Un caro benvenuto a Daniele Giovannoni (D.G.), Alessandro Cefalì (A.C.) e Alex Massari (A.M.): Karmamoi.
D.G.: Ciao Donato e ben trovati a tutti i tuoi lettori.
A.C.: Grazie! Ciao a tutti!
A.M.:Grazie e un saluto a tutti!
Diamo il via alla nostra chiacchierata con una domanda di rito: come nasce il progetto Karmamoi e cosa c’è prima dei Karmamoi nelle vite di Daniele, Alessandro e Alex?
D.G.: Il progetto Karmamoi nasce dall’esigenza di creare musica, di dare un suono alle nostre idee. I Karmamoi nascono nel 2008 e della line-up originale ne faccio parte solo io.
Prima dei Karmamoi c’è tanto studio e tanta musica al servizio degli altri. Tanti progetti, diversi tra loro, spesso condivisi con Alessandro ed Alex. Il suonare insieme per altri artisti ci ha permesso di
conoscerci, sia come musicisti che come esseri umani. Il ritrovarsi insieme nei Karmamoi è una conseguenza logica dei nostri percorsi artistici ed umani.
A.C.: Vedo i Karmamoi come una sintesi, veniamo tutti da background musicali diversi ma affini. I nostri percorsi musicali si sono incrociati sulla scena romana sin dai primi anni 2000. Abbiamo collaborato anche in progetti musicali precedenti e musicalmente diversi. I Karmamoi sono per me una naturale conseguenza dell’incrociarsi delle nostre esperienze.
A.M.: Faccio musica da sempre e con Daniele è capitato in passato di fare qualche lavoro insieme, ci siamo trovati da subito sia sotto il profilo musicale che personale e, successivamente, abbiamo collaborato ad alcuni progetti che erano forse lo spunto iniziale di quello che sarebbero stati poi i Karmamoi. Dopo esserci persi di vista per un po’, lui mi ha coinvolto di nuovo nel progetto Karma che, nel frattempo, stava prendendo forma e da “Odd Trip” non ci siamo più allontanati, in quell’occasione ho avuto modo di conoscere ed apprezzare anche il lavoro di Alessandro.
Karmamoi: come cade la scelta sul nome e cosa significa?
D.G.: Dunque, premettendo che la scelta del nome di una band è per me molto complessa, il nome Karmamoi nasce dalla felice intuizione di unire due parole: Karma e Moi. Karma, che ha appunto il significato di “Karma”, e Moi, che in dialetto salentino significa “Ora”. La cosa interessante è che nessuno di noi è di origine salentine, ma, non ricordo perché, eravamo a conoscenza del significato di “Moi”. Quindi “Karmamoi”, è un’esortazione al Karma, è facile da ricordare ed ha il vantaggio di avere anche un bel suono.
Il 2011 è l’anno del vostro esordio, “Karmamoi”, un lavoro non propriamente Progressivo. Mi raccontate la genesi dell’album?
D.G.: Il primo album, ascoltandolo ora, credo rispecchi ciò che eravamo, una band alla ricerca della propria strada. Questo album è figlio delle nostre esperienze precedenti alla nascita della band e ne risente inevitabilmente. Ricordo che cominciai a scrivere i brani e, pur sentendo la necessità di spingermi oltre, rimasi ancorato ad un certo cliché tipico del pop, che tra l’altro amo.
Secondo me in questo album ci sono spunti musicali davvero interessanti, ma la cosa più importante è che con “Karmamoi” abbiamo subito cercato un nostro suono, sempre e comunque riconoscibile. Il suono che abbiamo ora è la conseguenza logica di quello che avevamo nel 2011.
A.C.: Come accennavo prima, e come detto da Daniele, il nostro primo album è stato l’inizio di questa sintesi. Nel nostro primo lavoro si sentono ancora gli echi delle esperienze immediatamente precedenti, con sonorità più “pop” ed i testi in italiano. È stato l’inizio del percorso che poi ha portato i suoi naturali sviluppi.
Passano solamente due anni e siete già pronti con un nuovo lavoro: “Odd Trip”. Ascoltandolo si nota una certa differenza stilistica rispetto all’album precedente, un minor utilizzo della voce calda di Serena Ciacci e trame decisamente più hard (e Prog). Quando e perché avviene questa “svolta”?
D.G.: “Odd Trip” è la svolta musicale, è l’inizio del “viaggio strano” che ci ha portato fin qui. Essendo l’autore principale della band, decisi di proporre ai ragazzi del materiale completamente diverso dal precedente, perché sentivo che avremmo dovuto seguire le nostre anime musicali, ciò che era nelle nostre corde, più che un compromesso musicale. Inoltre, mi ero trasferito a Londra da un anno e credo che la frequentazione dell’ambiente musicale anglosassone abbia avuto un ruolo determinante nel nostro cambio di direzione. Se fai caso, però, il suono di “Odd Trip”, sebbene più duro, più Prog, è un’evoluzione del precedente. Quello che cambia davvero sono le composizioni, l’uso degli strumenti e della voce.
A.C.: È difficile identificare un “quando” e un “perché”, a mio avviso. Più che una svolta repentina è stata, secondo me, una naturale evoluzione, anche se veloce, verso qualcosa che in quel momento ci rappresentasse maggiormente.
A.M.: “Odd Trip” è l’inizio del viaggio che ci ha portato a “Room 101”, abbiamo sperimentato e azzardato, cercando una via che fosse soprattutto personale seppur carica delle esperienze di ognuno.
E qual è questo “strano viaggio” di “Odd Trip”? Dove vi ha condotto?
D.G.: Credo ci abbia condotto a conoscerci meglio, musicalmente parlando, ed alla consapevolezza che per andare oltre, avanti, bisogna non aver timore di farlo.
Facendo un passo indietro, “Karmamoi” presentava testi completamente in italiano. È solo il trasferimento di Daniele a Londra la causa di una “virata” verso l’inglese con il secondo album?
D.G.: Come dicevo, essendomi trasferito a Londra, ne ho inevitabilmente subito le influenze. Pur amando l’italiano come lingua, trovo l’inglese più adatto al nostro tipo di Prog che non è molto legato alla tradizione italiana, pur amandola. Poi, come dice Alessandro, avendo la necessità di muoversi anche fuori dall’Italia, l’inglese ne agevola il compito.
A.C.: Ogni lingua ha una sua musicalità, mi piace il suono della lingua italiana. Probabilmente, però, l’inglese si sposa un po’ meglio col nostro stile musicale. Inoltre, si sentiva la necessità di muoversi anche fuori l’Italia, la lingua inglese agevola certamente questo percorso.
L’ottimo riscontro della critica ricevuto con “Odd Trip” vi porta a condividere il palco con Curved Air e Lifesigns. Come ricordate quelle esperienze?
D.G.: Bellissime esperienze, bei palchi e grandi musicisti. Ho sempre creduto nel confronto musicale, mai nella competizione, e l’esserci confrontati con band già affermate, ci ha permesso di capire cosa fare per migliorare e crescere.
A.C.: Ho un bellissimo ricordo delle prime esperienze all’estero su palchi importanti. Sono stati momenti fondamentali per il nostro percorso, confrontarci con realtà musicali che erano in quel momento più consolidate delle nostre, secondo me ha contribuito a chiarirci ancor meglio la strada che dovevamo seguire.
A.M.: Sicuramente con piacere, eravamo curiosi di capire quanto di quello che stavamo facendo potesse funzionare sul palco e il confronto con nomi importanti era da un lato motivante e dall’altro impegnativo. Credo sia fondamentale per ogni band questo passaggio.
Il periodo che segue vede la band vivere alcune “turbolenze” interne. Come mai la formazione si “riduce” a tre elementi?
D.G.: Sai, le band sono complesse, hanno meccanismi fragili che prevedono l’alchimia e l’emozione come elementi fondamentali. Negli anni, la vita ci porta ad avere priorità diverse e a quel punto bisogna avere l’intelligenza di comunicarlo agli altri. Quando i nostri compagni hanno deciso di abbandonare la band, ne abbiamo parlato ed abbiamo accettato la loro decisione serenamente. Siamo ancora amici e loro sono i nostri primi fans. Non abbiamo avuto “turbolenze”, semmai ne abbiamo approfittato per capire definitivamente che il trio era, ed è, il numero perfetto per i Karmamoi.
A.C.: La sintesi di cui parlavo prima è arrivata col tempo. Una band, così come la musica, è fatta di sintonie, frequenze affini. I Karmamoi hanno trovato il loro equilibrio stabile con i tre elementi attuali, anche se, in realtà, non ci sono mai state forti “turbolenze”, negli anni si è chiarito un percorso ed ognuno ha deciso se seguirlo o no.
A.M.: Sono d’accordo con Daniele e Alessandro, nessuna particolare turbolenza, ma una ricerca di equilibrio che ci permettesse di lavorare in modo produttivo e rilassato.
Ed è appunto in trio che nel 2016 pubblicate il nuovo album “Silence Between Sounds”. Com’è cambiato (se lo è), dunque, il vostro modo di comporre musica con una formazione più “snella”?
D.G.: Già a partire da “Odd Trip” le distanze logistiche tra noi le avevamo azzerate grazie ad un uso smodato di internet. Il nostro modo di condivisione è lo stesso anche ora. Io mando il provino del brano, si comincia a lavorare, ognuno con il proprio strumento, e ad affinare le varie parti fino a giungere alla sintesi, al cuore del brano stesso. La vera cosa interessante in “Silence Between Sounds” è che abbiamo coinvolto quattro differenti cantanti soliste per la realizzazione dell’album, fatto raro per una band. La nostra è stata una scelta ponderata, abbiamo voluto mettere la musica al centro piuttosto che i suoi interpreti ed esecutori.
A.C.: Negli anni, oltre a stabilizzarsi la formazione nel trio attuale, è cambiato il modo di lavorare. I percorsi personali ci hanno portato a vivere in città o paesi diversi, quindi non potevamo più essere la “garage band” dei primi anni. Daniele è sempre stato il motore compositivo, l’idea iniziale arriva da lui con la produzione, appunto, di un primo provino dei brani. A quel punto iniziamo a lavorare a distanza, ognuno di noi elabora e suona il brano a modo suo. Fondamentalmente ci scambiamo files finché non troviamo la forma e l’equilibrio che ci piace.
A.M.: “Silence” è la prosecuzione naturale di “Odd Trip”, dove abbiamo iniziato ad affinare alcune formule e a prendere consapevolezza che questo progetto poteva funzionare.
“Silence Between Sounds” esplora, cercando di capirle, le ragioni che stanno dietro il fallimento umano. Mi parlate un po’ della sua tematica e di come è stata sviluppata nell’album? E vi va di spendere anche due parole sul titolo, che io ritengo, nella sua apparente semplicità, davvero carico di poesia?
D.G.: Concordo, nella sua semplicità “Silence Between Sounds” è un titolo carico di poesia. C’è poesia nel silenzio, nella sua ricerca, e c’è poesia nei suoni, a patto che i suoni non diventino caos o rumore. “Silence Between Sounds” vuole esprimere la ricerca dell’armonia tra noi e quello che ci circonda, la capacità di sentire l’altro e quella di sentirsi profondamente. Una delle ragioni del fallimento umano è proprio l’incapacità di ascoltarsi, di ascoltarci, che ci fa alzare la voce fino ad urlare, rendendo tutto incomprensibile, solo rumore, credendo che chi urla di più e più forte sia il più ascoltato. Abbiamo perso di vista il silenzio, la sua ricerca, forse perché ne abbiamo paura. Noi abbiamo cercato di esprimere questo disagio prendendo in prestito stelle, pianeti e Platone e molte metafore.
Altre novità arrivate con il terzo album sono la serie di ospiti che ha partecipato alle registrazioni e la presenza di strumenti “nuovi” quali violoncello, pianoforte, flauto o clavinet. Com’è stato “aprire le porte di casa” a questi cambiamenti?
D.G.: Come dicono Alessandro ed Alex, la musica è apertura, occhi ed orecchie aperti verso il mondo. Sperimentare, accogliere aggiunge sempre colori e sapori nuovi alla musica, alla vita. Se potessi, salirei sul palco con un’orchestra ogni sera.
A.C.: Anche se lo “zoccolo duro” dei Karmamoi sono il trio base, nella nostra mente la musica ha tantissimi colori e molteplici possibilità. Credo che se fosse possibile, magari un giorno lo sarà, come “sognato” da Daniele, andremmo sul palco anche con un’orchestra intera!
A.M.: La collaborazione e la contaminazione sono, secondo me, parte integrante del fare musica e nel Prog questo aspetto è forse ancora più forte che in altri filoni musicali, tutto è venuto molto naturale.
E, per niente “stanchi”, nel 2018 tornate con un nuovo album: “The Day is Done”. Dopo l’esplorazione delle ragioni che stanno dietro il fallimento umano, ecco che l’analisi si sposta verso il mondo contemporaneo e i ritmi e i dolori della vita quotidiana, tutto espresso quasi come una forma di auto-psicoanalisi. Mi raccontate qualcosa sul suo contenuto?
D.G.: “The Day is Done” prende spunto dall’incendio della Grenfell Tower a Londra avvenuta nel 2017. All’epoca abitavo abbastanza vicino alla torre e potevo vederne le fiamme e sentirne l’odore acre del fumo. Leggendo le storie delle vittime rimasi colpito da quella di due fratelli siriani, fuggiti appunto dalla Siria per trovare rifugio in Europa. Uno dei due fratelli morì nell’incendio, mentre l’altro era in strada a vedere la torre bruciare, nell’impossibilità di fare qualsiasi qualcosa per aiutare suo fratello. Questo mi ha fatto pensare alla vita, alle sue stranezze e coincidenze. I due ragazzi erano fuggiti dalla guerra per trovare una vita di pace in Europa, ma un incendio nella grande Londra aveva devastato le loro esistenze. Abbiamo cercato di raccontare la loro storia, spostando poi l’attenzione sull’emigrazione, sulle sfide, sulle paure che chi fugge deve affrontare.
All’epoca, da poco più di un anno, era stata votata la Brexit e si stava procedendo per organizzare l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Si cominciava a discutere su chi avesse o meno diritto di vivere in Gran Bretagna. Puoi sicuramente vedere il senso dell’album come una sorta di mia auto-psicoanalisi.
Musicalmente parlando, ho notato la presenza di un elemento più etereo, direi sognante. Sbaglio o qualcosa, rispetto al passato, è cambiato con “The Day is Done”?
D.G.: Sicuramente l’album ha un suono più sognante rispetto al precedente, quasi ad accompagnare i “sogni” di chi fugge dalle guerre. È un suono in sintonia con le composizioni e l’argomento trattato. La ricerca sonora è costante, vogliamo progredire, migliorare, siamo dei fissati al riguardo, ed il lavoro con Mark Tucker è diventato simbiotico, progredisce con il tempo. Mark è un elemento fondamentale della nostra musica.
A.M.: Forse quella consapevolezza di cui parlavo prima in “The Day is Done” si è rafforzata e siamo stati ancora più in grado di comunicare in modo personale, dando anche un suono preciso al lavoro. In questo Mark Tucker ha sicuramente rivestito un ruolo fondamentale.
Una curiosità: in quest’occasione avete realizzato quattordici brani inserendo nel disco solo otto di essi. Quindi una domanda banale: che fine hanno fatto gli “scarti”?
D.G.: Ahahah! Bella domanda. Gli “scarti” non sono veri “scarti”, ma brani che non erano adatti ai temi trattati dall’album, ma sono belli, almeno secondo me. Onestamente ho provato ad usarne un paio anche per “Room 101”, uno addirittura lo abbiamo anche totalmente arrangiato, ma poi ho preferito desistere perché non lo sentivo in linea con il suono dell’album. Li utilizzerò sicuramente in futuro, …e questa è una minaccia… già stiamo pensando ad un nuovo album!
E durante il lockdown del 2020 avete trovato le forze per registrare un nuovo lavoro: “Room 101” (in uscita il 28 maggio 2021). Il concept è ispirato al romanzo di George Orwell “1984” e in esso, proseguendo sul tracciato iniziato con “Silence Between Sounds” (che definirei di “analisi umana”), “rivisitate” alcuni dei temi del libro adattandoli al presente, focalizzando l’attenzione sulla mente umana e le sue debolezze. Cosa vi ha affascinato dell’opera distopica di Orwell e secondo quale processo è diventato un album dei Karmamoi? Vi va, dunque, di presentare la vostra nuova fatica?
D.G.: “1984” è un romanzo che mi è rimasto dentro fin dai tempi del liceo. Mi affascinava e mi affascina la sua attualità, la previsione di Orwell di un mondo sotto costante controllo. Credo che la sua previsione sia di disarmante attualità e quando, ormai un paio di anni fa, stavo rileggendo il romanzo, ho ritrovato in esso tutti i mali dei nostri tempi. Il tracking, l’appiattimento della capacità di scelta e di critica attraverso la creazione, da parte di chi gestisce le nostre volontà, di nuovi bisogni, con lo scopo di renderci tutti uguali. Il sentirsi costantemente in “guerra” con qualcuno, la creazione di nemici sempre nuovi, l’innestare paura del diverso per renderci immobili. Il depauperamento del linguaggio, che impoverisce sempre più la capacità di esprimere qualsiasi pensiero. Senza le parole la capacità di pensare muore. La mancanza di pensieri critici rende la mente più debole e gestibile. Tutto questo mi ha spinto a comporre “Room 101”, e penso che se George Orwell fosse vivo, sarebbe spaventato da quanto fosse azzeccata la sua previsione.
Ho composto l’album tra novembre 2019 e luglio 2020 ed organizzare le registrazioni in studio è stato complesso a causa delle restrizioni dovute al Covid. Siamo stati bravi a fare una pre-produzione molto accurata e, a fine agosto 2020, quando siamo andati in studio, abbiamo registrato l’album in cinque giorni. Immagina che “Room 101” è composto da sette brani per una durata totale di un’ora, quindi una durata media di oltre otto minuti a brano. Le voci sono state fatte a Londra ad ottobre 2020 da Sara Rinaldi, ormai nostra collaboratrice da qualche anno.
Uno degli elementi che più mi attrae è il titolo, dedicato alla sala di tortura che utilizzano i funzionari del Ministero dell’Amore per eliminare qualsiasi forma di sentimento umano dei prigionieri. Come mai questa scelta?
D.G.: Beh, “Room 101”, la stanza della tortura dove vengono annientati i pensieri ribelli, e dove la mente viene ripulita e resa vergine pronta ad essere riscritta dalla propaganda e dalla demagogia del Grande Fratello e dei suoi funzionari, è l’emblema del romanzo ed è quello che personalmente temo di più.
Nel vostro percorso artistico, come definireste “Room 101”?
D.G.: Equilibrato nella sua estrema forza evocativa ed innovativa, almeno per noi. È un album che è diverso rispetto agli altri e che ovviamente risente delle tematiche trattate. Come dice Alessandro, “Room 101” è il nostro nuovo punto di partenza.
A.C.: Ogni album che vede la luce è lo specchio di un determinato momento. Quando si conclude un lavoro sembra di essere ad un punto di arrivo, che si trasforma poi inevitabilmente in nuovo punto di partenza. “Room 101”, a mio avviso, è in questo momento la nostra massima espressione a livello compositivo e di sound. Trovo che ci sia un bell’equilibrio nell’album, tanti “chiaroscuri” tra momenti aggressivi e momenti distesi e melodici.
A.M.: “Room 101” è molto diverso dai precedenti album, va in una direzione leggermente più hard e, nel suo altalenarsi tra sezioni più serrate e parti più rilassate, c’è una grande continuità del discorso musicale che mette in risalto una grande cura dei suoni da parte di Mark e un uso delle voci abbastanza nuovo per noi.
Caratteristica comune degli ultimi album (“Room 101” incluso) è la presenza di ospiti di un certo calibro. Da Mark Tucker (in qualità di produttore e ingegnere) a Colin Edwin e Geoff Leigh, passando per Adam Holzman, Steve Unruh, Francesca Zanetta e tanti altri ancora. Come nascono queste collaborazioni e come si sono svolte? Quanto, effettivamente, il loro “tocco” ha influito nella buona riuscita del lavoro?
D.G.: Penso che l’apporto di grandi musicisti sia un valore aggiunto alla musica, specialmente se gli artisti riescono a calarsi nel brano che stanno eseguendo. Nel nostro caso è stato così. I contatti sono stati semplici e diretti; ho semplicemente scritto un’e-mail presentando loro la band. Tutti quanti hanno chiesto di ascoltare i nostri lavori precedenti e poi hanno accettato di collaborare con noi. Una volta deciso, ci siamo confrontati sulle parti da suonare e devo dire che la disponibilità e il dialogo sono stati “disarmanti”. I più grandi sono i più umili e c’è solo da imparare da loro.
Con Mark la cosa è andata diversamente. L’ho conosciuto nel suo studio in veste di session drummer. Dopo la sessione è venuto da me facendomi i complimenti sul mio modo di suonare il brano, e non per me stesso. Da lì ho avuto modo di lavorare con lui per altre produzioni, consolidando il rapporto lavorativo ed umano. Poi, prendendo coraggio, gli feci ascoltare un paio di brani da “Silence Between Sounds” e lui mi disse che gli avrebbe fatto piacere missare l’album. Tu capisci, Mark ha lavorato con artisti immensi come i Jethro Tull, e saperlo interessato a lavorare per noi mi ha gratificato enormemente.
Con “Room 101”, Mark si è superato. Abbiamo sperimentato e lavorato in simbiosi. Mark è il nostro sound maker e, soprattutto, è mio amico, una splendida persona.
A.C.: L’intervento di un punto di vista esterno su un brano è per me un momento di arricchimento musicale. Per quanto riguarda il mio strumento, poter ascoltare il lavoro di Colin Edwin sui brani di “The Day is Done”, è stata una grande “scuola”.
Al netto di quanto detto sinora, quali sono, secondo il vostro punto di vista, i punti di contatto e le differenze sostanziali tra i vostri cinque album? E, in definitiva, come sono cresciuti e cambiati in questi quasi tre lustri di attività i Karmamoi?
D.G.: I punti di contatto sono sicuramente il suono, che negli anni ha subito le sue evoluzioni rimanendo, però, fedele alla nostra idea originaria, e la cura dei dettagli. La differenza sostanziale è la scrittura dei brani. Siamo passati da una scrittura “chiusa” legata al pop, ingabbiata dentro stereotipi prefissati, ad una totalmente aperta dove tutto può succedere, dove tutto è possibile a patto che, questo “tutto”, sia guidato dall’ispirazione, dall’emozione e non da calcoli matematici.
Credo, inoltre, che sia diverso il nostro approccio nell’uso degli strumenti all’interno della nostra musica, siamo più consapevoli di dove vogliamo arrivare e come raggiungerlo. In “Room 101” abbiamo fatto un lavoro sulle voci totalmente nuovo rispetto al passato. I Karmamoi migliorano con gli anni perché non hanno mai perso la voglia di sperimentare e di sorprendersi a farlo.
Vi va di spendere qualche parola anche sugli artwork che accompagnano i vostri lavori?
D.G.: Onestamente, penso che gli artwork siano stati fino ad ora il nostro tallone di Achille. Abbiamo sempre pensato molto alla musica, tralasciando erroneamente l’aspetto grafico. Con “Room 101” abbiamo rimediato a questa mancanza affidando la realizzazione dell’artwork a Joel Barrios, un’artista americano di origini cubane, che ha fatto un lavoro splendido, sintetizzando graficamente i temi presenti nell’album, dandogli un vestito e un colore unici.
Tornando sul tema concerti, come detto prima, fin da subito avete portato la vostra musica sui palchi esteri. Che idea vi siete fatti dell’attuale cultura musicale internazionale, del modo in cui il pubblico ne fruisce e dello spazio che si dedica alla musica dal vivo? E quali sono le differenze con il nostro Paese?
D.G.: Noi in Italia abbiamo problemi atavici con la cultura e, in particolare, con la musica. Servirebbero mesi di discussione e confronto per capirne le ragioni. Dal mio punto di vista, oltre alla carenza di spazi dove suonare, mancano manager inclini a “rischiare” e l’educazione all’ascolto. Il pubblico, se gli vengono proposte sempre le stesse cover band, vorrà ascoltare sempre e solo quelle, restando nel ghetto dell’“usato garantito”. È un cane che si morde la coda, i manager non rischiano, il pubblico non è abituato ad ascoltare le novità e se non si spezza questa catena sarà sempre peggio. Ci sono grandi talenti in giro per l’Italia, che, purtroppo, non vedranno mai la luce. All’estero la situazione sembra essere migliore. Si trovano spazi dove suonare e le persone sono, come dice Alessandro, più ricettive perché più abituate all’ascolto ed alle novità.
A.C.: Secondo il mio punto di vista, l’Italia purtroppo ha una carenza di spazi e di politiche che incentivino la musica dal vivo, soprattutto in ambiti non propriamente “mainstream” come il nostro. Questo porta, secondo me, il pubblico ad essere un po’ meno abituato a confrontarsi con novità musicali che non conosce. All’estero generalmente ho notato una maggiore curiosità e capacità recettiva del pubblico. Ovviamente con le dovute eccezioni.
E tra festival (da ricordare, tra le tante, le vostre esibizioni al RosFest e al Progressivamente Free Festival) e concerti “in proprio”, dove vi sentite più a vostro agio?
D.G.: I festival, per il contesto che li circonda, sono più rilassanti. Si arriva, si prova e si suona. Tutto diventa poi una sorta di happening musicale, c’è gioia. Si incontrano tanti musicisti, ci si confronta, si scambiano opinioni e poi il pubblico è lì per ascoltarti attentamente e non per mangiare una pizza. I palchi dei Festival, inoltre, sono sempre importanti.
Nei concerti in proprio c’è lo stress che tutto è sulle tue spalle, la gloria o il baratro. Personalmente sul palco non noto differenze perché quando suono cerco di dare tutto me stesso.
A.C.: Personalmente amo molto il contesto dei festival, mi piace confrontarmi con altre band. Il pubblico dei festival, soprattutto nel nostro ambito, sembra una grande famiglia. È un tipo di ambiente che mi fa sentire a mio agio anche sul palco.
A.M.: I festival sono forse le occasioni più motivanti, ti confronti con altre realtà, suoni su palchi più attrezzati e con tecnici più preparati e poi c’è sempre tanta bella gente che vuole ascoltare, conoscere e capire di più di quello che fai.
Visti i tanti concerti in Italia e all’estero, le recensioni positive e i riconoscimenti provenienti da ogni parte del mondo, come sono stati, dunque, accolti i vostri primi quattro album da critica e pubblico? E cosa vi aspettate per il nuovo lavoro?
D.G.: Dalla nostra svolta Prog, che, come dicevo, è avvenuta nel 2013 con “Odd Trip”, i nostri album sono stati accolti con un sempre maggior interesse, fino ad arrivare, con “The Day is Done”, ad importanti riconoscimenti. I primi ad esserne rimasti sorpresi siamo stati noi.
Con “Room 101” mi piacerebbe continuare su questa strada, migliorare e crescere ulteriormente. La mia speranza è che l’album sia accolto come un lavoro sincero e che riesca ad emozionare e a far pensare.
A.M.: Ci aspettiamo di continuare su questa strada e di fare sempre meglio.
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
D.G.: Discorso complesso. Io sono analogico per generazione, per natura e per attitudine mentale ma, per lavoro, mi devo confrontare quotidianamente con il web, soffrendolo.
Devo riconoscere che senza internet i Karmamoi non sarebbero esistiti, perché abitando in città diverse, non avremmo potuto avere l’occasione di essere una band, di scrivere musica, di registrarla. Senza il web non potremmo divulgare la nostra musica, farla conoscere ed apprezzare. Poi, però, servono i concerti e il contatto emozionale con le persone.
In un certo senso internet è democratico, permettendo a tutti di avere una voce, permettendo ai musicisti di farsi sentire ed apprezzare. Il problema è che l’abbondanza della proposta che c’è in rete possa rendere tutto piatto e indistinguibile, non permettendo ai più talentuosi di emergere. Il rischio enorme è che il web sostituisca la realtà, soprattutto per i più giovani, trascinando tutto quanto dentro un vortice dove poi definire i labili confini tra virtuale e reale diventa impossibile ed il vuoto, invece, molto probabile.
A.C.: Come un po’ in tutte le cose, ci sono pro e contro. Senza dubbio il web e i social danno una grande possibilità, non solo di promuoversi, ma anche di andare a vedere in che modo lavorano gli altri cogliendone idee ed ispirazioni. D’altro canto, la musica, i dischi ed i concerti si fanno nella vita reale. A volte, soprattutto per i più giovani, questo è un equilibrio difficile da mantenere. È facile cadere nell’idea che il successo su un social sia automaticamente anche un successo nella pratica reale e quotidiana della musica. Purtroppo (o per fortuna) non è affatto così.
A.M.: I social sono una realtà con la quale dobbiamo ormai convivere, nel bene e nel male, c’è una maggior possibilità di arrivare alla gente, ma anche una grande confusione per l’incredibile mole di materiale che viaggia in rete e diventa difficile, soprattutto per i giovani, riuscire ad orientarsi.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?
D.G.: Noi siamo una band orgogliosamente indipendente ed in questo c’è una scelta ben precisa, anche se faticosa. Vogliamo avere il controllo di tutto il processo produttivo, dalla composizione al rapporto con i fans, passando attraverso tutto quello che c’è in mezzo. Noi, come nel caso di “Room 101”, facciamo il pre-ordine, che se vuoi è una sorta di raccolta fondi, un paio di mesi prima dell’uscita dell’album, e questo ci permette di affrontare spese che altrimenti avremmo faticato a sostenere. Ora siamo fortunati, perché molti nostri fans acquistano l’album a scatola chiusa, ma abbiamo fatto un grande lavoro meritandoci la loro fiducia. Abbiamo, con chi supporta noi e la nostra musica, un rapporto molto stretto, che ha avuto bisogno di molto tempo e della reciproca conoscenza. La fiducia va conquistata. Ostacoli non ne vedo, se non nella nostra mente.
Qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?
D.G.: Il Prog Italiano ha una storia immensa. Il Prog Italiano moderno ha un grande problema, la sua storia. Ho una grande ammirazione per i Maestri del Prog, li ho ascoltati e studiati, ma spesso ho l’impressione che siamo ancorati al passato. La collaborazione è fondamentale, è un momento di crescita, e io ho la fortuna di collaborare con alcuni artisti che trovo pieni di idee, di voglia di sperimentare. Le difficoltà, spesso, nascono quando esci fuori certi canoni legati al suono del Prog Italiano degli anni ‘70. Questo, alla lunga, è un limite. Bisogna saper coltivare la tradizione, aggiornandola ed integrandola con nuove energie e nuovi suoni per poi progredire. Sono fiducioso che prima o poi ci si possa riuscire.
Gli spazi per suonare sono pochi, è il problema del quale parlavamo prima, ci sono però tanti appassionati che si prodigano alla divulgazione del Prog.
Esulando per un attimo dal mondo Karmamoi e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nel quotidiano?
D.G.: La musica, ovviamente, è l’amore della vita. La musica in ogni sua forma. Essere musicisti è uno stile di vita, un modo di vedere e vivere la vita. Per il resto, amo scrivere, è una sorta di auto-psicoanalisi. Riempire pagine bianche mi libera la mente.
A.C.: La mia sfera artistica si limita alla musica, però mi piace spaziare tra contesti e generi musicali diversi, quindi mi capita di collaborare frequentemente con musicisti provenienti da ambiti completamente diversi dal mio e da quello dei Karmamoi.
A.M.: La musica e la chitarra in particolare sono la mia vita da oltre trenta anni, tutto quello che gira intorno a questi due elementi mi appassiona e mi coinvolge.
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
D.G.: Ascolto di tutto e vado a periodi seguendo il mio mood. Oggi il mio podio musicale è composto da Ennio Morricone, immenso, Sting, grande, e Steven Wilson, per la sua capacità di cambiare e mettersi in gioco.
A.C.: Non ho un vero e proprio podio, non saprei indicare nemmeno il mio bassista preferito! Ho sempre avuto gusti eterogenei, quindi indicare un vero e proprio “podio” mi risulta molto difficile.
A.M.: Eh eh, domanda da un milione di dollari… Arrivo dal rock dei Settanta e dal blues, ma ascolto e ho suonato un po’ di tutto negli anni, non ho un podio ma, a distanza di anni, quando ascolto Hendrix ancora mi sbalordisco di quanto fosse avanti con i tempi e quanto abbia influenzato le generazioni seguenti.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
D.G.: Tutto Sepulveda, ma se dovessi sceglierne uno, “Il mondo alla fine del mondo”.
A.C.: Ogni tanto rileggo “On The road” di Kerouac, nonostante io non ami la vita sregolata questo libro per me contiene l’essenza della vita, della libertà e dell’assimilazione di esperienze diverse.
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
D.G.: A più di un anno di distanza dallo scoppio della pandemia, è ormai appurato che abbiamo imparato davvero poco, aumentando le distanze emotive, oltre che quelle sociali. Mi auguro che, quando tutto sarà finito, ci sia la voglia che ci fu dopo la Seconda Guerra Mondiale; quella voglia che ha portato il nostro paese non solo ad una crescita economica, ma ad una notevole crescita culturale.
A.C.: Spero che questo stop forzato porti ad una reazione, una sorta di rimbalzo, un interesse e una vitalità rinnovate. Forse sono troppo ottimista, staremo a vedere!
A.M.: Il pianeta ha dimostrato di non essere in grado di affrontare al meglio questa emergenza, troppi interessi economici hanno pesato in maniera determinante, spero anch’io che questo dia uno spunto di riflessione e che l’arte in generale ne giovi, se ricominciamo ad apprezzare il “bello” in qualsiasi forma si presenti forse ce la facciamo.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri anni di attività?
D.G.: In aereo, in viaggio verso gli Stati Uniti, eravamo così affamati che abbiamo mangiato anche i pasti dei nostri vicini di posto, al punto che l’hostess giapponese, con la sua educazione e il suo fare tipicamente asiatico, sorridendo educatamente, veniva da noi a chiedere se avevamo fame o sete anche fuori l’orario della distribuzione dei pasti. Praticamente ci aveva adottato.
E per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro dei Karmamoi che vi è possibile anticipare?
D.G.: Concerti, Covid permettendo, ed un DVD live.
Grazie mille ragazzi!
D.G.: Grazie a te. Un saluto a tutti.
A.C.: È stato un piacere!
A.M.: Grazie a te!
(Maggio, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)
Meravigliosa e ampia intervista.