IL TESTAMENTO DEGLI ARCADI
Il Testamento degli Arcadi (2021)
Lizard Records
Nel tempo che non ha tempo…
…si compia il risveglio…
…e il viaggio del non ritorno abbia inizio…
…nella coscienza della conoscenza…
…nel buio dell’esistenza…
…in remoti futuri perpetui…
…le nostre anime fluttueranno libere…
…e a voi che verrete a cercarci nelle ere che verranno…
…possa il nostro testamento essere la vostra guida!
“Spazio 1999”: ammetto sinceramente, nonostante fossi consapevole della sua esistenza, di non aver mai visto la serie TV fantascientifica che narra l’odissea dei membri della base lunare Alpha, alla deriva nello spazio a causa dell’allontanamento del nostro satellite dall’orbita terrestre.
Nasce tutto da lì il progetto Il Testamento degli Arcadi, sviluppandosi poi, inizialmente, sul filo della triade Pierpaolo Lamanna (autore del concept e del soggetto originale, testi, direzione artistica), Loris Furlan (mister Lizard Records, creatore e produttore) e Alessandro Seravalle (compositore di gran parte delle musiche).
Il nome del progetto (e il titolo dell’album) si rifà al titolo del penultimo episodio della prima serie, appunto “Il Testamento degli Arcadi”, momento in cui gli Alfani approdano su Arcadia trovando un pianeta che, lentamente, sta riprendendosi da un tremendo olocausto. Qui, in una caverna, i protagonisti rinvengono alcuni scheletri umani ed una scritta in sanscrito. Traducendo quest’ultima apprendono che è su questo pianeta che la vita umana è iniziata e che i Terrestri, in realtà, non sono altro che colonizzatori fuggiti dall’olocausto…
E, a proposito dei protagonisti della serie TV, i musicisti (e non solo loro), per l’occasione hanno preso in prestito i nomi dei personaggi di “Spazio 1999” e così Alessandro Seravalle (chitarra elettrica, chitarra elettrica baritona, mellotron, pianoforte, piano elettrico, sintetizzatori, elettronica, campionamenti) diventa John Koenig, Mirko Baruzzo (chitarra elettrica, basso, flauto bansuri, flato traverso, violino esraj, sarod, santur, sitar, tampura, tablas, sintetizzatori, effetti, voci) Paul Morrow, Milo Furlan (batteria, percussioni) Alan Carter e Gianluca Tassi (basso, chitarra acustica) David Kanu. Non solo, anche Pierpaolo Lamanna si presenta nelle vesti di Victor Bergman, Loris Furlan è Gerry Anderson, mentre gli ospiti Mariano Bulligan (violoncello in La Missione dei Dariani) diventa Anton Zoref, Simone D’Eusanio (violino in Gli Occhi di Tritone) Bob Mathias e Lorenzo Giovagnoli (tastiere e orchestrazioni in Un Altro Tempo, Un Altro Luogo ed Exodus III – Terrarcadia) Luke Ferro.
Tenendo ben saldo l’episodio “chiave” nel “microcosmo” della band, il concept strumentale (con campionamenti vocali tratti dallo sceneggiato) si sviluppa attraverso dieci brani, ognuno legato ad una puntata della serie (non in ordine cronologico), da ascoltare leggendo anche i frammenti di testo presenti nel libretto che ne fanno un racconto unitario.
E, restando in “zona”, va sottolineato che anche l’elemento visivo non è stato lasciato al caso ma l’intero album (e progetto) è ben rappresentato dalla superba copertina realizzata da Roberto Menegon (qui nelle vesti di Tony Cellini) che, con l’altrettanto eccezionale (e ricco di simbologie) artwork disegnato da Laura Gamba (Sandra Benes), costituiscono il perfetto “involucro grafico” per l’album.
E la musica offerta da Il Testamento degli Arcadi? Beh, sembrerà banale dirlo, ma l’album è letteralmente un viaggio. Un itinerario arduo, va detto, senza appigli facili, che “vaga” di sovente e con coraggio lontano dal suolo terrestre, “approdando (e colonizzando)” su pianeti sonori quali progressive rock, kosmische musik, new wave, psichedelia, noise, dark, rock, sperimentazione. Tanta carne al fuoco che viene servita con una cottura perfetta, soddisfacendo tutti i palati, anche quelli più difficili. In definitiva, detta in poche parole: progressivi, teutonici, psichedelici. Epici.
Un Altro Tempo, Un Altro Luogo ci introduce, grazie all’audio estratto dalla serie, alla storia e al dramma di Arcadia, ma anche alla “luce” che è seguita all’olocausto, a quell’elemento di continuità che è la civiltà nata sulla Terra grazie a quei temerari fuggiti poco prima di incontrare la morte, tutto avviluppato da una miscela ben congegnata di elementi classici e krauti.
Elettronica “sospesa”, distorsioni sabbathiane e ritmiche toste danno corpo ai primi minuti di Mare Imbrium I. Si vola, letteralmente, prima di essere catapultati in uno stato alterato. E ancora i quattro ci riportano su per poi scaraventarci in basso ma senza lasciarci andare completamente, aggrovigliando alle nostre caviglie fili inestricabili. Tutto si dipana sul finire, vellutatamente, con il suggestivo intervento di fiati affidato a Paul Morrow (anche se Alan Carter tiene comunque il suo passo).
Sinistra, claustrofobica, prende vita La Missione dei Dariani, per poi distendersi lievemente tra arpeggi delicati e synth etereo. Una sassata in pieno volto, lanciata da tutti gli effettivi, ci risveglia da questo sonno incantato. L’ordito messo su da John Koenig e soci è asfissiante e magnetico allo stesso momento, da capogiro, con il violoncello elettrico posto lì a rockeggiare magnificamente su tutti. Angosciante ciò che segue, prima di chiudere con classe grazie al “cambio di voce” dell’arco di Anton Zoref.
Ci si sposta verso oriente con Exodus I – Il Dominio del Drago, tutta nelle mani etniche di Paul Morrow, un Ravi Shankar riletto sotto varie lenti: psichedelica, floydiana, carica di tensione. Ipnotica.
Si torna a volare con Bergman e la sua partenza settantiana. Le dita di John Koenig volano sui tasti, un po’ alla Gianni Leone, e accendono la scintilla negli altri effettivi. Sarà la chitarra (anche se non da sola) a far poi sprofondare il brano in un’altra dimensione, decisamente più onirica, impalpabile. Ciò che segue è da pelle d’oca, con intrecci vivaci, corvini, decisamente italiani (vedi Metamorfosi o Goblin, per esempio), una tensione tangibile, virate elettroniche kraftwerkiane e tanta “magia nera”.
Ci si dirige nuovamente verso lidi levantini con Exodus II – Il Guardiano Di Piri. Sono sempre le corde “acide” di Paul Morrow a condurre il gioco. Una danza suadente, ammaliante, ben sorretta, più avanti, dalle percussioni di Alan Carter. Prima di chiudere, un “corpo estraneo” cerca di farsi spazio, riuscendoci (non completamente) solo sul finire.
Echi lontani ci conducono gradualmente verso il cuore della lunga e tripartita Phantasma [a) Fotosintesi Umana b) Forza Vitale c) Fine dell’Immortalità]. E quando i suoni s’intensificano si esce frastornati finché un vento cosmico non giunge a spazzare via il tutto. E tutto riparte con altra fisionomia, antitetica, hard. Ma, come si diceva in apertura, il viaggio è lungo e allora ci si ritrova catapultati tra rumori indefiniti, prima di riprendere con qualcosa di più “tangibile”, cinematografico, visionario, ma anche sospeso. Un flusso che si interrompe “sbattendo” nuovamente nelle distorsioni grezze delle chitarre e nei colpi violenti delle ritmiche, con quel tassello crimsoniano che non guasta affatto. E l’inserto vocale tratto da “Spazio 1999” riporta la tensione a livelli altissimi (era mai calata?), prima che la band riprenda a gettare sul piatto asperità sonore cosmiche, rilassandosi sul finire. Un’altalena da vivere tenendosi ben saldi alla poltrona.
Spetta ad Alan Carter l’onore e l’onere di dare il La a Gli Occhi di Tritone e lo fa con rabbia, sparando una mitragliata di colpi precisi, violenti, prima di cadere tra le braccia di una chitarra new wave ipnotica (ben coadiuvata dall’elettronica). E il violino di Bob Mathias arriva improvvisamente a dar man forte, così come il piano delicato e centellinato. E tutto il flusso sonoro si fa sempre più “interiore”, magnetico, drammatico, toccando lande alla Runaway Totem.
Evocativa e molto intensa la partenza di Mare Imbrium II, prima di cadere in un nuovo gorgo sabbathiano violento guidato alla grande da chitarra, basso e batteria. E poi si fluttua nello spazio profondo, tra sperimentazioni elettroniche (che ricordano lievemente i Dedalus di “Materiale per Tre Esecutori e Nastro Magnetico”) che ci accolgono a braccia aperte proiettandoci nella conclusiva Exodus III – Terrarcadia, una pennellata che miscela colori krauti con aperture sinfoniche e molto italiche (vedi Latte e Miele). Un abbraccio caloroso, stretto. Non un addio, ma solamente un arrivederci.
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