A Dark Soul (2021)
Autoproduzione
Batterista al servizio del tempo e soprattutto della musica altrui: così si presenta Barbara D’Alessio (e leggendo il suo curriculum c’è solo da provare invidia!). E anche se di tempo da dedicare a se stessa ne resta poco, quel poco è sufficiente per concretizzare le proprie idee musicali.
Ecco allora A Dark Soul, un lavoro in cui si sentono tutte le sue esperienze, i suoi studi, le sue passioni, i suoi ascolti. Ed è così che ci si ritrova coinvolti in un percorso che attraversa numerosi “lidi sonori”, dal jazz al prog, dalla fusion alla musica elettronica, con quell’essenza “libera” che è tassello fondamentale di tutta l’opera, un flusso policromo che rivive anche nell’artwork creato dalla stessa Barbara (con il progetto grafico curato da Marco Gozzi).
Ma Barbara D’Alessio (batteria acustica ed elettrica, percussioni, piano) non è sola in questa avventura personale. Accanto a lei troviamo un gruppo di musicisti e cantanti che portano in dote tanta qualità: Jon Morras (tastiere, voce), Nicolò Steri (voce), Davide Faccioli (chitarre), Angelica De Paoli (voce), Alessio Grasso (chitarre), Pippo Matino “Pippomat” (basso) e Giampaolo Scrofani “Dust Blower” (tastiere, piano, chitarre).
Una sensazione che si muove tra Radiohead e Barbara Rubin ci dà il benvenuto nella title track di A Dark Soul. Poi entra in scena la calda voce di Steri, con un bell’ordito di tastiere e batteria a sostenerla sino all’apertura elegante e tirata in cui le ritmiche irregolari di Barbara D’Alessio si impongono nettamente ma senza “prevaricare” gli altri protagonisti del brano. E ancora si cresce di intensità sino quasi a raggiungere lidi The Mars Volta nel turbinio di colori che ci conduce verso la vivace conclusione dell’episodio d’apertura.
…Looking beyond / Through a wall / Around an idea / Something unreachable… Piuttosto ipnotico l’avvio di Through, con un gran lavoro di “ticchettio” della batteria e note centellinate di tastiera, un fluire che muta lievemente col trascorrere dei secondi per poi farsi più denso poco oltre, con D’Alessio e Morras che aumentano l’intensità dei propri colpi, e un elemento elettronico “disturbante” ad aggiungere un po’ di pepe al tutto. E nella seconda metà il brano esplode con tutta la sua carica jazz rock, a là Möbius Strip, prima di quietarsi lievemente.
Indole rock per la prima parte di Looking above the Clouds, in cui Barbara D’Alessio è costantemente in fuga, con tastiere e voce “alle calcagna”. Poi le ritmiche decidono che è ora di cambiare il passo e lo fanno ottimamente lanciando un frammento “irregolare” da cui il piano di Morras ne esce vincitore. Le battute finali “chiudono il cerchio”. […] I’ll hold my breath and I’ll let myself fall praying to remind me how to land.
Circles. Dopo alcuni secondi che lasciano immaginare uno sviluppo alla Depeche Mode, ciò che segue è qualcosa di magico alla Battiato degli ultimi anni, con le tastiere che descrivono paesaggi colorati e “altri” e le ritmiche ben incastrate nelle retrovie. Ma sono solo le prime battute ed ecco che, allora, Barbara (ben assecondata) spazza (temporaneamente) tutto via con un lampo jazz. E più avanti il quadro si fa ancora più particolareggiato, a tratti estraniante, con la padrona di casa totalmente libera, così come le tastiere di Morras. Un gran bel momento.
Evocativa, soprattutto nei giochi vocali di Angelica De Paoli e Jon Morras, la partenza di Gregorian, con quella piacevole sensazione alla Antony and the Johnsons. Un flusso luminoso che, poco oltre, “cade nelle tenebre” per poi uscirne rafforzato, prima di “sbattere” nello stupefacente guizzo di piano. Ciò che segue è una nuova “lettura” del momento corale, dapprima cupa, poi di nuovo brillante (così come pensata dalla padrona di casa: My idea of gregorian choral, adapted to an electric / dark sound).
L’impatto devastante di What We Are, con il suo intreccio frastagliato e riccamente progressivo, vale il prezzo del biglietto. Poi i suoni massicci, con il gran supporto delle ritmiche, ci conducono prepotentemente verso lidi Tool e/o Porcupine Tree. E come ogni brano di Barbara D’Alessio che si rispetti, c’è tanto da scoprire lungo il cammino ed ecco che, più avanti, tutto cambia nuovamente, diventando un po’ Instant Curtain, prima di ricominciare a ringhiare. E ancora variazioni seguono a variazioni condensando in poco meno di cinque minuti davvero tanta roba. Brava Barbara (e bravo Morras).
Tanta tensione nelle prime battute di Red Alert (brano dedicato alle vittime dell’alluvione che colpì Genova il 2 novembre 2011), in quella lotta tra soluzioni elettroniche “contrastanti” e giochi ritmici tirati. E anche se ciò che segue, per qualche attimo, è distensione, ben presto si riprende a correre sommando al tutto anche una chitarra nervosa, quella di Alessio Grasso (che poi prende in mano la scena elegantemente). E a seguire tutto è sospeso tra nervosismo e delicatezza.
Libertà totale. Non ci sono parole più adatte per descrivere The Piano Impro (e il titolo aiuta molto a comprenderne il motivo), free jazz puro, con piano, basso e batteria che seguono traiettorie proprie, incrociandosi a tratti ma senza “scambiarsi un saluto”, in piena libertà. Appunto. E anche se la sensazione, col trascorrere del tempo, si fa estraniante, il lavoro della coppia Pippo Matino “Pippomat” (al basso) e Barbara D’Alessio (piano, batteria elettronica ed acustica e percussioni) ne risulta godibilissimo e decisamente affascinante.
All the Loose Ends. Il brano che chiude A Dark Soul si pone in netto contrasto con l’episodio precedente (ma anche con buona parte dell’album). Elettronica alla Depeche Mode in apertura, poi momenti rockeggianti “leggeri” e avvolgenti, con tanto di cambio di passo. […] The hourglass is running out, time is never enough […].
Una piacevolissima scoperta.
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