Intervista ai Raven Sad

Un caro benvenuto a Samuele Santanna (S.S.), Marco Geri (M.G.), Fabrizio Trinci (F.T.), Francesco Carnesecchi (F.C.) e Gabriele Marconcini (G.M.): Raven Sad.

S.S.: Grazie, un saluto e un ringraziamento a te e ai tuoi lettori.

M.G.: Ciao, grazie per questa opportunità.

F.T.: Grazie è un vero piacere.

F.C.: Iorana.

G.M.: Ciao.

Iniziamo la nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Raven Sad e cosa c’è prima dei Raven Sad nella vita psichedelico/progressiva di Samuele?

S.S.: Raven Sad nasce come progetto solista. Avevo una manciata di canzoni psych/folk da parte e cominciai a provarle con un bravo batterista della mia città, Fausto Amatucci, il quale poi prenderà parte alle registrazioni di “Quoth”, il primo album. Prima dei Raven Sad, ho militato in diversi gruppi e progetti poi arenati per i motivi più svariati: dalle consuete e immancabili conflittualità stilistiche, alle stupide, davvero puerili competizioni amorose. O presunte tali. In tutto questo, l’amore per la musica, sia suonata che ascoltata, è sempre rimasto più che mai acceso. Sembra una frase fatta, ma è così; e credo sia l’elemento fondamentale che permette di mantenere viva la voglia di misurarsi con la composizione di musica originale, nonostante le tendenze spingano altrove.

Pochi “giorni di vita” e sei già pronto con una demo: “Raven Sad and other stories”. Dopo aver ottenuto un riscontro positivo dalla Lizard Records, il tuo lavoro, su suggerimento di Loris Furlan, subisce qualche trasformazione (vedi, ad esempio, la collaborazione con Marco Tuppo o il titolo definitivo “Quoth”). Mi narri la genesi dell’album? Quanto ha “pesato”, effettivamente, l’apporto di Tuppo (e degli altri musicisti ospiti)? E come mai decidi di cambiare il titolo all’album?

S.S.: Sottoposi il demo all’attenzione di Loris Furlan, il quale ebbe l’intuizione della collaborazione con Marco Tuppo. Il suo obiettivo era quello di conferire un tocco disturbante alle mie composizioni, che erano piuttosto tradizionali nella loro natura folk. Fu una bella esperienza, Marco è un Mago delle diavolerie elettroniche e io, in quel periodo, ero molto affascinato da certe sonorità. L’apporto di Marco in fase di arrangiamento e produzione fu cruciale: sotto questo punto di vista c’è molto di Marco in “Quoth”, mentre gli altri musicisti si limitarono a suonare le loro parti, ad eccezione del già citato Fausto alla batteria che contribuì in qualche misura all’arrangiamento. Decisi di cambiare nome al disco perché effettivamente fu un nuovo progetto, piuttosto differente dalle intenzioni iniziali.

Facendo un piccolo passo indietro: perché Raven Sad?

S.S.: Raven Sad, un mio piccolo omaggio alla scrittura di Edgar Allan Poe. “The Raven” è uno dei suoi componimenti più belli e conosciuti, ripreso poi anche dagli Alan Parsons Project, altra mia grande passione. “Sad”, si intuisce facilmente: non scrivo propriamente musica per brindare felici su una spiaggia di Ibiza! So che l’espressione Raven Sad contiene un errore formale di grammatica. Ma è il tipo di errore che commettono i bambini non ancora completamente avvezzi alle regole grammaticali. Tuttavia, c’è tanto da recuperare dall’innocenza fanciullesca, anche se questo può prestare il fianco all’ingenuità, un elemento che non trovo necessariamente così tremendo. Nell’ingenuità si cela anche la bellezza, la spontaneità di un gesto puro, scevro da qualsiasi artificio. E poi Raven Sad suonava meglio di Sad Raven, almeno al mio orecchio!

Nel 2009, ad un anno di distanza da “Quoth”, sei già pronto per un nuovo album: “We are not alone”, concept basato su interrogativi di carattere cosmico, in cui l’autore si domanda se i terrestri siano l’unica razza intelligente ad abitare l’universo. Non si vuole fornire risposte scientifiche a riguardo, piuttosto “We are not alone” si pone come ideale colonna sonora di possibili riflessioni su questo tema. Ti va di approfondire il contenuto concettuale del disco? 

S.S.: Penso sia tutto nel titolo. We are not alone – Non siamo soli. Sono sempre stato affascinato da certi argomenti. Passo molto tempo a scrutare il cielo quando cammino, specie di notte, quando molto spesso le persone tendono a seguire i propri passi, a consultare il proprio smartphone o al massimo quanto si pone innanzi a loro. Le stelle, e più precisamente i satelliti, i pianeti, le nebulose, non sono posti romantici ai quali destinare i nostri desideri, non contengono nemmeno le coordinate delle nostre personalità, nemmeno giustificano il nostro essere buoni o cattivi, come invece imporrebbe certa credenza popolare. Sono possibilità, alternative, spesso sono posti inospitali ma che ci danno risposte sulle nostre origini e aprono interrogativi che per ora rimangono per lo più irrisolti, ma che aprono la mente. C’è vita oltre il nostro pianeta? Sono sicuro di sì, altrimenti sarebbe un inutile spreco di spazio, come saggiamente diceva Carl Sagan. Ho voluto semplicemente musicare tutto questo, ho composto le musiche di notte, collegando una tastiera midi al pc e osservando le stelle con un telescopio che oggi non ho più. Sono molto legato a “We are not alone”.

Quanto “We are not alone” è musicalmente diverso (se lo è) dal precedente? 

S.S.: È molto diverso, sebbene ne continui l’esplorazione elettronica. Il versante di “We are not alone” è però differente, più smaccatamente psichedelico che non alternative folk, che era il panorama cui si affacciava “Quoth”.

Candidature come “Best debut album” (per “Quoth”), “Best Italian Album” e “Best Artwork” (per “We are not alone”) all’ItalianProg Awards: come sono stati, dunque, accolti i due album da pubblico e critica?

S.S.: Inaspettatamente bene, nonostante riascoltati oggi evidenzino alcune approssimazioni dettate anche dal modesto budget cui disponevo, nonché dalla mia ingenuità. Però, come in un certo senso dicevo prima, l’ingenuità contiene anche aspetti positivi, affascinanti, e credo che entrambi gli album presentino spunti interessanti, determinati come detto da scelte non sempre a fuoco, comunque curiose. Per certi versi irripetibili, forse anche per fortuna! Con ogni probabilità, oggi li farei suonare in maniera diversa, specie “Quoth”. Ad ogni buon conto, penso conservino un loro ruolo nella mia crescita come musicista e compositore e, qua e là, anche un certo fascino, credo.

Quando è perché nasce l’esigenza di “abbandonare” l’idea dell’one man project e creare una band? È solo dovuto alla volontà di dare un “corpo” sul fronte live ai Raven Sad o c’è dell’altro dietro? 

S.S.: Avevo voglia di portare la musica dei Raven Sad dal vivo.  C’era effettivamente la possibilità perché alcuni locali della mia zona avevano mostrato interesse per la mia musica. Il passaggio a band ha poi aperto a ulteriori soluzioni stilistiche, ad una maggiore gamma di possibilità, grazie soprattutto all’intesa artistica maturata con Fabrizio Trinci, il quale ha un ruolo determinante nel sound della band. Ad onor del vero, c’è molto di Fabrizio nei Raven Sad, anche se nell’ambiente si ha la tendenza a identificarli esclusivamente con Samuele Santanna.

E nel 2011 i Raven Sad calano il tris: “Layers of Stratosphere”. L’essere divenuti una band ha modificato il tuo modus operandi nella sua realizzazione? E come hanno contribuito gli altri musicisti nella sua stesura?

S.S.: “Layers of Stratosphere” è proprio il risultato, nel concreto, dell’intesa artistica tra me e Fabrizio, raggiunta in seguito al tentativo di portare la band dal vivo. Sebbene quasi tutti i brani dei Raven Sad partano da idee o composizioni del sottoscritto, lo sviluppo che segue in sala prove è determinante. E in questo Fabrizio è importantissimo. C’è stata effettivamente una modifica nel modo di operare: sui primi due album ero praticamente solo su tutti i livelli creativi. Da “Layers” in poi possiamo riassumere grossolanamente il processo di composizione dei nostri brani in due fasi: quello iniziale, in cui il brano nasce da una mia idea, e quello di successivo trattamento con Fabrizio e la band. L’arrangiamento, in altre parole. Fabrizio è sempre molto bravo nel cercare progressioni armoniche alternative o soluzioni di maggior impatto e rilievo. È un ottimo musicista, la mia spalla ideale, riesce a capire benissimo dove un brano deve andare a parare. Ormai ci capiamo con uno sguardo: lui sa benissimo quale suono sto cercando, o quale accordo mi aspetto da lui per impreziosire una certa frase che sto suonando alla chitarra. L’apporto di Giulio Bizzarri e Simone Borsi, rispettivamente basso e batteria su “Layers of Stratosphere”, è stato importante, ma più per quello che riguarda l’arrangiamento dell’ossatura ritmica, che per la composizione o l’arrangiamento del brano. È stato comunque un bel periodo di condivisione.

Al netto di quanto detto nella risposta precedente, quali sono, a tuo modo di vedere, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i tre album? E quali sono le fonti d’ispirazione che ti hanno “guidato” nella stesura dei tre lavori?

S.S.: Credo ci sia stato un climax di crescita e ricerca della nostra personalità, come musicisti e come band. I punti di contatto, nel percorso che porta da “Quoth” a “Layers”, dal punto di vista stilistico, sono pochi. Sono progetti discografici affrontati in modo totalmente diverso. In comune c’è il fatto che si tratta per lo più di mie composizioni, tuttavia l’esito è piuttosto diverso. La fonte di ispirazione è ancora una volta qualcosa che accomuna i tre dischi: la vita, sia questa vissuta, persa, interrotta o, ancora, desiderata o immaginata altrove, anche tra le stelle. Tutto quello che suono riguarda la vita in relazione a quello che siamo, quello che ho perso, quello che ho guadagnato o anche quello che siamo diventati. Suonare è un esorcismo che allontana i fantasmi che ti condannano all’immobilità, alla mediocrità, alla rassegnazione, alla rassicurante conformità e mantiene aperto il varco che pone il voler vivere a pieno come una irrinunciabile necessità, nonostante tutto. Musicalmente le mie fonti di ispirazione sono piuttosto evidenti: Pink Floyd, Marillion, Genesis, Porcupine Tree, Camel, certo krautrock e certo rock psichedelico e progressivo.  Ma anche David Sylvian, Mark Kozelek e Brain Eno.

Il 17 aprile 2018 i Raven Sad tornano in pista con una nuova formazione (che vede Marco Geri, Fabrizio Trinci, Francesco Carnesecchi e Gabriele Marconcini) e un quarto album in cantiere. Cos’ha fatto Samuele nel lasso di tempo intercorso tra “Layers of Stratosphere” e la “rinascita” del progetto?

S.S.: Mi ero messo in testa di smettere di suonare. La realizzazione tecnica di “Layers of Stratosphere” mi aveva un po’ sfibrato e tolto entusiasmo, per quanto ancora oggi io sia molto legato a quel disco. Non trovavo più un senso nel proporre questa musica a un pubblico in buona parte pigro e attratto da altro. Ho fatto altre cose, sempre legate alla musica. Ho fatto radio, ho aiutato qualche giovane band a conoscere l’ambiente, ho scritto per alcuni webmagazines e ho continuato ad ampliare la mia cultura musicale, processo questo ancora in corso e che non vedrà facilmente una conclusione, dal momento che prima di essere un musicista sono un ascoltatore molto curioso e appassionato. Tuttavia, il richiamo della composizione è stato molto forte e ho riformato i Raven Sad con piacere e rinnovato entusiasmo. Con Fabrizio ne abbiamo parlato. Lui ogni tanto lanciava il sassolino, mentre stava lavorando a un suo progetto al quale avevo accettato di partecipare in qualità di membro esterno dopo lo scioglimento dei Raven Sad nel 2012, i Rainsound. Ci siamo incontrati e abbiamo pensato di dare un seguito a “Layers of Stratosphere”. È stato tutto piuttosto naturale. Marco Geri faceva parte del progetto di Fabrizio ed è entrato nella band sin dal primo giorno. Francesco Carnesecchi si è unito subito dopo. Mi fu segnalato da un noto batterista di Firenze. Infine è arrivato Gabriele Marconcini, che corteggiavo musicalmente da tempo, dopo averlo ascoltato e apprezzato coi Biofonia e con i Merging Cluster, e ha chiuso efficacemente il cerchio, proprio nel modo in cui mi auguravo.

E per Marco, Fabrizio, Francesco e Gabriele, come avviene la “collisione” con il progetto di Samuele? E cosa c’è nelle vostre “vite musicali” in precedenza?

M.G.: I progetti più duraturi di cui ho fatto parte sono sempre stati improntati sul Progressive Rock. Dopo il liceo ho suonato per un paio di anni nei Nuages, una formazione di giovani musicisti della mia città. È stato un periodo molto formativo, a cui ancora oggi devo molto e che mi ha permesso, tra le altre cose, di fare le mie prime uscite dal vivo. In quegli anni ho conosciuto da ascoltatore i Raven Sad, trovando su YouTube alcuni brani tratti da “Layers of Stratosphere”. Poco dopo la conclusione di quell’esperienza ho conosciuto Fabrizio, oggi compagno nei Raven Sad, ma al tempo tastierista dei Rainsound, di cui ho fatto parte fino al 2016. La registrazione del nostro primo album (mai terminata) ha purtroppo coinciso con la fine del progetto. L’ultima fase dei Rainsound ha visto però una collaborazione con Samuele e il suddetto scioglimento ha portato poi alla rinascita dei Raven Sad.

F.T.: Beh, per quanto mi riguarda, con Samuele esiste un amicizia ed una collaborazione musicale che va avanti ormai da diverso tempo. Ho sempre amato suonare in una band, credo di averlo sempre fatto fin dalle prime note studiate.

Trovo incredibile il lato creativo; la composizione è un processo magico e straordinario dove, se hai la fortuna di incontrare la tua anima gemella, come credo di aver trovato in Samuele, hai la massima realizzazione delle tue idee e delle tue emozioni.

Tale fortuna poi si è manifestata nuovamente in tempi più recenti con gli altri “corvi”.

F.C.: Non conoscevo Santanna, ma l’allora mio insegnante, il Maestro “Joda” Barsanti aveva giustamente percepito la “Forza” nei Raven Sad. Le loro sonorità pinkfloydiane, il loro genere in bilico tra progressive e psichedelico mi hanno attratto fin da subito, l’idea del nuovo progetto mi ha conquistato, quando poi ho conosciuto la banda di matti al completo mi son sentito a casa. La mia vita musicale è passata dall’hard rock al jazz: nasco come scapestrato batterista hard rock negli Antimateria (musica propria), calcando palchi importanti tra Ugnano e Malmantile per poi arrivare ai Contest della F.L.O.G. ed al vecchio Teatro Tenda. Non ancora maggiorenne, entrai a far parte degli Stasia, giovane gruppo fiorentino capitanato dal chitarrista Marco Carnesecchi. Più avanti negli anni ho accompagnato a colpi di shuffle gli A.B.O.U.T. Blues per poi incappare in una travolgente esperienza mistica nei For Joy Contemporary Gospel Choir. Prima di conoscere Samu, suonavo nell’orchestra jazz All Music Orchestra diretta da Romano Pratesi composta da più di dieci elementi.

G.M.: Didatticamente provengo dallo studio di canto jazz. Dopo vari tentativi di metter su delle blues band, mi sono sempre più legato ad un rock variamente progressivo, entrando prima nei Biofonia, con i quali abbiamo avuto delle soddisfazioni tanto belle quanto realmente underground, con alcune cose autoprodotte a partire dal 2005, e poi fondando i Merging Cluster, un complicato e tortuoso laboratorio attivo da circa dieci anni, attualmente in fase di mix del primo album. Conoscevo i Raven Sad di fama e li ho incontrati per combinazione in uno dei peggiori momenti della mia esistenza. Ci siamo annusati per qualche tempo, fino a quando è arrivata da Santanna la proposta che stavo silenziosamente aspettando, di entrare nella band come nuovo cantante. Pare che siano riusciti a sopportare la mia natura di guastatore, dandomi praticamente carta bianca riguardo testi e melodie vocali. Il rapporto umano ed artistico che si è creato ha portato a “The Leaf and The Wing”.

Titolo (“The Leaf and the Wing”), copertina (con la foto realizzata dall’artista argentino Jos/attheparkinglot e il progetto grafico a cura di Fabrizio Trinci), etichetta discografica (ancora una volta la Lizard Records), data prevista d’uscita (gennaio 2021), alcuni dettagli “sonori” ([…] talune variazioni di stile, ovvero un progressive forse più marcato nella sua componente squisitamente rock. Tuttavia, penso che certe tipiche sfumature, proprie del sound della band, sono state comunque mantenute: fughe chitarristiche molto melodiche, tastiere ariose e un generale senso e gusto per l’introspezione e la malinconia): lentamente state snocciolando i dettagli sul nuovo album. Vi è possibile anticipare dell’altro?

S.S.: Come si dice in queste circostanze, è il nostro miglior album di sempre! A parte gli scherzi, penso che l’elemento progressive sia più preponderante che in passato.

M.G.: Rispetto ai lavori precedenti i brani, sono più lunghi e strutturati, non tanto per una scelta quanto per una loro evoluzione naturale nel corso dei mesi/anni.

F.T.: È il nostro primo concept vero e proprio. Credo che, a differenza degli altri album, emerga maggiormente l’anima più puramente rock. Si tratta di un altro piccolo passo verso una maturazione ancora lontana (chissà mai se ci sarà, e forse è anche un bene).

F.C.: Non vorrei anticiparvi altro, spero sia un bel viaggio.

G.M.: Penso che abbia un buon climax ed un andamento narrativo interessante, in grado di coinvolgere e trasportare.

“The Leaf and the Wing” uscirà, appunto, per Lizard Records, come già i primi tre lavori. Come nacque, dunque, quasi quindici anni fa, il rapporto con la sempre attenta etichetta di Loris Furlan e com’è proseguito nel tempo?

S.S.: Conosco Loris dagli anni ‘90, quando entrai in contatto con lui con la band in cui militavo all’epoca per una possibile collaborazione discografica. Poi la band si sciolse e non se ne fece nulla.  Sono comunque rimasto in contatto con Loris e la Lizard anche negli anni immediatamente successivi. Ci legavano, e ci legano ancora oggi, stima, simpatia, unione di intenti e rispetto, nonostante, purtroppo, ci dividano i colori calcistici!

Samuele, il progetto Raven Sad nasce come “Laboratorio di sperimentazione emozionale”. Ti va di approfondire il concetto? Pensi di aver raggiunto l’obiettivo?

S.S.: Ho sempre cercato di riversare in questo progetto tutta l’emotività che il tipo di vita che conduco, e che conduciamo un po’ tutti, mi spinge a limitare nella vita di tutti i giorni. Ho sempre suonato con totale onestà e amore per la musica, senza alcun tipo di filtro e senza alcun compromesso, come invece si è costretti a fare altrove. Se esiste una versione più vera di altre, di me stesso, questa suona nei Raven Sad. E ho sempre cercato di invitare chiunque ne abbia fatto parte nel tempo a fare altrettanto. Ho sempre sperato e voluto che tutti fossero ben disposti a lasciare qualcosa di loro stessi nei Raven Sad. Qualcosa di autentico. Non importa quanto grande o quanto piccola. Penso che suonare in una band e realizzare un disco che contenga le tue canzoni, sia qualcosa che valga la pena mostrare ai tuoi figli e poi ai tuoi nipoti, per raccontare loro chi sei stato veramente. Non importa quanto importante sia il tuo progetto, quanto successo tu abbia o abbia avuto. Ci sei tu lì dentro e spesso è più vero e autentico di una fotografia, magari di un selfie rivisitato con decine di filtri e con pose ed espressioni imposte, artificiose. Non so dire se io abbia raggiunto l’obiettivo o meno, ma credo di essere riuscito a scrivere qualcosa che spesso è in grado di farmi provare qualche brivido piacevole. O qualcosa che riesce a far affiorare un ricordo doloroso. È la magia della musica. E a volte capita di ricevere qualche attestato di stima, in giro, in rete, o dall’altra parte del mondo. Posso ritenermi parzialmente soddisfatto. L’idea che qualcuno, magari qualcuno che vive in Giappone o in Brasile, abbia provato una bella emozione ascoltando una mia canzone, mi fa stare bene. Mi restituisce molto dello sforzo impiegato nel realizzare i nostri dischi. Spero che tutto questo continui anche dopo l’uscita del nuovo disco. In più, se ripenso all’alba dei Raven Sad, in cui ero sostanzialmente solo, e mi guardo oggi, circondato da ottimi musicisti che hanno aderito volentieri al mio progetto, evidentemente qualcosa di buono è stato realizzato.

Nei lavori dei Raven Sad, molto importante è anche la componente grafica. Citando un brano de Le Orme, nelle copertine degli album (e non solo) c’è sempre uno “sguardo verso il cielo” (e oltre). Quanto e perché ciò che sta “oltre le nuvole” ti affascina? E quanto di tuo c’è in ogni artwork?

S.S.: Sai che non ci ho mai fatto caso? Ma è vero. Il cielo, e quello che sta oltre, ricorre spesso nelle copertine dei nostri dischi. Penso possa essere la trasposizione grafica della suggestione onirica che aleggia nella nostra musica. E credo sia del tutto riconducibile a quanto ho espresso poco fa, circa il fascino che provo per certe tematiche legate all’astronomia e alla possibilità di altre forme di vita nell’universo, comunque alla necessità di scrutare altrove possibilità altre. Le copertine dei primi tre dischi sono effettivamente frutto di mie indicazioni, che poi chi ha curato la parte grafica ha realizzato nel concreto. Per quello che riguarda l’ultimo disco, l’idea è partita da Gabriele, che è anche l’autore del concept lirico, e fortunatamente ha mantenuto una certa continuità stilistica con gli altri dischi, quantomeno per gli aspetti squisitamente grafici.

Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?

S.S.: Avrei preferito vivere negli anni ‘70. Forse avremmo avuto una possibilità diversa come Raven Sad, potendo contare su un pubblico, credo, più consapevole. Oggi non si può prescindere da tutto ciò che è rete e social. Nella vita così come nella musica. La platea e le possibilità sono effettivamente enormi. Molto spesso, però, tanta scelta equivale a non averne affatto, poiché il rischio reale, ma parlerei quasi di certezza, è che il tuo messaggio si perda e si dissolva tra le fila di una folla sterminata, spaventosamente eterogenea ma conforme, in più rumorosa e confusa, che guarda ad altre cose. E non ti nota.

M.G.: Il mio punto di vista è quello del fruitore più che di chi abbia esperienza nel proporre i propri lavori. La rete permette a chiunque di proporre musica digitalmente ed economicamente, ma dubito che questo porti a una situazione di vantaggio per i musicisti. L’idea di trovarsi a distanza di un clic da chiunque nel mondo è vera quanto ingenua, perché lo stesso vale per migliaia di proposte diverse e riuscire a emergere è difficoltoso, forse impossibile. A questo si aggiunge la tendenza da parte del pubblico verso l’utilizzo di servizi musicali digitali molto economici, contribuendo a un crollo delle vendite. Chi vuole vivere di musica oggi deve investire molto sui social e rimanervi attivo con grande costanza, ma spesso questo non è sufficiente.

F.T.: Purtroppo, e lo dico da amante di tutto ciò che riguarda l’universo informatico, come spesso succede, molti strumenti, quali i social media, nascono con due facce. La differenza la fa l’uso che ne viene fatto; ecco che qualcosa che nasce come un veicolo per condividere e liberare piccole gemme dall’anonimato, diventa strumento di denigrazione e lacerazione. Come esseri umani siamo più attratti dalla distruzione piuttosto che dal lato creativo del mondo, è la cosa più semplice ed è quello che più o meno bene sappiamo fare tutti.

Indubbiamente, però, nella musica questa “civiltà 2.0” dà la possibilità a tutti di potersi mettere in mostra in maniera più o meno appagante; offre le più svariate piattaforme e supporti a disposizione della tua arte, ma allo stesso tempo ti rende nudo ed estremamente esposto al pubblico giudizio.

Ovviamente siamo in grado di gestire tutto quanto se si è persone ormai formate e strutturate, le difficoltà arrivano quando si è individui in erba che non hanno più quel filtro di anni di gavetta e anonimato nei quali sviluppavano quelle cicatrici necessarie per affrontare le battaglie più dure.

F.C.: Il poter essere a distanza di un click da un palco internazionale è indubbiamente allettante, certo è che il mondo virtuale talvolta lascia troppo poco spazio per confrontarsi con la realtà. Per quanto ami la tecnologia, non condivido il ritmo, la velocità con la quale nascono brani ed il poco tempo dedicato al loro ascolto. Mi sento più vicino alla vecchia maniera di acquistare musica, alla gestualità legata al rito di scartare un album, annusarne il contenuto, leggerne i testi per poi entrare nei pezzi dal primo all’ultimo minuto.

G.M.: Non posso parlare del mainstream in quanto non ne comprendo i meccanismi. Per tutto ciò che vi è al di sotto, ho assistito ad una vera e propria rinascita di carriere, grazie ai social, di artisti più o meno di nicchia che erano caduti nel dimenticatoio. D’altro canto, il social moltiplica all’infinito l’offerta: la totale democratizzazione dell’accesso a forme gratuite di visibilità appesantisce e rende faticosa l’esplorazione, la ricerca e la selezione da parte del fruitore. Io, come fruitore, sui social ho raggiunto da tempo la nausea. È un peccato perché ci sono tante realtà interessanti e forse anche innovative, ma perse nel marasma.

E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nelle vostre singole esperienze, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino artistico?

S.S.: Parliamoci chiaro. La musica che non abbia uno sbocco sul disimpegno, non interessa più a nessuno. Sono tanti i fattori che concorrono in tutto questo e non starò qui a tediare te e i tuoi lettori con noiosi elenchi. Siamo dei nostalgici, suoniamo per noi stessi e per qualche cuore spezzato, qualche romantico che ancora cerca qualcosa di intimamente rilevante. Non siamo professionisti, per quanto quel che facciamo cerchiamo di farlo nel modo più professionale possibile. Non riusciamo a vivere grazie alla musica, sotto il profilo economico. In pochi ci riescono, oggi, nel nostro ambiente. E quindi, come molti altri, siamo costretti a fare altro. Non parlerei nemmeno di ostacoli: ho sempre saputo che la nostra sarebbe stata una dimensione che si rivolge a una nicchia. Il sogno della rockstar si è spento da tempo, del resto. L’autoproduzione è un passaggio inevitabile. Nessuno è disposto a investire su di te se non sa in partenza che potrà avere un ritorno di un certo tipo. Ed oggi vali il tempo di una stagione, a certi livelli. Noi invece suoniamo per altri motivi. Manca una scena, manca il contesto storico e culturale. Discorso complesso.

M.G.: Credo che oggi ci sia un disinteresse diffuso riguardo il vivere la musica dal vivo, specie a livello locale. Inoltre ci si affida sempre più spesso all’ascolto attraverso piattaforme digitali economiche e investire negli artisti (mainstream escluso) non è più remunerativo. Non mi addentro più nello specifico perché non ho esperienza in merito, non avendo mai promosso seriamente i miei lavori.

F.T.: Penso ci sia (e mi ricollego alla domanda precedente) un’ondata di piena nella produzione e promozione artistica dovuta appunto alla “civiltà 2.0”. Nelle piene è difficile distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, si ha una visione di un flusso enorme e continuo di nuove produzioni che arriva e passa nell’arco di un attimo. Difficile oggi fare qualcosa di importante e resistere alla piena senza essere trascinati via.

Per quanto ci riguarda, la nostra è una dimensione di rapporto carnale con la musica; la soddisfazione che proviamo suonando insieme è la molla che ci spinge, così come il singolo commento di una persona che ha provato delle emozioni ascoltando un nostro brano.

F.C.: Fare musica che ami con passione è una scelta, sai di arrivare ai pochi che ricercano quel genere di nicchia ma questa è sicuramente la nostra soddisfazione. Incidere è il coronamento di un progetto e non ha prezzo.

G.M.: Che la musica non sia più oggetto di business lo sappiamo da anni (parlando sempre di ciò che sta al di sotto del mainstream). Un’intera industria, con tutto un indotto al seguito, semplicemente ha cessato di esistere. Per (soprav)vivere di musica dovresti suonare tantissimo a giro e dare lezioni di strumento, il disco che fai uscire investendo di tasca propria diventa quasi uno sfizio che ti togli. Noi cinque poi, avendo tutti degli impieghi lavorativi extra-musicali, non rientriamo neanche in questa categoria: magari arriviamo meglio a fine mese ma dobbiamo lottare con le nostre esistenze per trovare il tempo di farla, la musica. E anche questo è frustrante se non doloroso, perché si parla pur sempre di una esigenza ed urgenza per noi insopprimibile.

E qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?

S.S.: Sono in contatto con altri esponenti della nostra scena. Ma siamo al livello di un rapporto di reciproca stima. In realtà non esiste alcuna scena Progressive, se non quella ancorata al passato. Questo vuole il pubblico. L’acquirente medio sceglierà sempre la ristampa con bonus tracks del gruppo storico X, alla novità discografica di un gruppo relativamente nuovo. E sceglierà di andare a vedere sistematicamente il concerto di un gruppo di settantenni famosi, milionari, a cifre spesso astronomiche e immorali. E a te chiederà il link per scaricare gratis l’album dei Raven Sad, “perché sai, c’è crisi”. Sono problemi ormai cronicizzati e non vedo vie di uscita. Per suonare dal vivo, non ne parliamo neanche. Al netto di qualche eroica realtà, sono le tribute band a fare i numeri. È ancora una volta il pubblico che sceglie. Spesso c’è la tendenza a incolpare i gestori dei locali, i quali, per me, rendono semplicemente un servizio in base a quel che il pubblico chiede in prevalenza. E pertanto non hanno colpe sostanziali, per me. Semplice legge della domanda e dell’offerta, tutto qui. Il pubblico vuole bersi una birra ascoltando la canzone dei Queen o dei Pink Floyd, senza pensare troppo.  Il che non è per forza un male. Ci sarebbe spazio per tutti, nel mondo. È tanto grande. Ci sarebbe spazio per la tribute band, per la cover band e dovrebbe esserci spazio anche per la diffusione della musica originale. Ma così non è. Forse dovremmo ammettere che quanto suoniamo non è in grado di soddisfare le aspettative degli ascoltatori? Può essere, in effetti: competere coi Pink Floyd non è semplice.

M.G.: Onestamente non seguo la scena Prog Italiana, quindi non saprei dire. Negli ultimi anni ho cercato di esplorare una parte della scena musicale locale e ho trovato un ambiente, seppure ristretto, umanamente amichevole e musicalmente eterogeneo e florido. Le proposte però esulano dal Progressive e le formazioni tendono ad essere flessibili, anche per adattarsi alla scarsità di spazi destinati alla musica dal vivo. Sempre più spesso infatti – anche chi propone musica originale e di non facile ascolto – è costretto a suonare in pub o ristoranti, rischiando di diventare un sottofondo. Gli spazi dedicati esclusivamente alla musica stanno scomparendo, purtroppo.

F.T.: Spazi??? Quali spazi… A parte tutto, ci sono molti gruppi in Italia che meriterebbero palcoscenici dove potersi esibire. Il problema è che si pensa sempre troppo al profitto che deve portare una situazione, senza offrire spazi importanti alla musica come manifestazione d’arte e non come birre vendute in una serata.

F.C.: Sarebbe interessante poter sperimentare una collaborazione con i Seldon, talentuosa Progressive Rock band della scena fiorentina. Gli spazi? Sarebbe meraviglioso poterli creare, magari organizzando un festival Prog… Voglio essere speranzoso!

G.M.: Non ho una opinione perché non conosco la scena Prog Italiana, e devo dire che seguo poco anche quella internazionale. Sembra un paradosso, dato lo stile delle band in cui milito: in realtà mi interessa poco il “genere” che faccio, più importante è l’ambito umano ed artistico in senso lato in cui sono chiamato a dare il mio contributo. I miei ascolti attuali, poi, vanno in altre direzioni. Ad ogni modo non mi pare di scorgere, in generale, una grande propensione al mutuo aiuto fra le band, a creare una scena degna di questo nome. Tutt’altro. Spazi per proporre la musica dal vivo? Non mi sembra che si stiano moltiplicando…

Esulando per un attimo dal mondo Raven Sad e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?

S.S.: I Raven Sad sono attualmente la mia unica attività artistica. Per il resto ascolto molta musica, mi interesso di astronomia e leggo qualche libro per difendermi dai continui attacchi barbari e dalle seduzioni di un mondo che mira ad impoverire l’intelletto.

M.G.: Direi di no. Le arti visive (soprattutto la fotografia) mi affascinano, ma per adesso mi limito a goderne attraverso il lavoro degli altri.

F.T.: Sono un appassionato di fotografia.

F.C.: Da anni ormai, con un gruppo di amici di vecchia data, reinventiamo film cult ed io mi diletto nel montaggio di queste insane parodie, ma la mia vera passione è ascoltare jazz mentre mi dedico alla potatura dei miei amati olivi.

G.M.: Sparo talvolta fotografie, alcune delle quali mi danno una certa soddisfazione. Vorrei scrivere di più. E disegnare.

E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?

S.S.: Pink Floyd, King Crimson, Alan Parsons, Supertramp, Black Sabbath, Brian Eno, Hans Zimmer, Goblin, David Sylvian, Tears For Fears, Talk Talk, Marillion, Camel, John Martyn, Beatles, Dredg, Tori Amos, Rush, Mark Kozelek, Porcupine Tree, Nick Drake, CSNY, Ozric Tentacles, Radiohead, Battiato, Paolo Benvegnù… e molti, molti altri.

M.G.: Tra gli artisti che più mi hanno segnato ci sono sicuramente Cynic e Gordian Knot (legati dal bassista Sean Malone), che ormai da un decennio ascolto periodicamente. In passato mi sono concentrato più sul Progressive e sul metal, ascoltando tra gli altri Dream Theater, King Crimson, Porcupine Tree. Più recentemente mi sono spostato su artisti come Avishai Cohen (bassista, non trombettista), Agnes Obel, Protest the Hero, Bon Iver, Becca Stevens.

F.T.: Impossibile fare un podio ma forse Dream Theater, Porcupine Tree, Opeth, Katatonia, The Pineapple Thief, Sigur Ros, sono fra i gruppi che negli ultimi anni ho ascoltato di più.

F.C.: È davvero difficile scegliere tra tutti i gruppi ascoltati da quando ero ragazzo. Assegnerei il primo posto ai Led Zeppelin seguendo con un ex aequo Rush/Dream Theater, al terzo posto il picchiatore jazz Art Blakey ed i suoi Jazz Messengers.

G.M.: Sul mio podio purtroppo vi è un assembramento non autorizzato: Rush, King Crimson, Marillion (con Hogarth), David Sylvian, Queensrÿche, David Bowie, Depeche Mode, Pink Floyd, Beatles, Radiohead, Black Sabbath ma me ne vengono in mente troppi altri.

Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?

S.S.: Sicuramente Edgar Allan Poe e i suoi racconti del mistero e del terrore, “I, Robot” di Isaac Asimov, qualsiasi cosa di Lovecraft, “Il funesto demiurgo” di Emil Cioran, poi Hans Zimmer per le colonne sonore, i film e le musiche di John Carpenter e infine i dipinti di Salvador Dalì, Vasilij Kandinskij e Edward Hopper.

M.G.: Tra gli scrittori Stefano Benni, Italo Calvino e Andrea Camilleri. Tra i registi/sceneggiatori Richard Linklater, Ari Aster, Charlie Kaufman, Paul Thomas Anderson, Kim Ki-duk, Kathryn Bigelow, Darren Aronofsky. Gli spettacoli di Bo Burnham.

F.T.: Al momento non ne ho uno in particolare, sto leggendo autori nordici come Lars Kepler, Arnaldur Indriðason fino al più conosciuto Jo Nesbø.

F.C.: I romanzi Fantasy di Stan Nicholls, di Terry Brooks e di Licia Troisi, i romanzi storici di Gordon Russel, i film di Quentin Tarantino, le sculture di Roberto Carnesecchi, la forza espressiva di Carter Beauford.

G.M.: I libri di Raymond Carver e Cormac McCarthy, i film di David Lynch, le voci di George Michael, Joan Osborne, Cassandra Wilson, i dischi degli Hothouse Flowers, l’ultimo di Johnny Marr.

Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?

S.S.: Dispiace dover constatare quanto la musica, e in genere l’arte, abbia un ruolo così marginale in un paese come il nostro, che può vantare bellezza e cultura da secoli, più di ogni altro paese al mondo. Questo è davvero paradossale. Non sono granché ottimista circa il futuro della musica, specie in relazione al nostro paese. E questa emergenza sanitaria ha sottolineato una volta di più, con scellerata miopia, quali sono le cose ritenute importanti e quelle invece classificate come sacrificabili. Noi siamo sacrificabili. Quello che facciamo non è ritenuto come necessario.

M.G.: A livello locale difficoltoso, più di quanto non fosse già fino allo scorso anno. Non credo che nel futuro prossimo cambierà qualcosa rispetto alla situazione già difficile che precedeva l’emergenza, se non per la chiusura di ulteriori attività. Ma la musica oggi sopravvive soprattutto in digitale, dove l’emergenza è penetrata meno in profondità e le produzioni grandi e piccole riescono a trovare spazio, come e più di prima. La parte difficile è sempre scovarle!

F.T.: Spero tanto ci sia una rivalutazione dei tempi che sono necessari a creare e produrre musica di qualità.

F.C.: Abbracciando il concetto di ciclicità della storia, vorrei aspettarmi nel prossimo futuro, al termine di questa terribile emergenza sanitaria, una sorta di rinascita musicale dettata dalla voglia di riscoperta del bello e strettamente legata al recupero del passato. Voglio sognare inoltre folle immense ad assistere a grandi eventi live.

G.M.: La musica, nel momento di dolore di una intera comunità, può ergersi come un collante dalle proporzioni epiche (pensiamo al blues) capace di creare davvero una rete empatica. Voglio pensare che un momento come questo possa spingere tanti, soprattutto i più giovani, verso uno strumento o l’ascolto di un disco, in cerca di conforto o anche solo di un diversivo. Voglio sperare in una fioritura di scuole di musica che possa gettare le basi per una futura generazione di “persone musicali”.

Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività (relativi e non ai Raven Sad)?

S.S.: Non ho un aneddoto particolare da raccontare. Avrei voluto raccontarti di alberghi sfasciati in tour o di orge con groupies post concerto. Ma la nostra è una dimensione molto più convenzionale e che quasi mai offre aneddoti memorabili, al netto delle emozioni provate durante il semplice suonare, comporre e veder concretizzare un lavoro che ha occupato alcuni anni delle nostre vite.  Che è la cosa credo più importante per noi.

M.G.: Coi Nuages avevamo in programma un concerto in aperta campagna, in piena estate. Durante il soundcheck ci siamo resi conto che, aprendo i toni del mio basso e direzionandolo in un certo modo, riuscivamo a prendere il segnale di una nota stazione radio, tra l’altro con una certa qualità! In seguito, per non farsi mancare niente, il concerto è saltato a causa di un violento temporale e un fulmine cadde particolarmente vicino al palco. Per fortuna nessuno si è fatto male.

F.T.: Non mi viene in mente niente al momento.

F.C.: Concerto con gli Antimateria estate ’96, un fan “sfegatato” invocò il lancio delle bacchette; senza esitare un attimo, mosso da tanta passione e con il cuore pieno d’orgoglio, gliele tirai. Purtroppo non avevo fatto i conti con il soffitto basso e soprattutto con il neon appeso, per fortuna non si ruppe ma ci fu una bella e grassa risata generale da parte del pubblico. Ho tanto di VHS per documentare la buffa scenetta.

G.M.: Concerto dei Biofonia, intro atmosferica/ambient di un brano. Chiudo gli occhi cercando il giusto pathos da esprimere e uno spettatore, che evidentemente non gradiva i momenti soft, urla a squarciagola “dai gaaaass” seguito da una ferocissima bestemmia, incastrandosi perfettamente nei versi che stavo sussurrando “mani giunte/in silenzio”.

E per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro dei Raven Sad che vi è possibile anticipare?

S.S.: Il nuovo corso dei Raven Sad, il percorso che abbiamo condiviso e che ci ha portato a realizzare il nuovo disco, ha rinnovato l’entusiasmo, ha aumentato la nostra esperienza di musicisti, consolidato i rapporti umani tra noi, creandone anche di nuovi, al punto che non vediamo l’ora di metterci al lavoro su quello che sarà il quinto album. Non credo passerà troppo tempo stavolta e ho il sospetto che sarà qualcosa di decisamente diverso da “The leaf and the wing”.

M.G.: Non abbiamo ancora parlato seriamente del futuro e credo lo faremo soltanto dopo l’uscita di questo album. Personalmente sono fiducioso vista la sintonia che c’è tra tutti noi, sia umanamente che musicalmente.

F.T.: Comporre suonare comporre suonare comporre suonare…

F.C.: Per il momento aspettiamo di uscire con questo album per poi sperare di suonare presto dal vivo.

G.M.: Tour in Giappone e poi al lavoro su nuovi brani pop da tre minuti e mezzo ciascuno.

Grazie mille ragazzi!     

Raven Sad: Grazie mille a te!

(Dicembre, 2020 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti)

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