«Tonino dice che stamattina ha già comprato il pesce».
«Come, come, come? E da chi?».
«Da uno nuovo».
«Uno nuovo a casa mia? E andiamo dall’amico Tonino».
Abbandonata la propria dimora, un interessante “reperto” di archeologia dell’architettura, con la sua complessa ed affascinante stratigrafia ben distinguibile nella facciata in pietre irregolari, e superato l’edificio ecclesiastico della Confraternita di San Domenico, nel pieno centro storico di Castiglione del Lago, il trio attraversò a passo lento l’intera Via del Forte, dando le spalle alla rocca medievale che, anche se occultata dall’antistante edificio ospedaliero, lasciava percepire tutta la sua imponenza sulle acque del Lago Trasimeno.
Raggiunta Porta Senese, l’elegante figura di Paolo Tirsi, sessantuno anni ottimamente celati al mondo esterno grazie ad un viso ben curato, i folti capelli argentei, corti e impeccabili, e gli occhi verdi e svegli, si fermò ad osservare il paese che si apriva davanti a sé. Poi, appena varcato l’arco in muratura, s’avvicinò alla berlina nera parcheggiata nei pressi dello stesso mentre il suo fine abito in tessuto Solaro, colpito dai raggi del sole, restituiva il classico effetto cangiante.
Ad aprire lo sportello ci pensò Claudio, uno dei due angeli custodi che sorvegliavano sulla sua vita giorno e notte. Il viso aspro, la mascella squadrata, il naso prominente e gli occhi piccoli e neri, erano solo i particolari più evidenti dell’appendice superiore di un corpo massiccio, a malapena contenuto in un abito gessato nero. L’altro, Stefano, era una sorta di gemello, date le sue peculiarità simili in fatto di fisico e volto rude. Quest’ultimo era l’autista.
Superate Via del Rondo e Via XXV Aprile, transitando accanto a sparuti gruppi di turisti, l’auto s’immise su Via del Pozzino, una ripida discesa che restituiva una meravigliosa vista sul lago. Alla fine del pendio svoltarono a destra su Via Lungolago, strada che abbracciava tutta la costa orientale del piccolo agglomerato urbano incastonato sul piccolo promontorio, abbarbicato stretto alla Fortezza.
«Carissimo Tonino, buongiorno».
«Buongiorno Don Paolo. A cosa devo la sua visita?».
«Dimmelo tu».
In pochi minuti avevano raggiunto il ristorante “Il Lago d’oro”, nei pressi del piccolo molo da cui era possibile imbarcarsi per raggiungere l’Isola Maggiore.
L’uomo sulla quartina, al momento intento a sistemare i tavoli in vista dell’apertura ad ora di pranzo, ebbe un fremito. Poi disse timoroso: «È-è per il pesce?».
«Bravo Tonino. Allora, dimmi, cos’è questo spiacevole malinteso?» domandò pacato.
«Ecco, vede, stamattina, poco dopo esser giunto al mio ristorante, sono arrivati quei tre ragazzi. Mi hanno proposto del pesce appena pescato. Li conosco da anni e ho pensato che, vista la giovane età, una mano gliela si poteva dare».
«Un bel pensiero ma, lo sai, qui a Castiglione, prima di pensare è meglio chiedere. A me».
«S-sì, domando scusa».
«Per questa volta chiuderò un occhio» dichiarò Paolo Tirsi con un sorriso ambiguo, colpendo la guancia dell’uomo con una piccola serie di buffetti. Poi uscirono, non prima di aver ottenuto i nomi della concorrenza.
«Venite un po’ qua voi».
«Come, scusa?».
«Ho detto venite qua» e Claudio alzò il tono della voce lasciando percepire completamente il suo vizio del fumo.
La mattina seguente, mentre il sole stava lentamente spuntando dietro le alture della sponda orientale del Lago Trasimeno, la berlina nera, con a bordo Tirsi e i suoi uomini, raggiungeva la passerella secondaria che si sviluppava per diversi metri nel bacino lacustre, a pelo d’acqua, non distante da quella ufficiale del molo.
«Da dove spuntate fuori?» domandò affabile Tirsi appena i tre furono a pochi metri.
«In che senso, scusa?» chiese il più alto dei tre, Matteo.
«Queste acque sono le mie. Chi vi ha dato il permesso di pescare?».
«Le tue? E da quando?» ribatté sfrontato il giovane, trent’anni, longilineo, viso scarno e capelli chiari.
«Da sempre».
Intanto Tirsi non mancò di notare che, sulla stretta striscia di cemento che avanzava nel lago, i ragazzi avevano poggiato alcune cassette in plastica colme di pesci. L’imbarcazione, invece, era legata ad una dei radi paletti in legno posti ai lati dello spazio calpestabile.
«Voi siete i figli di Arturo Bessi?» chiese Paolo Tirsi avvicinandosi al portavoce.
«Sì».
«E come sta vostro padre? Riesce ancora a camminare con una gamba sola? Brutto incidente».
«Nostro padre è morto due mesi fa».
«Oh, peccato. Condoglianze vivissime».
Il ragazzo lo fissò torvo mentre, alle sue spalle, i due fratelli minori ascoltavano in silenzio con un crescendo di preoccupazione.
«Comunque mi siete simpatici. Per questa volta lascio passare» e gli assestò un buffetto sulla guancia.
«Ma la vostra attività di pesca finisce qui».
«Ciao Filippo, come va?».
«Wè, Matteo! Bene, grazie. Come mai qui con i tuoi fratelli?».
«Affari».
La notte seguente all’incontro con Tirsi, i tre fratelli Bessi, noncuranti dell’avvertimento, erano tornati in acqua e ora, erano appena passate le nove di mattina, si trovavano presso il ristorante “La buona forchetta”, sulla sponda sud del paese, non distante dal molo turistico e dal centro velico.
«Guarda, Matteo, purtroppo devo dirti di no. Ho già il mio fornitore» rispose sincero Filippo dopo aver ascoltato la proposta.
«Paolo Tirsi, vero?».
Il ristoratore non replicò.
«Anche tu sei vittima di quello stronzo» disse duro Matteo.
«Io non voglio rogne, quindi devo chiedervi di andare via. Devo lavorare» e li accompagnò con poco garbo verso la porta.
«I ragazzi l’hanno rifatto».
Dopo il primo tentativo infruttuoso, i tre fratelli provarono l’approccio con altri due locali. Senza risultati, eccetto uno: la voce era giunta a Paolo Tirsi.
«Ma perché, ciclicamente, questo paese deve avere i suoi martiri?».
L’uomo, dopo aver lasciato la sua poltrona nell’ampio salone al secondo piano dell’antica dimora, si portò verso il tavolino dei liquori, oggetto che aveva “preso in prestito” da uno dei vari film americani su uomini di malaffare che amava tanto. Scelse la bottiglia giusta per l’occasione, brandy Baron de Sigognac 50 Year Old, e ne versò un bicchiere.
Nella stessa stanza, i due uomini di fiducia attendevano ordini.
Bevve un sorso, lentamente. Poi disse: «Sapete cosa fare».
Era da poco passata mezzanotte e un uomo solitario camminava a passo adagio nel centro storico di Castiglione del Lago. Paolo Tirsi.
Diretto verso Est, l’uomo raggiunse il Palazzo della Corgna, la piccola reggia della famiglia omonima che governò il marchesato di Castiglione del Lago dal 1563 al 1647, divenuto in seguito ducato dal 1617.
L’uomo s’arrestò nei pressi del portone. Poi, senza fretta, estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi, ne individuò quella giusta e la inserì nella serratura. Tre scatti, infine, spinse ed entrò.
Con sicurezza Tirsi attraversò alcune delle sale del palazzo che, tra le sue ricchezze artistiche, conservava anche affreschi del Pomarancio, sino a raggiungere il passaggio “nascosto” che collegava direttamente alla rocca medievale. Una volta utilizzato dagli abitanti del palazzo e dagli armigeri, quel percorso ora era la via d’accesso impiegata dai turisti per spostarsi tra i due edifici.
Raggiunta una delle due torri circolari poste agli angoli della struttura fortificata dalla forma di pentagono irregolare, quella più vicina alla famosa Rocca del Leone, un’altra delle torri nota per la sua pianta triangolare, senza mai perdere il ritmo, l’uomo proseguì lungo il camminamento merlato, respirando compiaciuto l’odore di umidità e storia che impregnava ogni singola pietra di quell’edificio.
Giunto sull’altra torre circolare, quella che dava direttamente sul lago, si fermò. Appoggiati i gomiti sul piano che si apriva tra due merli, iniziò a contemplare le silenziose acque.
Trascorse oltre mezz’ora avviluppato da quella quiete e, d’un tratto, mentre la leggerissima brezza proveniente dallo specchio d’acqua lo raggiungeva in viso, vide un bagliore provenire dal lungolago.
Sorrise soddisfatto e tornò a casa.
«Dobbiamo parlare con lui».
«Andate via, ragazzi».
«Avete incendiato la nostra barca stanotte! Brutti bastardi!».
Quella mattina i ragazzi andarono a pesca verso le cinque. Troppo tardi. Della barca restavano solo pochi frammenti carbonizzati.
Dopo aver smaltito la rabbia, Matteo, seguito dai poco convinti fratelli, Franco e Lino, aveva raggiunto l’abitazione di Tirsi. A sbarrargli la strada dal preteso incontro, all’ingresso dell’edificio, uno dei due angeli custodi: Claudio.
«Non so di cosa parli, ragazzo. E ora andate via, prima che le cose si mettano male. Per voi, s’intende» e fece un passo in avanti gonfiando il petto.
Matteo non arretrò.
«Che succede qui fuori?». La voce di Tirsi arrivò dalla finestra del piano di sopra. Il battibecco lo aveva raggiunto sin dal nascere.
«Niente di particolare. Tre ragazzi di passaggio cui è venuta meno la voglia di vivere una vita in pace».
«Ah, la gioventù».
«Io direi che può dirsi conclusa la nostra attività di pesca».
Fu Lino a trovare il coraggio di esprimere ad alta voce quel pensiero, appena rientrati a casa.
«Neanche per sogno» rispose duro Matteo.
«Ma perché insisti tanto? Io la fine di papà non la voglio fare» disse con voce rotta Franco, il più piccolo dei tre.
«Qui nessuno farà la fine di papà».
Matteo fissò i due fratelli. Dopo la morte del padre, lui e Lino erano rientrati a Castiglione del Lago, lasciando temporaneamente l’Università di Perugia. Franco, invece, era sempre rimasto a casa, accanto alla figura paterna. L’unica donna di casa era scomparsa da oltre dieci anni.
«Sì, ma non possiamo metterci contro Tirsi. Proviamo a trovare un accordo con lui» propose Lino.
«Nessun accordo con quel pezzo di merda. Io voglio pescare nel mio lago. E lo farò» disse Matteo senza smuoversi minimamente dalla sua posizione.
«E come? Non abbiamo più una barca».
«Ti sbagli. C’è la vecchia barca del nonno».
«E galleggia ancora?» chiese perplesso Lino.
«Galleggerà».
«Guarda un po’ chi si rivede. Cosa vi avevo detto?».
La voce di Paolo Tirsi li colse alla sprovvista mentre stavano per lasciare la passerella ed addentrarsi nel lago. Erano le quattro di notte.
«Lasciaci lavorare» rispose cocciuto Matteo.
«Forse la cosa non ti è chiara, ragazzo?» e uno degli uomini di Tirsi, Claudio, con due ampi passi si portò a pochi centimetri dal volto del ragazzo.
«Qui non si pesca. Capisci? Non si pesca» aggiunse spintonandolo verso i fratelli.
«Calma, calma. I ragazzi li vedo svegli. Stanotte avevano solo voglia di farsi una bella pescata in compagnia, vero? Pesce fresco per una grigliata in campagna, vero?».
«Ti sbagli» ribatté aspro Matteo.
«Peccato. Pensavo davvero di avere ragione. Vediamo allora se lui sarà capace di tornare di nuovo nelle mie acque» disse beffardo Tirsi indicando, con un cenno del capo, la figura di Lino.
I due angeli custodi lo bloccarono in un lampo.
«Cosa volete farmi?!» urlò terrorizzato il ragazzo.
«Lasciatelo!» urlarono all’unisono gli altri due gettandosi verso gli aguzzini.
La loro reazione fu rapida. Un paio di pugni ben assestati e i ragazzi furono a terra, doloranti.
Claudio, allora, afferrò la gamba destra di Lino e la distese con forza poggiando il piede su uno dei paletti in legno che correvano accanto alla passerella. Poi premette con tutto il suo peso per immobilizzarlo.
«Ehi tu, eroe. Alza lo sguardo» disse Tirsi rivolto verso il più grande dei fratelli Bessi.
Stefano diede una rapida occhiata agli spettatori, poi, all’improvviso, piombò pesantemente con il proprio anfibio taglia 45 sulla rotula del ragazzo. La gamba reagì piegandosi in modo innaturale, quasi chiudendosi a portafoglio.
Le urla sprigionate dalla gola di Lino furono disumane.
«Voi Bessi non cambierete mai».
«Ciao papà. Com’è andata oggi?».
«Ciao Matteo. Bene, per fortuna» e sorrise al figlio.
Erano trascorsi quasi quindici anni da quel giorno. Come ogni mattina, Matteo, prima di recarsi a scuola, raggiungeva suo padre sul lungolago al ritorno dalla pesca notturna.
«Buongiorno Arturo. Che abbiamo oggi?».
Quella voce sconosciuta lo sorprese alle spalle. Era Paolo Tirsi.
«Solito» rispose freddo suo padre.
«Bene, bene. Ah, mi spiace ma da oggi il prezzo s’abbassa. Sai, logiche di mercato».
«Logiche del tuo mercato. E allora facciamo così, da oggi il mio pesce lo vendo per conto mio» rispose audace Arturo.
«Bella battuta. Forse, però, non hai ancora capito che qui comando io».
«Lasciami in pace. Con te ho chiuso».
«Chiuso? E allora vediamo se così ti passa la voglia di fare l’eroe» e fece un cenno col capo ai fidi accompagnatori.
I due, rapidamente, afferrarono l’uomo. Claudio abbrancò la gamba destra di Arturo e la distese con forza poggiando il piede su uno dei paletti in legno che correvano accanto alla passerella. Poi premette con tutto il peso per immobilizzarlo.
Un attimo dopo, l’anfibio taglia 45 di Stefano piombò pesantemente sulla rotula dell’uomo. La gamba reagì piegandosi in modo innaturale, quasi chiudendosi a portafoglio.
Matteo assistette alla scena pietrificato.
«Come stai?».
Dopo essere rimasto in “sospensione” per un paio di minuti, rivivendo la scena che portò all’abbandono dell’attività di pesca da parte di suo padre, l’urlo di dolore del fratello lo riportò nel presente.
Erano rientrati a casa da poco meno di mezz’ora, dopo aver trascorso lungo tempo in ospedale.
Lino non rispose.
Matteo lo fissò senza dire nulla. Poi, d’un tratto, s’alzò spostandosi in camera di suo padre. Ne uscì quasi subito stringendo tra le mani una pistola.
«Fammi passare».
«Oh, è tornato l’eroe».
«T’ho detto fammi passare!» urlò il ragazzo.
«Bello, forse non hai capito come funziona. Torna a casa o ti ci mando con le cattive».
«Tu non hai capito» disse con uno strano luccichio negli occhi, prima di estrarre la pistola e puntargliela a dieci centimetri dal viso.
«Calma amico. Non fare lo scemo».
«Apri questa cazzo di porta!».
Claudio si voltò lentamente ed aprì il portone.
«Fammi strada e non fare stronzate».
Al primo piano, i due incrociarono Stefano. Quest’ultimo li seguì senza protestare.
«Che succede?».
Paolo Tirsi, seduto sulla solita poltrona nell’ampio salone al secondo piano, vide entrare i suoi due uomini con le mani alzate. Le due figure massicce occultavano quella di Matteo.
«Allora?».
«Andategli accanto e non abbassate le mani» ordinò una voce ancora invisibile.
I due uomini eseguirono. Solo allora Tirsi riuscì ad incrociare lo sguardo della minaccia.
«Bessi?» domandò incredulo.
Il ragazzo fece un passo verso di lui.
«Ragazzo, cos’è questa messinscena?».
Matteo non disse nulla e, con una tranquillità quasi inquietante, puntò la pistola in direzione dell’uomo.
«Sei troppo un bravo ragazzo. Non spareresti mai» disse calmo Tirsi facendo un passo avanti.
«Stai fermo!».
«Dai, dammela».
«Un altro passo e sparo!».
L’uomo sorrise beffardo. Poi, lentamente, s’avvicinò ancora un po’.
Matteo mantenne la parola. L’esplosione lo colpì in pieno petto scaraventandolo sul pavimento.
I due uomini furono colti di sorpresa.
Il ragazzo si guardò intorno incrociando i loro sguardi. Poi, mentre i due si chinavano per soccorrere il proprio capo, Matteo corse via.
«Tu chiama un’ambulanza. Io vado a prenderlo» disse rapido Claudio notando la sua fuga.
Corse a perdifiato lungo Via del Forte sbucando in Porta Senese, poi virò a sinistra e si gettò lungo le scale che conducevano a Piazza Dante e, infine, ancora più in basso, verso Viale Garibaldi. Una quindicina di metri dietro c’era Claudio.
Sbucato sulla via, Matteo individuò subito la sua auto. L’aprì e, mentre l’altro si buttava sul parabrezza per bloccarne la fuga, mise in moto e partì scaraventandolo sull’asfalto.
L’uomo si rialzò immediatamente e, individuata una vettura che stava arrivando in sua direzione, si piazzò in strada a gambe larghe, gesticolando, costringendo il guidatore a fermarsi.
«Scendi!» e, aperto lo sportello, afferrò il giovanotto che era al volante e lo gettò in terra. Poi salì a bordo e iniziò a rincorrere Matteo.
Il fuggitivo, dopo aver superato la curva a gomito di Via XXV Aprile, era entrato nel lungo rettilineo di via Bruno Buozzi che conduceva, mutando più in là il nome in Via Soccorso, direttamente fuori dal centro abitato.
Claudio lo individuò molto presto.
Matteo lo riconobbe quando la sua vettura gli era quasi addosso. Accelerò ancora e, nei pressi della frazione Nardelli, svoltò, frenando di colpo, a destra, lungo il tratturo Località Croce. L’altro, per evitare l’impatto, sterzò ed andò oltre. In pochi secondi, però, gli era di nuovo dietro.
Le due auto proseguirono la propria corsa senza badare al fondo stradale irregolare.
D’un tratto, dopo aver svoltato più volte tra i vari tracciati di campagna, Matteo s’arrestò dinnanzi ad un cancello chiuso. Tentò di innestare la retromarcia ma, dietro sé, l’altra vettura era già giunta. Senza pensarci su due volte, saltò fuori dall’auto e si gettò sul cancello, dando il via alla scalata.
«Fermati bastardo!» urlò l’inseguitore.
Il ragazzo fu rapido e, con poche mosse, fu subito in cima, superò la sommità della cancellata e saltò giù.
La mole fisica non permise a Claudio di fare lo stesso. L’uomo, sconfitto, osservò il ragazzo oltre l’inferriata incrociando per un attimo, nel suo movimento di occhi, un’insegna colorata: Impianto riciclaggio rifiuti. Poi spostò nuovamente lo sguardo verso il giovane che correva furiosamente nel piazzale posto subito sulla destra, oltre quell’accesso.
Matteo si ritrovò la strada sbarrata da montagnole ignote, a prima vista invalicabili, coperte da teli verdi. Senza assicurarsi di essere ancora seguito, iniziò l’ascesa di una di esse.
Poggiò i piedi senza badare alla stabilità della superficie sottostante, superando i primi metri con estrema facilità. Poi, improvvisamente, il piano inclinato sotto i suoi piedi cedette. Il telo si lacerò e Matteo sprofondò ritrovandosi coperto sino alle caviglie da frammenti di vetro.
«Aiuto! Aiuto!» urlò in preda al panico mentre tentava spasmodicamente di uscire da quelle “sabbie mobili”.
E più si agitava, più i cocci di vetro lo trascinavano giù lacerando i suoi indumenti, le sue carni.
Claudio, impotente, osservò l’intera scena. Lo vide sparire lentamente inglobato da quella massa vitrea inerte che aveva preso inspiegabilmente vita.
Solo quando le grida provenienti dal ventre della montagna furono estinte, salì in macchina e tornò a Castiglione del Lago.
(pubblicato nell’antologia “Laghi e delitti”, Fratelli Frilli Editori, 2020)
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