il disco su internet, ma non voglio certo prendermi un merito per questo. È una cosa che volevo fare e che mi è piaciuto fare e, come ha detto Matteo, se non l’avessimo fatto non saremmo stati qui a fare questa intervista. Il web è uno strumento potentissimo per la diffusione della musica. Il problema è che, essendo così potente, c’è tanta, tanta musica e quindi, farsi trovare in mezzo a una giungla del genere, è molto difficile. Ci sono tanti strumenti per farlo, per lo più a pagamento, e noi, per ora, non abbiamo promosso nulla a pagamento. Ci stavamo pensando, ma, al momento, abbiamo solamente reso disponibile il disco, che è piaciuto, è stato ascoltato, non da milioni di persone chiaramente, ma il genere è quello, come detto, non è un genere che passa in radio tanto spesso. E per essere un genere di nicchia, abbiamo ricevuto abbastanza ascolti e abbastanza critiche positive. Quindi non posso dire che grazie al web. Sì, forse era più bello un tempo, ma di certo tutto è più facile ora con internet.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino? Non avete mai pensato di tentare la “carta” etichetta discografica?
M.B.: Non c’è mai stata data la possibilità di contattare una casa discografica seria e onestà. Onestamente è tutto lì. Poi noi abbiamo deciso di autotassarci di 100 euro e con quei 300 euro siamo andati in studio e abbiamo registrato l’album. Perciò io penso che per un buon album, un onesto album come il nostro, 300 euro tu li spendi.
A.D.A.: Diciamo che, di base, noi siamo tre persone molto umili. Io credo che la musica oggi sia, comunque, dettata da chi vuole far profitto costruendo personaggi, senza neanche ascoltare gli artisti, e questa è una cosa molto grave, secondo me, per l’arte e per la musica in generale. Tanto è vero che oggi siamo bersagliati da musica costruita semplicemente sull’immagine, creata per tirar su più soldi possibili. Noi, logicamente, andiamo un po’ fuori da questo schema perché pensiamo prima a quello che abbiamo dentro, le nostre composizioni sono totalmente dettate dal puro spirito artistico. Per quanto riguarda una casa discografica non ci abbiamo pensato, anche un po’ per i costi, perché immagino comunque sarebbero abbastanza esorbitanti. Abbiamo fatto, dunque, tutto con i nostri mezzi.
P.Z.: Aggiungo a quello che hanno già detto loro, che, praticamente, è il nostro genere in generale, appunto, a non essere dedicato al business, ma ad un sistema musicale che, forse, mi sento di dire, purtroppo, e con un po’ di tristezza, sta andando a ramengo. Ormai la musica è diventato un prodotto commerciale, seriale, e tutto questo non aiuta le realtà underground o i piccoli gruppi a promuoversi e farsi conoscere, perché quello che va oggi sono i miti del mondo del pop e basta.
A parte questa piccola digressione, per quanto riguarda la carta dell’etichetta discografica, in realtà, c’è stata una etichetta che, appena uscito l’album, avrebbe voluto pubblicarci. Non abbiamo accettato perché volevano modificare metà delle tracce ed eliminarne alcune, perché sostenevano che erano troppo diverse una dall’altra e il risultato non sarebbe andato bene. Penso che alla fine l’abbiamo vinta noi, nel senso che alla gente siamo piaciuti così come eravamo, pur con delle tracce molto diverse l’una dall’altra.
Facendo un parallelo tra letteratura e musica, tra il mondo editoriale e quello discografico, è, non di rado, pensiero comune etichettare un libro rilasciato tramite self-publishing quale prodotto di “serie B” (o quasi), non essendoci dietro un investimento di una casa editrice (con tutto il lavoro “qualitativo” che, si presume, vi sia alle spalle) e, in poche parole, un giudizio “altro”. In ambito musicale percepite la stessa sensazione o ritenete questo tipo di valutazione sia ad uso esclusivo del mondo dei libri? Al netto della vostra esperienza, consigliereste alle nuove realtà che si affacciano al mondo della musica la via dell’autoproduzione?
M.B.: Io sì, la consiglierei. Per quanto mi riguarda, è l’unica cosa che “so fare” (e penso l’abbia fatta bene insieme agli altri). E, onestamente, credo che una cosa che almeno una casa discografica dovrebbe offrire è la visibilità, organizzare concerti che adesso, ovviamente, non possono essere fatti. Tornando al discorso dell’editoria, in passato leggevo molto, ora molto meno. La più grande differenza, secondo me, è che la musica ha bisogno di suoni, il libro ha semplicemente bisogno di parole. Mi spiego, se tu scrivi un buon libro, questo è un buon libro e non hai bisogno di farti conoscere tramite molteplici canali perché, penso, il vero lettore, non quello che legge robaccia, è abile nel rintracciare un buon libro. Quindi, secondo il mio punto di vista, chi sa veramente scrivere è molto più avvantaggiato di chi sa suonare.
A.D.A.: Ecco, io su questo punto la vedo un po’ diversamente perché, scrivendo anche poesie, mi sono accorto che anche il mondo dell’editoria, e dei libri in generale, è un po’ simile a quello musicale, si hanno quasi le stesse difficoltà perché o spendi veramente delle cifre esorbitanti oppure, anche se scrivi bene, anche se dovessi trovare, ad esempio, il modo di partecipare a dei concorsi, di essere comunque promosso sul web cercando varie piattaforme, come ho cercato di fare io, ti imbatti negli stessi problemi. Però, l’importante è continuare a crederci. Poi, come dico sempre, le mie opere le ho create e sono lì, e questo discorso vale anche per la musica perché, comunque, l’abbiamo fatta ed esiste. Magari ci ascoltano in pochi, però è una cosa nostra, è una cosa molto intima, una cosa totalmente libera. E, collegandomi a questo, sì, consiglio l’autoproduzione se è totalmente libera da tutti gli schemi che impongono le etichette e il mercato.
P.Z.: Per quel che riguarda il discorso del prodotto di “serie B”, dal mio punto di vista esiste una doppia faccia. È vero che l’autoproduzione permette anche a chi, magari, non ha talento o non ha molto da dire, sia a livello musicale che a livello letterario, di, appunto, produrre un libro o un disco, ma il giudizio, secondo me, non dovrebbe essere dato da un’etichetta o da una casa editrice, ma il giudizio dovrebbe darlo il pubblico. Ad esempio, come successo a noi, quello che per l’etichetta discografica era un prodotto non pubblicabile, perché troppo vario, si è rivelato, alla fine, un prodotto che è piaciuto.
Oltre la musica, io sono sempre stato appassionato di letteratura. Ho provato anch’io a scrivere diverse cose, piccole poesie e ho provato anche a farmi pubblicare (in realtà, ho avuto una piccola pubblicazione, ma niente di che). Il mondo è sempre quello, purtroppo, è come per la musica, c’è tanta concorrenza e non è uno spartiacque il fatto che ci sia una grande casa discografica o una grande casa editrice alle spalle. Lo spartiacque è rappresentato da gente che è capace e ha qualcosa da dire, e probabilmente al pubblico piace. E poi c’è altra gente che non ha molto da dire e al pubblico può piacere o non piacere, ma è stata pubblicata da un’etichetta… Forse è un discorso un po’ critico il mio, però mi rendo conto che i gusti moderni, i gusti del mercato attuale, sia per la musica che per la letteratura (e per l’arte in generale) non nascono, nella grande massa, da gusti personali, ma sono indotti dalla pubblicità che viene “sparsa” ovunque ma, qualitativamente parlando, lasciano un po’ a desiderare. L’autoproduzione, come ha detto Alessio, per me è consigliabile davvero solo se uno vuole esprimere se stesso. Se poi uno vuole andare “a soldi”, allora lì si piega un po’ a quello che richiedono le etichette o le case editrici e, a quel punto, può intraprendere questa via che non è la via che abbiamo voluto intraprendere noi.
E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?
M.B.: Sono qui per risponderti sinceramente. Per quanto riguarda gli spazi live, assolutamente no, non ci sono. Non ho nient’altro da dire.
A.D.A.: Sì, anch’io la penso così, tanto è vero che abbiamo fatto molta fatica a trovare dei locali che avessero voglia di ascoltare un progetto del genere, di proporre un progetto del genere, perché comunque oggi i locali preferiscono delle band che propongono cover, degli artisti che suonano altre cose, qualcosa di più orecchiabile e meno complesso dal punto di vista sonoro, e quindi si fa molta fatica.
Per quanto riguarda i gruppi giovani, io, sinceramente, vedo pochissima gente interessata a questo genere perché comunque un genere molto complicato da ascoltare, non è immediato. Per noi, ad esempio, è un po’ un mix di tante cose. Noi passiamo dal jazz al reggae, dal blues alla musica classica e al funky, tutto è racchiuso in un meccanismo ben oliato che comunque siamo riusciti a gestire abbastanza bene. Ricordo bene il primo concerto de I Giullari di Corte in cui avevamo un pubblico prettamente metal e, quando ci presentarono sul palco con Michele al violino, più basso e batteria, ci guardarono come se fossimo atterrati da Marte, come degli extraterrestri [Matteo ride], e quindi, dopo il primo pezzo, ricordo che ci furono una o due persone ad applaudire e poi tutti gli altri che si guardava negli occhi, come a dire “Ma questi cosa stanno facendo?”. Però, nonostante questo aneddoto divertente, diciamo che la situazione attuale rispecchia anche quella del 2002/2003, quando abbiamo cominciato. No, quindi non vedo giovani che si interessano al genere o gente che, comunque, lo suona nella nostra zona.
P.Z.: Io, essendo dei tre quello che ha un po’ più di dimestichezza col web, posso dire che su internet c’è un po’ di scena Progressiva Italiana. Però, quello che vedo, è che la proposta è molto diversa dalla nostra. Non è per vantarsi o farsi belli, semplicemente la scena Progressiva Italiana che ho sentito, perlopiù, salvo qualche eccezione, sembra tendere più ad un progressive metal, verso lo stile dei Dream Theater, un genere che non è proprio il nostro. A noi è piaciuto fare questo genere qua, forse anche un po’ demodé, e quel seguito che abbiamo trovato online, devo ammetterlo, effettivamente ha un’età media abbastanza alta, sicuramente più alta della nostra. Fa un po’ strano, ma d’altronde, ripeto, non abbiamo fatto il nostro disco per piacere al mondo intero, ma per quelli a cui piace questo genere di nicchia. Per quanto riguarda gli spazi, invece, come è stato detto, è veramente difficile, quasi impossibile, trovarne. Infine, sì, ci sono altri gruppi validi. Ne ho conosciuti alcuni sul web veramente bravi, anche abbastanza settantiani, ma dal vivo nessuno. Però parliamo sempre di una cosa molto molto limitata. Come più volte detto, purtroppo, è davvero difficile questo genere, e questo è il prezzo da pagare.
Esulando per un attimo dal mondo I Giullari di Corte e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
M.B.: Allora, non sono venuto qua a dire sempre no, però, la risposta è no! Vedi, io suono con loro e ho poco altro tempo libero. Ho una vita lavorativa molto impegnativa e quel poco di tempo che posso spendere, lo spendo in questo progetto e non ho, dunque, altri progetti artistici.
A.D.A.: Come dicevo prima, io scrivo poesie e, suonando anche la chitarra, soprattutto classica e folk, compongo pezzi miei che possono essere classificabili come folk-blues, con un qualcosa di psichedelico, sempre in acustico ovviamente. Uso anche diversi altri strumenti quali leggere percussioni e l’armonica a bocca. Questo è il mio progetto parallelo, un progetto che ho sempre tenuto vivo.
P.Z.: Io, in realtà, ho tantissimi interessi ma, purtroppo, il tempo è sempre mio nemico. Per un certo periodo ho scritto. Ultimamente, invece, non sto scrivendo tanto, mi sono dedicato di più al mondo del video che vorrei trasformare da passione a lavoro. Attualmente sto vivendo un periodo direi “di passaggio” nella mia vita. Per quanto riguarda le attività artistiche, in generale, penso che tutti e tre, anche Matteo, vorremmo averne molte di più ma bisogna sempre misurarsi con il tempo a disposizione e il lavoro. Io, in questo periodo, ho un po’ più di tempo libero e ho fatto anche altre cose. Oltre ad aver scritto e fatto dei video, ho avuto altri due progetti musicali di genere totalmente diversi, uno si rifà un po’ alla synthwave degli anni ’80 e l’altro è molto ambient. Entrambe sono mie “creature”, al momento in fase di stallo. Detto ciò, ripeto, di attività artistiche ne avrei tante da fare, o che vorrei fare, ma col mondo attuale, riesci a portarne avanti bene forse una o due, non di più, perché il tempo manca e si fa quel che si può.
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
M.B.: Oh dio, così, tutti in una volta! Allora, ci mettiamo di sicuro i Rush e The Police. E poi, per la medaglia d bronzo ne avrei tanti… Ecco, ad esempio mi piacevano molto gli Extreme, un bel gruppo hard rock anni ’80-’90, molto bravi.
A.D.A.: Dunque, sceglierne solamente tre è abbastanza complicato, però vado così, seguendo il cuore, e al primo posto metto i Pink Floyd, che sono stati il grande amore della mia vita; al secondo ci metto i Genesis, soprattutto i primi Genesis (quelli dopo un po’ meno…); al terzo i King Crimson.
P.Z.: Anch’io mi trovo molto in difficoltà nel rispondere ad una domanda del genere. Posso dire, però, quali sono stati i gruppi che ho seguito di più nella mia vita e anch’io metto i Pink Floyd al primo posto, con i Beatles a pari merito, pur essendo così diversi. Poi ce ne sarebbero tanti altri, King Crimson, Yes, Genesis e anche vari gruppi italiani.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e che consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
M.B.: Mi piacevano i libri di Federico García Lorca, in alcuni casi mi ricordavano un po’ un Guareschi (ma non comico alla Peppone e Don Camillo). Ecco, scrittori di questo genere sono quelli che mi piacciono.
A.D.A.: Io ho scritto il testo di “Viaggio in treno senza biglietto” con lo stesso stile con cui scrivo le mie poesie, uno stile ispirato ad un poeta di cui sono innamoratissimo, Dylan Thomas, un poeta che con le sue parole costruisce delle immagini surreali e comunque riconducibili, allo stesso tempo, alla realtà di tutti i giorni, Quindi, per me, Dylan Thomas è una fonte infinita d’ispirazione.
P.Z.: Io faccio molta fatica anche qua perché, avendo studiato filosofia, ho letto tantissimi libri di autori che mi hanno influenzato. Dirne anche uno solo, libro o artista in generale, è difficile. Potrei dire uno stile. Io credo che mi abbia influenzato tanto il Surrealismo in tutte le sue forme, sia come scrittura che come pittura. Se poi dovessi proprio scegliere un libro, penso che “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera è quello che mi ha molto cambiato la vita, ma come quello tanti altri. Potrei dire “L’arte di amare” Erich Fromm, “La nausea” di Sartre, “Così parlo Zarathustra” di Nietzsche, oppure anche libri molto più “leggeri”. In fin dei conti, non voglio di certo fare la parte di quello che “se la tira” con dei libri “difficili”. Ho letto, sì, tanti libri considerati molto “difficili”, ma a volte le cose più belle le trovi nei libri che sembrano “leggeri”. Recentemente ho letto parecchi libri di narrativa e devo dire che mi hanno emozionato veramente tanto, quindi, non so, non riuscirei a consigliare qualcosa di specifico in questo senso. Posso solo consigliare, come per la musica, il libro che ti senti di leggere. Se c’è qualcosa che ti attira di quel libro, di quella copertina, di quella descrizione, prendilo, fallo tuo e via.
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
M.B.: Se prima era controllata, ora lo sarà ancora di più e, né più e né meno, posso pensarla diversamente per i concerti, “fatti a modo” per “gente a modo” e in maniera che consumino abbastanza da poter riproporre il concerto nella stessa maniera anche successivamente. Visto poi cosa passano in radio e in TV, non mi viene molto altro da aggiungere…
A.D.A.: Io ho una visione un po’ pessimistica da questo punto di vista perché, comunque, penso che già prima, un genere come il nostro, autoprodotto, in totale libertà di composizione, si faceva fatica a proporlo. Adesso sarà ancora più faticoso per noi perché comunque, essendo un genere di nicchia, come detto più volte in precedenza, la promozione della nostra musica sarà ancora più limitata, come se ci avessero un po’ tagliato le gambe. Però noi continuiamo e continueremo ad essere quello che siamo.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?
M.B.: Io onestamente penso di essere stato, anche se l’età avanza, una delle persone più Rock’n’Roll della mia zona. Potrei raccontarti tante cose, ad esempio svegliarsi a casa di uno e non ricordarsi perché si è lì! Però ti posso dire che, ciò che ho fatto, l’ho sempre fatto con gioia. Sì, ho fatto tantissime cose, come quando, ubriaco, cominci a parlare di musica lirica con un gruppo di cinazzi (ragazzi) e loro ti chiedono “ma questo qua è un nuovo cantante o roba del genere?”, o, ad esempio, ho provato, ad un certo punto, ad inculcargli che Mozart era un discreto rapper e qualcuno ha pure creduto alla cosa! Purtroppo poi, con internet, m’ha sgamato!
A.D.A.: La cosa che a me piace sempre, proprio una sensazione a pelle, molto emotiva, è “stuzzicare” la memoria, i ricordi, spesso legati alle volte in cui proviamo insieme. Un po’ poetico, filo-malinconico, è quando ci troviamo, magari in inverno, a provare (noi proviamo nel capannone Zacchi) e c’è una stufa a legna che dobbiamo alimentare continuamente, altrimenti loro due muoiono di freddo e suonano con le dita che rischiano di spezzarsi, mentre io, suonando la batteria, ho un po’ più di “fuoco”. Però, nonostante tutto, c’è quella magia del creare, quel fare mille pause in fase compositiva perché, sopra ogni cosa, c’è una profonda amicizia che ci lega.
P.Z.: Io, di aneddoti nel mondo musicale, ne ho tantissimi, però diciamo che ho anche tanti brutti aneddoti con tanti gruppi che non valeva neanche la pena di perderci del tempo, aneddoti più carini legati a gruppi che, però, sono finiti nel nulla e poi, alla fine, mi rendo conto che nella mia carriera musicale, il primo concerto che ho fatto in tutta la mia vita, l’ho fatto suonando in un gruppo con Alessio, che non era I Giullari di Corte, ma era la stessa sera dell’esordio dei Giullari sul palco. Quindi c’eravamo noi due, e altri due amici, a suonare del metal, e poi Alessio restava sul palco per suonare con I Giullari di Corte. Io ero piccolissimo e mi piacerebbe tanto avere una foto o una registrazione di quella esibizione. Avevo quattordici anni ed ero felice, mi sembrava una cosa mitica poter suonare con persone più grandi di me. Poi, ripeto, io ero un fan dei Giullari all’epoca, assistevo spesso alle loro prove, e mi ricordo che, una volta, portai la tastiera, giusto per il gusto di dire “provo a fare qualcosa”, ma non riuscii a fare niente perché Michele faceva in pratica tutto ed era impossibile infilarci anche la tastiera. Però mi ricordo altri episodi tra cui quello in cui, un giorno, finite le prove, c’eravamo noi tre e anche qualche altro nostro amico, c’era un freddo da matti, dovevamo tagliare la legna, e Matteo ebbe la bellissima idea di portare una bottiglia di grappa… Nonostante il freddo, dopo un po’ iniziammo a tagliarla in maniche corte! Sono passati diciassette-diciotto anni e, al pensarci, ancora rido. La cosa bella dietro tutto ciò, alla fine, penso sia la grande amicizia che ci lega, ancora più della musica che si fa insieme.
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro de I Giullari di Corte che vi è possibile anticipare?
M.B.: Una novità che riguarda il gruppo è che stiamo iniziando a pensare al nuovo album e stiamo già lavorando su un pezzo, in realtà già quasi finito, e che vi sbalordirà perché non somiglia affatto ad altro pezzo dei Giullari. Poi, purtroppo, Covid, impegni lavorativi e vita reale ci fanno lavorare in maniera scostante, ma la musica ci tiene uniti e comunque, visto il divertimento provato nel fare il primo album, non vediamo l’ora di realizzare anche il secondo.
A.D.A.: Quando ci siamo persi di vista, diciamo dalla prima demo, sono passati tanti anni. In realtà, sia io che Matteo, ma anche Paolo, avevamo preso strade diverse, anche se nel frattempo abbiamo sempre avuto il desiderio di ricostruire, di rimettere insieme i pezzi per sviluppare quell’antico progetto. È un qualcosa che covava sotto le ceneri e quindi adesso ci stiamo concentrando su questo nuovo pezzo e ce ne saranno delle belle perché è molto scoppiettante, ha dei cambi improvvisi, delle sonorità diverse. Quindi procediamo verso questa strada e, come diceva Matteo, probabilmente ci saranno dei rallentamenti in quanto i nostri impegni. Però il progetto è troppo coinvolgente per lasciarlo lì e quindi speriamo di continuare quello che abbiamo cominciato, anche perché non lo vogliamo lasciare andare assolutamente.
P.Z.: Chiudo dicendo che, come ho detto in precedenza, questo è un periodo un pochino complesso per me, sto cambiando tante cose della mia vita e anche per questo motivo, anzi, principalmente per questo motivo, un pochino si rallenterà la questione musicale ma, nonostante questo, come hanno detto Matteo Alessio, abbiamo in cantiere un pezzo che, forse, è anche più complesso di quelli che abbiamo fatto fino ad ora e che sta prendendo forma abbastanza velocemente. Non vogliamo dunque abbandonare il progetto, assolutamente, vogliamo continuarlo, forse anche meglio di prima, sperimentando ancora più di prima, compatibilmente con tutto. Come detto, purtroppo, la vita ti massacra sempre col lavoro e con tutto il resto e quindi si farà quel che si può. Però vorremmo riuscire, appunto, a produrre un altro album, ovviamente totalmente diverso dal precedente perché noi cerchiamo di fare sempre cose diverse e ci piace così. Quindi ci aggiorneremo in futuro per le nostre prossime produzioni e quello che riusciremo a realizzare.
Grazie mille ragazzi!
M.B.: Grazie per averci fatto fare terapia di gruppo!
A.D.A.: Grazie a te!
P.Z.: Grazie!
(Dicembre, 2020)
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