Un caro benvenuto a Luca Zabbini (L.Z.), Marco Mazzuoccolo (M.M.) e Alex Mari (A.M.) dei Barock Project.
L.Z.: Ciao, piacere nostro!
M.M.: Ciao a tutti.
A.M.: Grazie, è un piacere.
Diamo il via alla nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Barock Project e cosa c’è prima dei Barock Project nella vita di Luca?
L.Z.: Prima della nascita dei Barock Project c’è stato un asilo, una scuola elementare, poi è apparso un pianoforte, tanti dischi di mio papà (flautista e grande fan dei Jethro Tull) ascoltati in camera sul giradischi, un walkman con una cassetta degli ELP che portavo da ascoltare durante le gite delle scuole medie. Proprio alle medie suonavo il pianoforte dell’aula magna e sentii che alcuni ragazzi della classe a fianco avrebbero tenuto un concerto pomeridiano davanti alla scuola. In pausa lezione, mi recai al bagno e mi si avvicinò un tizio con fare poco affabile, dicendomi “A mezzogiorno ti devi incontrare con Gb all’uscita della scuola. Devi dargli un plettro”. In sottofondo immaginatevi il classico fischio alla Morricone. Non sapendo chi fosse questo Gb che avrei dovuto incontrare, decisi comunque, un po’ intimorito, di accettare l’incontro. Sarebbe stato il bassista con il quale avrei da lì a qualche giorno messo in piedi il mio primo gruppetto. Al primo concerto suonavamo “Per Colpa di Chi” di Zucchero e “Ragazzo Fortunato” di Jovanotti. Al terzo concerto suonavamo “Tarkus” degli ELP e “Celebration” della PFM. Poi cominciammo a destare l’attenzione degli adulti esibendoci le sere nei pub locali, accompagnati dai nostri genitori e, in seguito, suonando nelle piazze dei paesi vicini. Poi un giorno bisticciammo e ci perdemmo di vista. Arrivò dunque il conservatorio a Modena, le lezioni individuali e tante ore di studio e sacrifici. Ma con i sacrifici arrivarono anche gli amici in conservatorio.
Verso i vent’anni, durante le pause tra una lezione e l’altra, noi studenti eravamo soliti ritrovarci presso il corridoio del terzo piano, davanti alla macchinetta del caffè per il rituale del “caffè e paglia”. Stringendo nuove amicizie e scambiando idee, opinioni, gioie e frustrazioni, capitava ci si scambiasse anche qualche disco.
E così, tra un Bach ed un Bartòk, circolavano illegalmente sottobanco i dischi dei Genesis, degli ELP, stando accuratamente attenti a non farci vedere dai professori, specie quelli più puristi della musica classica, i quali, grazie al cielo, erano pochi. Così io, Furio Ferri e Martino Silvestri, oltre al conservatorio, cominciammo a frequentarci sempre più spesso, anche con svariati strumenti musicali addosso, come, per esempio, le chitarre elettriche. Nel tempo libero ci mettemmo a registrare delle cover, tra cui brani dei King Crimson, dei Genesis, ma anche dei Queen e di Elio e le Storie Tese. Poi un bel giorno ci siamo messi a scrivere insieme qualcosa di nostro. La cosa ci era piaciuta talmente tanto che abbiamo pensato di continuare a scrivere, fino ad avere una quantità di brani da poter fare un disco tutto nostro. La mia strada si incrociò nuovamente con quella di Gb che, appreso del progetto, volle a tutti i costi entrare nel gruppo come bassista. Nel frattempo cercammo un batterista ed un cantante e, arruolati Giacomo Calabria e Luca Pancaldi, cominciammo a fare le prime serate nei locali del bolognese e modenese.
Barock Project: il nome è dovuto solo all’“essenza barocca” (tra le tante) della proposta musicale o c’è dell’altro dietro la sua scelta?
L.Z.: Il nome “Barock” fu scelto nel 2003, una sera in un pub di Modena, davanti a qualche birra e tante risate. Scelta scaturita dal desiderio che all’epoca avevamo, con la prima formazione, di commistionare il genere barocco al pop rock. Essendo all’epoca tutti studenti del conservatorio, adoravamo sia Bach che il Progressive. Qualcuno aggiunse il “Project” perché all’epoca, ahimè, si pensava conferisse un tono più intellettuale.
Tocca attendere il 2007 per la pubblicazione del primo album: “Misteriose Voci”. Mi parli della sua genesi e del suo contenuto?
L.Z.: Il disco era già pronto ben due anni prima della sua pubblicazione.
La prima versione era addirittura tutta in inglese ed era ancora cantata dal primo cantante (Furio Ferri). Qualcuno ci suggerì di riscrivere tutti i testi in italiano, scelta che ancora adesso mi fa venire la gastrite.
Registrato il disco cominciammo a portarlo in giro dal vivo, ma con il problema che il disco non era ancora uscito. Ci volle più di un anno per riuscire a trovare un’etichetta interessata a distribuirlo.
L’album esce per la Musea Records. Come entrano i Barock Project nell’orbita dell’etichetta francese? E come viene accolto l’esordio discografico da critica e pubblico?
L.Z.: Nonostante tutti gli sforzi che stavamo facendo, il primo disco era pronto ma nessuno ci degnava di considerazione. Mandammo un sacco di email in giro per il mondo. L’unica che all’epoca ci offrì un contratto fu la francese Musea Records, la quale fu l’unica a dare una risposta positiva alla nostra musica. “Misteriose Voci” uscì un po’ in sordina, ci volle ancora un po’ di tempo prima che il nome del gruppo cominciasse a circolare per bene. Per quel che ricordo delle primissime recensioni, furono comunque molto buone.
E in pochi anni escono altri due lavori ad “alto tasso qualitativo” quali “Rebus” (2009) e “Coffee in Neukölln” (2012). Mi parli un po’ dei due album? Quali sono i punti di contatto e le differenze sostanziali tra questi e l’esordio discografico?
L.Z.: “Rebus” si può considerare come un approccio verso l’ottenimento di un sound più personale. Brani come “Don Giovanni” cominciavano già a delineare le sonorità caratteristiche della band. Ma, allo stesso tempo, non ero molto felice sul versante testi, i quali erano ancora prevalentemente in italiano e decisamente immaturi. È una cosa che non ho mai digerito, ancora oggi fatico ad ascoltarli con il testo in lingua italiana. Per me si sposa davvero poco con il genere musicale.
“Coffee in Neukölln” è stato per me il disco di svolta, quello che definisco una manna dal cielo.
Ci recammo una settimana a Berlino per bussare a tutte le etichette rock che avevamo cercato preventivamente su internet, segnandoci tutti gli indirizzi. Girammo per la città tutti i giorni a piedi, con il vento gelido, tra una metropolitana e l’altra. Portavamo in giro dei presskit ben confezionati, sembravamo dei postini disperati. Ritornammo a casa a mani vuote, ma non del tutto. Tanto che nei due mesi successivi scrissi tutto il nuovo disco in pieno stimolo creativo.
L’esperienza in Germania ci aveva messo il “turbo” ed eravamo molto stimolati. Poi la decisione, finalmente, di fare tutti i testi in inglese. Ero soltanto frustrato dal fatto che nessuno di noi aveva intenzione di mettere mano ai testi, in quanto, essendo semplicemente dei musicisti, non avevamo alcuna esperienza in fatto di liriche. Ci armammo comunque di impegno e tanta pazienza per scriverli.
Lavorammo parecchio di squadra per quel disco e ne vado fiero. Ad oggi è ancora uno dei lavori che preferisco e del quale ricordo il periodo di lavorazione con molto affetto.
Come avviene il passaggio alla Mellow Records con “Rebus” (e il ritorno alla Musea con “Coffee in Neukölln”)?
L.Z.: Il passaggio a Mellow con “Rebus” fu un errore imperdonabile, una scelta dettata dal fatto che eravamo ancora poco esperti e molto ingenui. Il ritorno a Musea con il successivo “Coffee” fu dunque, per noi, una scelta obbligata.
M’incuriosisce la copertina di “Rebus”. Ti va di parlarmene?
L.Z.: All’epoca di “Rebus” ero un po’ nella fase dei messaggi criptati e robe del genere.
In quei giorni leggevo le quartine di Nostradamus e, sebbene io sia piuttosto un tipo scettico, mi ha sempre affascinato quell’argomento. Essendo anche un grande fan dei Beatles, posso dirti che in quel disco mi sono divertito a mettere un po’ ovunque dei riferimenti e messaggi nascosti. Ma state tranquilli, niente di satanico.
Per quanto riguarda le liriche, dunque, c’è stata una vera e propria “sterzata” dall’italiano di “Misteriose Voci” all’inglese di “Coffee in Neukölln” (con una fase “mista” in “Rebus”)…
L.Z.: Come ti dicevo, all’epoca dei primi due dischi ero parecchio frustrato dal fatto che nessuno di noi fosse capace di scrivere un testo che fosse all’altezza delle musiche. Non avevamo ancora nessuno che collaborasse con noi per i testi, cosa che sarebbe avvenuta anni dopo, grazie al cielo.
Ancora adesso fatico molto a riascoltare i nostri brani cantati in italiano di “Misteriose Voci”. Penso seriamente che i testi siano parecchio scarsi.
In “Rebus” avevamo già cominciato con qualche timido tentativo in inglese, ma nessuno di noi è madrelingua.
Poi in “Coffee in Neukölln” decidemmo finalmente di non scrivere più in italiano. E credo fu una scelta più che azzeccata.
E con “Coffee in Neukölln” i Barock Project sono tra i nominati della categoria “Symphonic Prog Rock International Band” ai Prog Awards 2012. Come hai accolto la notizia e quanto questo avvenimento ha modificato il cammino seguente della band?
L.Z.: Fu indubbiamente una bella notizia e ne fui onorato. Quello che però interessava a me era suonare dal vivo ed esibirmi con i Barock. Venivamo nominati ai Prog Awards 2012 ma, allo stesso tempo, non c’erano segni di vita da parte di festival che ci invitassero a suonare e questa cosa non la capivo. Mi sembrava parecchio contradditorio.
E poi arrivano in formazione Marco Mazzuoccolo e Alex Mari (con Eric Ombelli e Francesco Caliendo). Cosa c’è nelle vostre vite artistiche prima dei Barock Project e come entrate nell’“orbita” della creatura di Luca?
M.M.: Io sono entrato nella band dopo un’audizione nel 2012, nei giorni in cui “Coffee in Neukölln” era in uscita, avevo 22 anni quindi, prima di quello, non c’era molto in termini di curriculum. Gravitavo intorno al mondo rock e Prog all’epoca. Vidi l’annuncio in cui cercavano un chitarrista e mi sono buttato. Personalmente essere entrato nella band è stata una delle prime vere soddisfazioni in termini musicali.
A.M.: Io entro a fare parte ufficialmente dei Barock Project a Settembre 2016 e il mio debutto avviene in occasione del Progressivamente Festival tenutosi a Roma. In quell’anno vengo contattato telefonicamente da Marco dicendomi che la band stava cercando un cantante. Dopo mille peripezie di un periodo personale particolarissimo, sono salito sul palco con i Barock Project, difficile descriverti il mix di emozioni provate nel dover eseguire per la prima volta, live, una musica cosi raffinata e difficile, con musicisti meravigliosi e dover appagare le aspettative del pubblico giustamente affezionato ad un cantante bravissimo come Luca Pancaldi. Ricordo che il nostro Luca mi fu di grande supporto e lo ringrazio.
La mia vita artistica prima dei Barock Project vede un susseguirsi di progetti e situazioni diverse, dal 2014 sono corista della Michele Luppi Band, un progetto di Michele Luppi nonché mio insegnante di canto. La band Alex Mari & The Lovers, esistente già dal 2013, i Dia Logo, progetto di musica e teatro che porta in scena diversi spettacoli su Dalla, Battisti, Sting e Police mescolando sonorità pop e jazz. Sono cantante dei Queen & The Choir e sostituto cantante dei Queen Vision. Sono inoltre cantante degli Ophiura, una mia band storica con la quale proponiamo brani originali nel filone power prog metal, attualmente congelata in attesa di tempi migliori.
E per Luca, come mai la band ha vissuto negli anni diverse “turbolenze” interne (sino allo stabilità raggiunta con Eric, Marco, Francesco e Alex)?
L.Z.: Durante il corso della storia del gruppo sono dovuto scendere al compromesso che, ahimè, nessuno è insostituibile in questa band. Ci sono musicisti che, per esempio, prendono la questione gruppo musicale come un gioco. E quando il gioco comincia a farsi serio, prendono autonomamente la decisione di scendere dalla giostra. Durante i primissimi anni, eravamo ventenni e alcuni preferirono dedicarsi di più agli studi universitari e lasciare il gruppo. Poi qualcuno si è sposato e si è accasato. Qualcun altro non era più in grado di dedicare tempo alla band oppure non era in grado di far combaciare tutti gli altri impegni musicali paralleli, che ognuno di noi musicisti deve sostenere di questi tempi per avere un minimo di stipendio dignitoso. Qualcun altro, invece, si è comportato male ed è stato l’unico a venir cacciato, ma fortunatamente è stato un caso isolato.
Più che “turbolenze”, sono stati episodi nei quali partivo con una Ferrari e dopo pochi chilometri rimanevo di nuovo puntualmente a piedi. Mi sono ritrovato a dover fare un sacco di audizioni nel corso degli anni, l’ultima quando Luca Pancaldi decise di uscire dal gruppo a fine 2015, e fui costretto a trovare un nuovo cantante. La cosa che più mi faceva male all’epoca era leggere su internet che ero diventato una sorta di “tagliatore di teste” e attribuivano a me il licenziamento dei componenti, quando, nella realtà, non era affatto così. Devo dire che avevo proprio voglia di svegliarmi al mattino per dover cercare altri musicisti e fare altre venti audizioni…
Il 2015 è l’anno di “Skyline”. Una delle prime novità riguarda la parte più “tecnica” del lavoro, con l’abbandono della Musea e l’uscita “in proprio” (con l’aiuto dei una campagna di fundraising, la partnership con Stars of Italy e la distribuzione e produzione The Merch Desk). Come mai questa svolta?
L.Z.: Tra il 2013 ed il 2014 mi dedicai alla composizione dei brani per “Skyline”, stimolato anche dalla nuova formazione finalmente al completo. A fine estate del 2014 ci esibimmo al Veruno Prog Festival dove stringemmo amicizia con Antonio De Sarno, con il quale cominciammo una fortunata collaborazione. Finalmente avevamo trovato qualcuno che si occupava di scrivere i testi in inglese ai nostri brani. Nel giro di qualche mese si presentò Claudio Cutrone, il quale ci fece la proposta di pubblicare il nostro nuovo disco tramite la sua neonata etichetta Artalia e la raccolta tramite il crowdfunding. Accettammo così la proposta, in virtù del fatto che necessitavamo, inoltre, di una figura che ricoprisse un po’ il ruolo di manager del gruppo.
E quanto questa evoluzione ha influito nella stesura dell’album?
L.Z.: Nella stesura musicale di “Skyline”? Nessuna influenza. In realtà tutti i brani erano già pronti e registrati al momento della proposta dell’etichetta. L’arrivo di Stars of Italy ci ha portato l’aggiunta della partecipazione di Vittorio de Scalzi e la copertina disegnata da Paul Whitehead.
M.M.: In termini musicali per nulla, Luca ha sempre tante demo da proporci che ci ritroviamo a dover scegliere perché non ci stanno tutte in un disco. Di solito i brani non sono influenzati da questo genere di cose, quanto più che altro da stimoli musicali e personali.
Stars of Italy, dunque, vi ha portato in “dono” le collaborazioni con Vittorio De Scalzi (voce e flauto nella title track) e Paul Whitehead (autore dell’artwork). Che ricordo avete di loro?
L.Z.: Claudio ci mise in contatto con Vittorio De Scalzi, proponendo lui una partecipazione nel nostro disco.
Vittorio ci accolse nella sua casa in Toscana, dove chiacchierammo sul progetto e passammo una piacevole giornata.
La medesima cosa è avvenuta con Paul Whitehead, con il quale ci siamo incontrati anche in via promozionale a Sanremo durante il festival in quel periodo. Paul è una persona molto spassosa e i giorni passati con lui li ricordo davvero molto divertenti.
M.M.: Di quel giorno con Vittorio De Scalzi ricordo in particolare quanta passione ancora avesse nella musica e nel comporre brani!
Il tour che segue “Skyline” viene immortalato nel doppio disco live “Vivo” (2016). Quando prende forma la “necessità” di lasciare una testimonianza del genere? E quale serata (o quali) avete scelto di registrare?
L.Z.: Era necessario fissare su disco i momenti delle nostre performances sul palco, in quanto credo siano i momenti nei quali questo gruppo dia il massimo. Perciò sfruttammo l’occasione per registrare alcuni dei concerti dell’epoca, la maggior parte presso l’Alex Etxea di Milano, più qualche altra esibizione come il concerto a beneficio dei terremotati di Crevalcore, il mio paese.
M.M.: Dal vivo sicuramente c’è un’energia sul palco pazzesca che cerchiamo sempre di canalizzare nella nostra musica per farla arrivare al pubblico. Poterla avere in un doppio CD a portata di ascolto è una fotografia di quei momenti da rivivere quando se ne sente la necessità, sia per noi che per l’ascoltatore.
A proposito di live (immortalati anche da alcuni DVD), come sono i Barock Project sul palco? Io vi ho visti per la prima volta durante il Progressivamente Free Festival del 2016 a Roma e siete stati davvero travolgenti e coinvolgenti.
L.Z.: Credo che questo sia un gruppo da ascoltare e guardare dal vivo. Sul palco diamo il massimo e rendiamo il doppio di quello che si sente nei nostri dischi. Ogni volta che ci siamo esibiti, a fine serata siamo stati letteralmente investiti dal calore e dall’affetto del pubblico in giro per il mondo e che ricambia l’energia che mettiamo durante le nostre esibizioni. E questa è una soddisfazione impagabile.
M.M.: I primi a essere travolti dalla musica siamo proprio noi. Ogni volta è un’esperienza diversa che ci arricchisce musicalmente e personalmente.
A.M.: Direi che Luca ha descritto alla perfezione quello che mi arriva. Credo che i Barock Project siano un mix di emozioni, energie, momenti introversi, delicatezza e forza.
E, per niente “sazi”, tra 2017 e 2019 mettete a segno una nuova doppietta: “Detachment” e “Seven Seas”. Come sono cambiati i Barock Project in questi ultimi anni in fase creativa? E quanto giova avere finalmente una formazione stabile nella riuscita della propria proposta?
L.Z.: Penso che i Barock negli ultimi due dischi siano cambiati più a livello interiore e personale.
Per quanto mi riguarda, sin da “Detachment” c’è stata la voglia di comunicare in maniera diversa rispetto a prima e di rivolgermi ad un pubblico più sensibile.
Sicuramente avere una formazione che è stata stabile negli ultimi anni ha facilitato parecchie cose, in primis la possibilità di fare le prove non lontano da casa, visto che viviamo tutti tra il modenese, il bolognese ed il ferrarese.
M.M.: Personalmente in entrambi i dischi mi sono sentito molto coinvolto. In “Detachment”, in particolare, in diversi brani avevo carta bianca per quanto riguarda le parti di chitarra e ho collaborato anche alla fase compositiva di alcuni, mentre nel precedente “Skyline” era già tutto arrangiato perché i brani erano già pronti nel dettaglio. In “Detachment”, in particolare, è stato più un lavoro d’insieme. Inutile dire che con una formazione stabile è tutto più semplice.
A.M.: Io fondamentalmente ho vissuto molto il periodo di “Detachment” e, ovviamente, quello di “Seven Seas”. Ricordo che al primo ascolto di “Detachment” ho sentito molta introspezione; era già praticamente finito e già esprimeva le emozioni più profonde di Luca. Ho sentito un netto cambiamento dagli album precedenti, ho respirato un’evoluzione ad uno stadio interiore successivo.
Mi parlate un po’ del contenuto dei due lavori? Come nascono le collaborazioni con il cantante dei Camel Peter Jones (in “Detachment”) e la storica corista dei Pink Floyd Durga McBroom (in “Seven Seas”)?
L.Z.: “Detachment” nacque da una situazione personale un po’ critica e credo di aver sfogato un po’ di cose proprio nel disco, sebbene non sia un grande fan del mettere in piazza i propri “panni sporchi”. Ma talvolta le cose filtrano e passano fuori senza che tu nemmeno te ne accorga. Peter si offrì di collaborare alla realizzazione di alcuni testi per “Detachment” e, di certo, avere un madrelingua inglese in questo caso fu di grande aiuto. Ci sono stati anche bei momenti di sedute compositive molto stimolanti per me insieme a Marco, con il quale insieme abbiamo scritto brani come “A New Tomorrow” e “Twenty Years”. Mentre l’ultimo disco, “Seven Seas”, è scaturito dalle esperienze accumulate nel suonare in giro per il mondo, frutto dei luoghi visitati, di persone conosciute, di hotel diversi, del tempo lontano da casa e dello stravolgimento delle abitudini quotidiane, tra risate, momenti di gloria e anche momenti di tensione.
A.M.: “Detachment” è un album che si lega a ricordi e che fa da colonna sonora ad un periodo di cambiamenti per me importanti; è un album scuro, affascinante, malinconico, trascinante. “Seven Seas”, invece, è per me una commistione ben equilibrata di tutto ciò che siamo ed ascoltiamo: questi sono i nostri ingredienti e Luca ha la capacità di utilizzarli come un grande chef dosandoli sapientemente, poi ti può piacere o meno un piatto ma non si può dire che non sia un piatto di alta qualità.
Luca, in alcuni brani di “Detachment” è possibile anche ascoltare la tua voce in veste di cantante principale. Come mai decidi di passare anche al canto?
L.Z.: In realtà li canto quasi tutti.
Non ho deciso io di passare al canto, ma è stata una decisione obbligata dal fatto che Luca Pancaldi aveva lasciato il gruppo a ridosso delle incisioni delle voci in “Detachment”. I brani erano già tutti pronti a livello strumentale e il disco doveva essere completato nel giro di poco.
Di solito le demo che sottopongo ai ragazzi sono in origine tutte cantate da me in finto inglese. Ci siamo ritrovati tutti un giorno e qualcuno mi ha detto: “Ma le demo sono cantate bene. Perché i pezzi non li canti proprio tu con i testi definitivi anche nel disco?”. E così ho fatto. Avevo tralasciato però il fatto che, in seguito, dal vivo mi sarei dovuto fare in quattro per dover anche cantarli oltre che a suonare le mie parti alle tastiere, che già di per se non sono semplicissime.
Nel frattempo ci eravamo già messi in moto per fare audizioni a nuovi cantanti…
E il 19 febbraio del 2021, Immaginifica/Aereostella pubblica “The BoxSet”, cofanetto che contiene i vostri sei album in studio sottoposti a restyling. Come nasce l’iniziativa “celebrativa”? E, Luca, dove hai sentito la necessità di “mettere mano più a fondo” nella tua opera di “rinnovamento” dei lavori?
L.Z.: L’iniziativa è nata da Iaia de Capitani la quale, in vista dei quindici anni dall’uscita del primo disco, mi ha proposto l’idea di una riedizione di un cofanetto con tutta la nostra discografia in studio. La scelta è stata rafforzata dal fatto che alcuni dei dischi sono stati irreperibili negli ultimi anni e così ne abbiamo approfittato per farne una ristampa completamente rimasterizzata. La mia decisione del remix e remastering, in particolare dei primi due dischi, è nata dal fatto che, sino ad oggi, ho sempre avuto grandi rimpianti su quanta poca esperienza avessi all’epoca in fatto di mixaggio e riprese audio. Così ho colto l’occasione per riprendere fuori tutte le vecchie tracce originali dagli archivi, mi sono armato di tanta pazienza e mi sono messo al lavoro per rendere un po’ più di giustizia al sound generale.
M.M.: Sono molto felice del boxset, soprattutto per le edizioni remixate e rimasterizzate dei primi lavori, parecchi brani ne trarranno grande giovamento.
E da dove spuntano fuori gli inediti?
L.Z.: Sono tutte cose che ho tenuto nel cassetto. Un po’ perché non erano ritenute degne di essere inserite in un disco, oppure perché destinate, all’epoca, esclusivamente alla pubblicazione sul mercato giapponese.
La chicca per me rimane “Tridius”, la bonus track di “Misteriose Voci”. Quella fu la primissima registrazione in assoluto che feci con la prima formazione dei Barock Project ad inizio del 2004. Ho dei ricordi molto nitidi di quei giorni e di quanto ci divertivamo.
Luca, ti va di fare un primo bilancio sui quasi vent’anni di attività dei Barock Project? L’evoluzione del progetto avuta negli anni è quella che ti aspettavi?
L.Z.: Ad essere onesto è andata molto diversamente da ciò che mi aspettavo agli inizi, quando, con la prima formazione, ci ritrovavamo a fare delle vere e proprie sedute di composizione durante tutti i momenti liberi che avevamo, scambiandoci input a vicenda e stimolandoci reciprocamente. C’era uno spirito molto diverso allora e forse ho un po’ nostalgia di quel cameratismo e quell’affiatamento. Già allora ero comunque al corrente del potenziale che aveva questa band ed ero certo che prima o poi una gita fuori porta l’avremmo fatta in qualche palco straniero. Ci sono voluti tanti anni per riuscirci. Ma ora lo spirito generale è molto cambiato. Sarebbe stato bello poterlo fare qualche anno prima.
Tornando per un attimo sul fronte live, negli anni vi siete esibiti sui palchi di mezzo mondo. Che idea vi siete fatti dell’attuale cultura musicale internazionale, del modo in cui il pubblico ne fruisce e dello spazio che si dedica alla musica dal vivo? E quali sono le differenze con il nostro Paese?
L.Z.: La differenza più grande che personalmente ho riscontrato suonando all’estero è il rispetto che le persone portano a chi fa il nostro mestiere. In Giappone soprattutto, ma è una cosa che ho riscontrato anche in Olanda ed altri paesi. Per me questo è molto importante. Ora non voglio passare per il classico tipo che si lamenta del proprio paese, per carità. Il benessere che abbiamo qui in Italia è imparagonabile se pensiamo alla qualità della vita, tra il clima ed il cibo. Ma per quanto riguarda il rispetto per il nostro lavoro proprio non ci siamo.
M.M.: La differenza più grande è che nessuno beve l’acqua durante i pasti! No, sul serio, prima di tutto è sempre una botta emotiva non indifferente poter toccare con mano il fatto che dall’altra parte del mondo apprezzano quello che facciamo e aspettano la nostra esibizione in trepidante attesa. All’estero siamo sempre stati trattati benissimo dalle organizzazioni e abbiamo conosciuto persone che credono nella musica e fanno di tutto per dare il loro contributo e organizzare concerti.
A.M.: Io trovo affascinante che ogni Paese abbia un approccio comunicativo e un modo di esprimere il proprio apprezzamento nei nostri confronti diverso l’uno dall’altro, ad esempio l’essere composti e grati, quasi timidi, del Giappone contrapposto all’esuberanza positiva dell’America, ma differenze sostanziali le ho riscontrate all’interno di ogni singolo Paese.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
L.Z.: Credo che il problema grosso per chi fa della musica una professione, al giorno d’oggi, sia l’estrema accessibilità a tutto quanto. Una volta se volevi farti notare, dovevi imparare a suonare per davvero e lo dovevi far bene sul tuo strumento. Una volta che avevi imparato a suonare bene dovevi avere la fortuna di trovare qualcuno con cui formare una band e cominciare a fare le serate, sperando che qualcuno ti notasse.
Adesso ai ragazzini basta avere un computer, un software con il quale mettere insieme i mattoncini che ti arrangiano automaticamente il tuo pezzo, scegliendo tra una infinita lista di preset di loop, ritmi e giri armonici già preimpostati e il tuo brano è bello che pronto. E poi sarà sufficiente bombardare i social tramite modalità intelligenti che permettano di aumentare le visualizzazioni e il gioco è fatto.
E la cosa che mi dispiace ancora di più è che l’industria degli strumenti musicali si è allineata a questa sorta di impoverimento culturale, creando sempre più dei “giocattoli” anziché degli strumenti veri e propri, più idonei per dj che non, ad esempio, a dei tastieristi. Tant’è vero che oramai tra le novità sul mercato vedo soltanto tastiere che non superano i 37 tasti.
Noi dei Barock siamo tutti quanti insegnanti di musica. Sai quante volte mi è capitato di ricevere degli allievi che si presentavano dicendomi “Ho imparato a suonare il piano su YouTube”?
Ripeto, internet è un’arma a doppio taglio: il fatto che ci abbia permesso di avere accesso a tutte le informazioni nel minor tempo possibile quando e come vogliamo non significa che sia sempre un bene.
M.M.: Sicuramente avere tutto a portata di tutti è qualcosa che ha rivoluzionato la nostra società, sono certo che nei libri di storia si troveranno riferimenti a quest’epoca. Se da una parte possiamo accedere a tutto in pochi secondi dall’altra non c’è nessun filtro su ciò che ci viene proposto. Da quando, poi, è diventato un business è più importante la quantità della qualità. Vieni premiato se fai visualizzazioni, non se il contenuto è particolarmente buono.
A.M.: È un argomento complicato, come ogni cosa c’è sempre il lato luminoso e quello oscuro.
Ci sarebbe da parlarne ampiamente ma secondo me uno dei lati positivi è sicuramente quello di poter potenzialmente raggiungere con la propria musica qualsiasi parte del globo in maniera anche capillare; il problema è che questo è rivolto a tutto.
Una delle cose che apprezzo di più sono le possibilità di comunicazione che questo mezzo offre: c’è immediatezza, però è anche vero che tutto diventa frenetico e, a tal proposito, vorrei invitarvi ad ascoltare “Rescue Me” contenuta in “Detachment”.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?
L.Z.: Il mercato è saturo. Come ho detto prima, l’estrema facilità ed accessibilità alla produzione musicale ha di contro intasato i canali di visibilità. Se ci aggiungiamo che al giorno d’oggi contano più i numeri e le quantità a discapito della qualità, ecco che si ottiene la ricetta magica per ottenere la situazione del mondo della musica attuale.
M.M.: Autoprodursi è diventato sempre più facile, così come autopromuoversi. Il problema è che adesso la promozione è la cosa più importante e la responsabilità ricade sempre di più sui musicisti i quali, se ambiscono a una buona visibilità, devono pensare a crearsi un’immagine, un brand, qualcosa che rimanga in testa ancora prima del comporre, che è quello su cui, in realtà, ci si dovrebbe concentrare.
A.M.: Presumo che ci siano sempre meno fondi da investire su band emergenti. Diciamo che le views sono sicuramente un biglietto da visita importante indipendentemente dalla qualità, chi fa business deve realizzare introiti. I talent sono sicuramente un mezzo pubblicitario potentissimo. La nostra musica è ricercata e, come dice Luca, noi facciamo parte dello slow food della musica, chi non ha tempo per assaporare o la curiosità di assaggiare non siederà mai a tavola ma si alimenterà in maniera veloce e distratta. Questa è una delle difficoltà.
Qual è la vostra opinione sulla scena progressiva italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?
L.Z.: Non sono molto informato sulla scena progressiva italiana moderna. Ad ogni modo, considerando che già il mercato del pop è saturo di artisti che sgomitano per farsi notare, puoi immaginare in che stato ci si trovi in un genere di nicchia come quello del progressive.
M.M.: Non sono molto al corrente per quanto riguarda la scena progressiva italiana.
A.M.: Neppure io.
Esulando per un attimo dal mondo Barock Project e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nella vita quotidiana?
L.Z.: Sicuramente la musica è il mio interesse principale e l’attività che mi viene più naturale svolgere durante la giornata. Oltre comporre per mio conto, lavoro collaborando anche per case produttrici di software per la produzione musicale e mi dedico all’insegnamento dei miei allievi. La cosa bella dell’insegnamento è che, in realtà, ad ogni lezione sono proprio io il primo ad imparare qualcosa di nuovo.
Oltre alla musica, ho una longeva passione per l’astronomia che sin da bambino mi fa sognare, mentre da un paio di anni coltivo una discreta passione per la fotografia.
Un’altra mia grande passione è la montagna, in particolar modo le Dolomiti. E qualcuno dirà “Va sicuramente a sciare o a scalare!”. No. Mi piace fare delle tranquille passeggiate, respirare l’aria buona, mangiare bene, ammirare la bellezza di quei posti meravigliosi e rilassarmi.
M.M.: Personalmente dedico la maggior parte del mio tempo all’insegnamento e, al contrario di tanti miei colleghi, è un’attività che mi piace particolarmente e che mi dà spesso grandi soddisfazioni, oltre al rapporto umano che si crea con ogni allievo. Lavoro anche come dimostratore per qualche ditta con cui mi diverto molto anche a creare dei contenuti video. Oltre alla musica sono appassionato al mondo degli scacchi.
A.M.: Attività nella mia vita sono sicuramente l’insegnamento del canto, il mondo olistico, lo sport e il benessere psico-fisico. Come Luca amo la quiete della montagna, amo il trekking e anch’io sono affascinato dalle stelle, ma anche dal mondo onirico.
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
L.Z.: Sono cresciuto ascoltando di tutto, dagli Earth Wind & Fire, Elton John, i Beatles, i Police, i Weather Report, Cat Stevens fino ad ELP e Jethro Tull. Il mio primo amore fu, ovviamente, la musica di Keith Emerson, ma ho sempre cercato di trarre il meglio un po’ da tutto ciò che ascoltavo. Crescendo ho imparato ad apprezzare la musica classica durante gli anni di Conservatorio e Bach è diventato la mia colonna portante. Poi c’è stato il jazz e i grandi pianisti, tra cui i miei preferiti Michel Petrucciani e Michael Camilo. Talvolta riapro i vecchi sgabuzzini impolverati del mio cervello ascoltando Lucio Dalla e sono un grande ammiratore di Samuele Bersani. E non dimentico Elio e le Storie Tese, che mi hanno insegnato cosa vuol dire saper suonare con i controfiocchi senza la necessità di doversi prendere sul serio. Sergio Conforti (alias Rocco Tanica) è un altro dei miei miti, ogni volta adoro sentirmi ignorante sentendolo parlare. È un artista di un’intelligenza incredibile. Farti un podio sulle mie preferenze è difficile, ma se proprio devo ti potrei dire Keith Emerson, Johann Sebastian Bach e Paul McCartney. L’ordine lo lascio fare a te.
M.M.: Sono cresciuto col rock classico. Il disco che mi ha cambiato la vita è “Made in Japan” dei Deep Purple, mi ha folgorato l’esplosione di note che scaturiva da quel live. Andando avanti ho ascoltato di tutto, dal metal al jazz, dal blues al pop, credo che il non porsi limiti all’ascolto faccia crescere tanto sia musicalmente che a livello interiore.
A.M.: Sicuramente per me i Queen sono stati la svolta, è quella band che da bimbo mi faceva sognare di essere sul palco, pur giocando a calcio in una giovanile di Serie B. La prima band ascoltata negli anni ’80, nella macchina dei miei genitori, furono i Pooh, amore a primo ascolto; seguiti da diversi artisti. Si sono impresse in me diverse canzoni che ascoltava mia mamma in radio o in tv in quel periodo, ad esempio, “Careless Whispers”, “Hold the Line”, “Part Time Lover”, “Smooth Operator”, “The power of love”, ecc… Le band che attualmente adoro, oltre ai Queen e ai Pooh, sono i Toto, i Symphony X, gli Evanescence prima maniera.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
L.Z.: Sì. Ripeto ciò di cui sopra e l’artista in questione è Sergio Conforti, in arte Rocco Tanica.
Consiglio vivamente di leggere il suo libro “Lo Sbiancamento dell’Anima” perché è un capolavoro di raffinata intelligenza che brilla di luce propria.
Musicalmente mi sentirei di suggerire sicuramente l’ascolto di Bach e anche della musica balcanica, specialmente Le Mystère des Voix Bulgares: con le voci fanno cose pazzesche.
Nel campo dell’arte figurativa, sono molto affascinato dai lavori dell’artista polacco Pawel Kuczynski.
M.M.: A me piace molto la fantascienza, anche se non ho mai abbastanza tempo per leggere. Di recente ho letto la trilogia della Fondazione di Asimov, un classicone!
A.M.: Gli artisti in campo musicale che vi consiglio di approfondire sono sicuramente Michele Luppi e Luca Zabbini.
Qualche domanda per Luca. Quando sboccia il tuo amore per Keith Emerson? E chi sono gli altri “mostri sacri” della tastiera cui ti ispiri o che ti hanno dato “qualcosa di tangibile” lungo il tuo percorso artistico?
L.Z.: L’amore per Emerson è nato nel 1994, quando, a dieci anni, rovistando tra i vinili di mio padre alla ricerca di un disco degli Earth Wind & Fire, incappai, anziché su EW&F, su un altro disco con scritto EL&P.
La copertina mi aveva sedotto, sentivo le voci chiamarmi un po’ come successe ad Ulisse con quelle gran burlone delle sirene. Solo che al posto delle sirene c’era una colomba bianca.
Per farla breve, ho messo il disco sul piatto e alla prima nota di quell’organo infernale ho assunto le sembianze di John Belushi in The Blues Brothers ed ho urlato “Ho visto la luce!”.
Da lì in poi scelsi che quello era il modo in cui volevo suonare e cominciai a studiare seriamente.
Nel mondo del rock non ho altri tastieristi che mi hanno regalato le stesse sensazioni al livello di Keith.
Se andiamo su altri generi, tra i pianisti che adoro vi sono Michel Petrucciani, Michael Camilo, ma anche Elton John e Billy Joel. L’ispirazione comunque la traggo anche da artisti che non siano necessariamente dei tastieristi, fra i quali James Taylor, Paul McCartney o Jaco Pastorius.
Sei compositore, tastierista, cantante, corista, bassista, chitarrista, hai numerose esperienze sul palco e in studio, insegni musica e pianoforte, sei arrangiatore e produttore in studio anche per altri artisti e tanto altro ancora. Come si “gestisce” una vita artistica (e lavorativa) così articolata e densa?
L.Z.: In realtà è molto più gestibile di quello che credi, se pensi che ognuno dei lavori che tu hai citato non è full time ma a chiamata.
Quindi ti posso dire che possono capitare periodi dove, in una singola settimana, devo allo stesso tempo insegnare, arrangiare per qualcuno, scrivere delle demo per qualcun altro, girare un video promozionale. Mentre la settimana dopo c’è il vuoto più totale dove, come nel Far West, vedo rotolare davanti a me i tumbleweeds, più comunemente chiamati, erroneamente, le “balle di fieno”.
Mi parli un po’ degli Arkivio Tre?
L.Z.: È stato un progetto molto divertente che porto dentro con il sorriso. Fu un trio che istituimmo tra studenti durante gli ultimi anni di conservatorio a Modena, verso il 2009.
Io al pianoforte, Giuseppe Franchellucci al violoncello e Vincenzo Panebianco al clarinetto.
Il trio nacque quasi per scherzo, trovandoci a suonare insieme durante le ore di pausa tra le lezioni.
Ci ritrovavamo nel corridoio del conservatorio e talvolta qualche studente si aggregava a suonare insieme ad un altro recandosi nella prima aula libera a disposizione. E così ci aggregammo in tre, ma poi, con il forte arrivo sempre maggiore di studenti e nuovi iscritti, le aule a disposizione erano sempre meno fino ad essere sempre tutte occupate. Decidemmo un giorno di ritrovarci a suonare presso l’aula Archivio, dove scoprimmo che almeno le librerie conferivano una bella acustica.
Suonavamo musiche popolari swing, klezmer, tango argentini, ma poi cominciammo a suonare anche musica scritta da noi. Avevamo messo su un bel repertorio, poi registrammo un disco e cominciammo a fare qualche sporadica esibizione, spesso per i colleghi studenti del conservatorio o in qualche manifestazione a Modena. È stato un bel capitolo, poi, tra una cosa e l’altra, ci siamo persi di vista.
So che stai lavorando ad un album solista. Ti è possibile anticipare qualcosa a riguardo? E come mai hai deciso di staccarlo dalla tua “creatura” Barock Project? E ti va di parlare, in generale, del tuo lato “solista”?
L.Z.: È un disco che è scaturito dalla voglia di comunicare in modo diverso da ciò che le persone sono abituate a vedermi fare. Forse mi sono un po’ stancato di essere relegato a dover scrivere per forza musica Progressive, o meglio, di doverlo fare nell’ambito dei Barock Project.
A me piace scrivere in tanti generi diversi, in base a come mi sento in un determinato periodo.
Mi piace scrivere dal folk al brit rock fino allo swing, o magari per orchestra, come successe tanti anni fa quando scrissi un concerto per piano e orchestra.
Ma mi rendo conto che questi generi per i Barock non sarebbero adatti e non verrebbero comunque accolti con favore dagli altri, così mi sono tenuto i brani da parte. Durante il primo lockdown del 2020, ho sfruttato l’occasione come diversivo per distrarmi, trascorrendo le giornate registrando questi nuovi brani.
Sarà comunque un disco dove la priorità andrà alla parola Musica, a prescindere dai generi.
Mi sono divertito tanto a scrivere con la chitarra acustica, come era già accaduto per “Detachment” con i Barock, e mi sono divertito ancora una volta a confezionare la musica intorno alla mia voce.
Per questo disco mi sono voluto imporre delle regole e dei limiti, il primo e più importante è stato il non dover dipendere da nessuno, viste alcune vecchie esperienze. Perciò mi sono arrangiato totalmente a suonare tutti gli strumenti. C’è del folk, del pop, del sinfonico… ci sono un po’ di tanti generi e per me questo è il vero Progressive. Ma se intendi il Prog nello stile che scrivo per i Barock, quello non c’è.
Sei stato in tour con Alberto Camerini, hai suonato e/o collaborato con Vittorio De Scalzi, Ricky Portera, Durga McBroom, Giorgio Usai, Maurizio Solieri e tanti altri ancora (tra cui numerosi jazzisti). Ma quanto ti hanno “aiutato” queste collaborazioni nel tuo percorso artistico e cosa hai “rubato” ad ognuno di loro? Chi ricordi con più affetto?
L.Z.: Di sicuro ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa di importante.
Con Vittorio De Scalzi ho passato una bella giornata nella sua casa in Toscana e mi ha raccontato tante belle storie. Con Ricky Portera ho trascorso alcune bellissime avventure, tra le quali una oltre i confini di stato che ricordo con tanta simpatia e parecchie risate. Fra l’altro dovevamo trovarci a mangiare una carbonara, ma poi, a forza di rimandare, è arrivato il lockdown (mi sa che ce la mangeremo un po’ fredda). Con Alberto Camerini sono stato in tour tra il 2007 ed il 2009 e posso affermare con certezza che è stata una delle più belle persone che abbia mai conosciuto. Sicuramente mi ha insegnato cosa significhi la generosità. Per la cronaca, contro ogni mia più lontana previsione, non ho mai conosciuto così tante ragazze come quando suonavo con lui.
Posso dirti che tra le persone che mi hanno lasciato di più a livello musicale-personale nel tempo sono stati indubbiamente Patrick Djivas e Franz Di Cioccio.
Tra i jazzisti cito Marcello Tonolo, Guido Manusardi, Garrison Fewell e Rachel Gould che sono stati i miei maestri durante la mia formazione come pianista jazz durante i seminari in giro per l’Italia parecchi anni fa.
Da Durga, invece, ho imparato sicuramente cosa significhi avere un camerino ben allestito e fornito.
Con altri che hai citato ci sono stati indubbiamente incontri sul palco insieme, ma che si sono limitati, appunto, a restare tali sopra di esso e niente di più.
Marco, anche la tua vita artistica è piuttosto intensa: sei insegnante, polistrumentista, produttore e arrangiatore, hai prestato la tua arte quale session player a vari artisti, suonato su navi da crociera e ho letto sul web che hai partecipato a X Factor con la band Borghi Bros. Mi parli, dunque, un po’ del Marco lontano dai Barock Project?
M.M.: Prima di tutto non ho mai partecipato a X Factor! Ho suonato per qualche anno con la band Borghi Bros dopo che loro sono usciti dal talent. In realtà, forse solo il primo anno con loro ho suonato spesso i loro brani, dopo è diventata più che altro una cover band. Alessio Borghi in particolare è un ragazzo molto talentuoso e pieno di idee, da allora lavoro con lui sia nella sua scuola privata sia in qualche scuola elementare in cui insegniamo musica ORFF, attività che mi ha preso molto. Per quanto riguarda altre collaborazioni è semplicemente una parte di quello che è il nostro lavoro, anche gli altri ragazzi della band hanno collaborato con tanti, in particolare ho apprezzato la collaborazione con Marco Dieci, storico musicista e compositore per Pierangelo Bertoli, e l’aver suonato con Dudu Morandi dei Modena City Ramblers, persona alla mano e dalla grande sensibilità.
Alex, anche tu non scherzi in fatto di impegni artistici (come hai già accennato prima): dal Prog Metal degli Ophiura all’AOR della Michele Luppi Band passando per il tributo ai Queen con i Queen & The Choirs e altro ancora. Stessa domanda anche per te, mi parli un po’ dell’Alex lontano dai Barock Project?
A.M.: Sì, effettivamente c’è tanta carne al fuoco. Prima della pandemia era tutto un “tetris” per fare coesistere tutte queste bellissime realtà, adesso è tutto un po’ congelato in attesa della ripresa dei live.
Sai, gli Ophiura sono una band che si è dovuta fermare per le esigenze lavorative di tutti i componenti, ma sto pianificando il ritorno; prima devo terminare l’album degli Alex Mari & The Lovers… Ci siamo quasi. Il “ci siamo quasi” è rivolto anche alla mia grande fiducia di tornare presto live, cosa che manca da morire soprattutto a livello emotivo.
Al momento mi sto dedicando all’insegnamento, al raggiungimento della laurea in conservatorio, allo sport e ad altro collegato al mondo del benessere.
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
L.Z.: Io spero vivamente in un cambio di rotta. Sarebbe il momento in cui il mestiere di musicista venisse riconosciuto quanto tale, che venisse rispettato, in primis dal musicista stesso, e retribuito in maniera dignitosa per chi come noi è professionista e porta qualità.
Vorrei che la si smettesse con il “Quanta gente mi porti?” e il “Ti faccio suonare nel mio locale, però ti pago con un panino ed una birra”. Vorrei che certi locali, così come certi produttori, la smettessero finalmente di approfittarsene degli artisti.
Voglio immaginare un futuro dove si investa nei concerti di qualità, nella cultura, dove ci sia educazione all’ascolto. Ma il mio pessimismo innato mi tiene a bada e vedendo quanto spettacolo di discutibile qualità si sia dato sui balconi all’insegna dell’“Andrà tutto Bene”, posso dirti che non vedo dei buoni presupposti e dunque la vedo grigia.
M.M.: Di sicuro non in streaming. Le emozioni che si provano a un concerto, sia per gli ascoltatori che per i musicisti, ancora non possono essere digitalizzate e sinceramente credo che mai lo saranno. La musica è solo uno dei tanti settori colpiti, questa situazione avrà un impatto sulle nostre vite non indifferente. Mi piace pensare che tutto questo possa farci riflettere sul rapporto umano e che ci faccia dare più valore alle relazioni umane.
A.M.: Io non so come andrà sinceramente, ma credo che tutto dipenderà da un’attitudine collettiva e voglio citarti A. Einstein, “Se continui a fare quello che hai sempre fatto, continuerai ad ottenere quello che hai sempre ottenuto”, e W. James, “Agisci come se quello che fai facesse la differenza: la fa!”.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?
L.Z.: Vuoi che ti racconti di quella volta che nel pieno centro di Tokyo un taxi se ne andò con la mia valigia? Ero appena sceso da quel taxi, in mezzo al traffico, e l’organizzazione si era occupata di pagare per me.
Chiusa la portiera, ringraziai il tassista, il quale se ne partì subito dopo tranquillo nel traffico.
Qualche istante dopo realizzai che avevo lasciato la mia valigia nel suo baule, ma ormai il taxi non si vedeva più. Dovetti correre all’impazzata sperando di ritrovarlo. Fortuna volle che lo rintracciai un paio di isolati dopo fermo al semaforo. Bussai al finestrino come un disperato e tentai di fargli capire in qualche modo che avevo lasciato la valigia nel suo baule. Per fortuna riuscì a capirmi, scese dalla vettura, aprì il baule veloce come un lampo e mi riconsegnò la valigia.
Ero dall’altra parte del mondo e avevo tutto lì dentro, in quella valigia…
M.M.: Sempre in Giappone, siamo arrivati in hotel dopo 13 ore di volo, con la testa spappolata dal fuso orario, avevamo appuntamento alle 13:00 in reception per discutere alcuni dettagli di un concerto e quando alle 13:02 due di noi mancavano all’appello, mi hanno chiesto di chiamarli per sentire se stavano bene. Per noi italiani gli orari sono sicuramente più soggetti a interpretazione…
A.M.: Siamo in tour in Inghilterra, in hotel, e Francesco, Luca ed io stiamo giocando a biliardo a fianco della hall. A pochi metri da noi si trovano diverse persone: chi seduto a consumare un tè caldo, chi attende di fare il check out e chi semplicemente di passaggio. Tutto in pieno stile british, molto posato.
Di punto in bianco Francesco, sovrappensiero, esplode in un rutto roboante, di un’intensità tale equiparabile ad un jet in decollo. Attimo di gelo. Luca ed io ci guardiamo allibiti ed increduli mentre la gente ammutolita si gira verso la sorgente sonora cercando di capire. Francesco si rende conto dell’accaduto ed esplode a ridere (e noi con lui). Lacrimanti e senza fiato dalle risate ci nascondemmo dietro alle colonne della stanza.
E per chiudere: c’è qualche novità sul prossimo futuro dei Barock Project che vi è possibile anticipare?
L.Z.: Per il momento non abbiamo progetti insieme. Mi piacerebbe dirti il contrario, ma bisognerebbe chiedere prima al signor Covid quando ha in programma di levarsi di torno.
A.M.: Esattamente come dice Luca.
Grazie mille ragazzi!
L.Z.: Grazie a te!
M.M.: Grazie a te.
A.M.: Grazie, un abbraccio a te e a tutti i lettori.
(Marzo, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)
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