Ipotesi di volo

«Prima volta?».
«No, terza. Lei?».
«Ho perso il conto» e sorrise.
Volo Roma-Londra, fila 8, posti A e B. Lui, accanto al finestrino, circa quarant’anni, abbigliamento piuttosto casual sulle tonalità del blu, viso e capello curato. Lei, posto centrale, poco più di vent’anni, pantaloncini e t-shirt bianchi, volto da adolescente, piercing al naso.
«Vai a Londra per lavoro?» domandò ancora l’uomo.
«Ci provo. Lei?».
«Affari».
Intanto, una voce registrata, coadiuvata dalla mimica del personale di bordo, aveva appena snocciolato, in inglese ed italiano, tutte le norme di sicurezza da seguire a bordo in caso di necessità, oltre al funzionamento della cintura, ed ora l’aereo era già sulla pista, pronto per il decollo.
Quando il velivolo si staccò da terra, la ragazza chiuse gli occhi e strinse forte le mani sulle gambe. L’uomo, con la testa poggiata al sedile, voltò di poco il capo per osservarla. Poi, sorridendo, riprese ad osservare dritto davanti a sé il foglio illustrativo affisso sul retro del sedile antistante che ripeteva, per immagini, quanto detto poco prima dalla voce.
«Puoi riaprire gli occhi».
«Grazie».
«Paura?».
«Solo un po’ in fase di decollo e atterraggio. Preferisco toccare il terreno con i miei piedi di solito» rispose lei osservando il profilo del compagno di viaggio.
«Concordo. Di certo sono le fasi più pericolose. Poi, una volta in cielo, solo un assurdo imprevisto, o un attentato, può buttarci giù».
Quest’ultima affermazione spiazzò la ragazza che aggrottò le sopracciglia e distolse lo sguardo dal suo interlocutore.
L’uomo fece una smorfia silenziosa e scosse leggermente il capo.
«E non mi chiedi se anch’io ho paura in volo?» continuò lui cercando di riconquistare la fiducia svanita con le ultime, crude, parole.
«Se proprio devo. Lei ha paura?» ribatté un po’ fredda la ragazza.
«Sempre, ma cerco di non mostrarla» e le sorrise paterno.
Lei accennò un sorriso finto a sua volta.
«Hai altre paure quando sei in aereo?».
«In che senso?».
«Non so, gli scossoni dovuti alle turbolenze, una possibile carenza d’ossigeno. Cose così».
«Certo, ma cerco di non pensarci e, se proprio dobbiamo proseguire la nostra chiacchierata, la prego di cambiare argomento» rispose con un tocco acido la ragazza.
«Non pensi, invece, che il modo migliore per affrontare una paura e sconfiggerla sia parlarne?».
«Lei è uno psicologo?».
«No, solo un uomo a cui piace parlare».
Lei si voltò per incrociare completamente il suo sguardo e fu colpita dal magnetismo emanato da quei due occhi scuri e profondi.
«Non so, mettiamo il caso io, d’un tratto, ti puntassi una lama alla gola e iniziassi ad urlare frasi senza senso, minacciando di ucciderti. Cosa faresti?».
La ragazza lo fissò sgranando gli occhi, provando una strana sensazione, quasi di paura, e rimase in silenzio per alcuni secondi. Poi, irrazionalmente, accettò di partecipare al “gioco”.
«Comincerei ad urlare anch’io dal terrore».
«E pensi serva per salvarti?».
«Sinceramente? No».
«Infatti. Accentueresti solo il mio stato d’animo alterato, senza risultati».
«E cosa dovrei fare?» domandò curiosa.
«Stare immobile e in silenzio. Tu non sei il mio obiettivo finale, forse potrei risparmiarti».
La ragazza si fermò a pensare, cercando di intuire la logica dietro quel ragionamento.
Il suo momento “sospeso” fu, però, interrotto dal passaggio del carrello delle bevande e la richiesta dell’assistente di volo, rifiutata con gentilezza.
«E se, invece, senza dare nell’occhio, ti dicessi che sono un dirottatore o un attentatore e che, da questo momento, devi fare ciò che ti dico per provare a salvare la tua vita e quella delle persone a bordo?» riprese l’uomo.
«Lei? Non le crederei» rispose la ragazza uscendo per un attimo dalla simulazione.
«E perché?» chiese stupito.
«Ha la faccia pulita di un uomo serio, forse è anche un padre di famiglia» disse lei convinta.
Lui sorrise benevolo, poi proseguì.
«Mettiamo comunque caso fosse tutto vero. Cosa faresti?».
«Urlerei per attirare l’attenzione».
«E pensi sia una cosa utile? Metti che, anche in questo caso, io abbia in mano una lama per ferirti».
«Proverei lo stesso. Se è un attentatore vuol dire che il suo piano è quello di uccidere tutti. Perché dovrebbe risparmiare la mia vita? Non è logico. Se salvasse me, di conseguenza salverebbe tutti senza poter attuare il suo piano».
«E se, mostrandoti il cellulare, ti dicessi che, una volta attivato lo schermo e premuto un tasto, s’innescherebbe la deflagrazione di una bomba preventivamente occultata nella stiva?» e, alle parole, seguì il gesto di portar fuori dalla tasca lo smartphone.
«Forse la supplicherei di ripensarci. Le direi di osservare i volti degli altri passeggeri, bambini, donne, ragazzi. Gente che merita di vivere, come me, come lei».
L’uomo la osservò riflessivo.
«Non so se ne avrei il coraggio, ma forse proverei anche a chiederle il motivo della sua azione, il perché voglia far saltare in aria l’aereo e mettere fine alla vita di centinaia di innocenti» aggiunse la ragazza.
Lui continuò a fissarla, silenzioso, mentre ricollocava lentamente il cellulare in tasca.
D’un tratto un segnale acustico, seguito dalla voce del comandante, annunciò l’inizio della fase d’atterraggio.
«Ci siamo. Tra poco entrerà in scena l’ultima tua paura di questo viaggio. Poi potrai ritoccare il terreno con i tuoi piedi. Spero solo di non averti spaventata con il mio “gioco”».
«No, è stato a suo modo interessante parlare con lei».
L’uomo sorrise soddisfatto, poi si voltò ad osservare il mondo fuori dall’oblò.

 

Da qualche altra parte nel mondo

«Notizie sul nostro martire? L’aereo non dovrebbe già essere saltato in aria?».
«Dovrebbe, ma…».
«Ma?».
«È appena atterrato».

(pubblicato nell’antologia “Figli di Icaro” – Idrovolante Edizioni, 2020)

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