Magnetismo Maya

«Dovete sapere che, attualmente, in Messico solo il 10% dei siti archeologici individuati è stato portato alla luce».
«Come mai?» domandò con arida curiosità una donna bionda, sulla cinquantina, con un inglese stentato, tentando di asciugare il sudore sul collo dovuto alla forte umidità dell’area.
«Ufficialmente è per preservare le nostre foreste e le popolazioni che vivono nelle aree non urbanizzate, come i lacandones qui, nel Chiapas. In realtà è perché non ci sono fondi a sufficienza per proseguire le indagini e, quanto emerso sino ad oggi, sembra sufficiente per il flusso di turismo culturale che abbiamo in Messico attualmente» rispose meccanicamente la guida turistica, ripetendo la solita motivazione che, puntualmente, era richiesta dal viaggiatore di turno.
Sara non lo stava ascoltando, rapita dalla maestosità del Palazzo del Re, la costruzione principale della Grande Acropoli di Yaxchilán. Fissava estasiata i pannelli che raffiguravano l’ascesa al trono del sovrano Uccello Giaguaro, con le scene in cui, durante il gioco della palla, il re picchiava alcuni uomini e i corpi di quest’ultimi, ridotti a pezzi, si trasformavano in palle.
Vi era giunta dopo un lungo viaggio vissuto in un piccolo bus condiviso con altri turisti stranieri, partito da Palenque e diretto verso uno dei porticcioli disseminati lungo le rive del fiume Usumacinta, confine naturale tra Messico e Guatemala. Da qui, grazie all’uso di una lancha, un’imbarcazione in legno dalla forma lunga e stretta, spinta dalla forza di un piccolo motore diesel, avrebbe raggiunto il sito archeologico Maya di Yaxchilán nascosto nella foresta, non prima di aver superato oltre quaranta minuti di tragitto nelle acque non proprio limpide e placide del río.
Dopo aver osservato avidamente anche la “griglia” che decorava la sommità del tempio, Sara girò intorno alla struttura per carpirne altri dettagli, mentre il gruppo si allontanava verso la Piccola Acropoli.
Trascorsi alcuni minuti in solitaria, la ragazza si guardò attorno notando, poco dietro di lei, uno sentiero piuttosto angusto che si apriva tra gli altissimi alberi che caratterizzavano la foresta pluviale tropicale.
S’addentrò per pochi passi, curiosa, e fu investita da un silenzio surreale. Proseguì ancora un po’, cauta, e un piccolo dettaglio di una struttura in blocchi, avviluppata stretta dalle radici di maestosi alberi di cui non conosceva l’esatta tipologia (la guida aveva descritto la flora dell’area prima di iniziare il percorso ma lei non aveva prestato attenzione), calamitò il suo sguardo.
Si avvicinò e toccò, quasi con deferenza, quelle poche pietre squadrate visibili sotto l’intricato gioco di radici esposte.
“Possibile che gli archeologi non si siano accorti che il sito continua sin qui?” si domandò.
Dopo aver cercato e rintracciato pochi altri dettagli celati perfettamente dalla fitta vegetazione, Sara, quasi attratta da una forza sconosciuta, proseguì il suo cammino lungo quella ristretta striscia di terra battuta.
Procedette a passo lento, osservandosi continuamente intorno e cambiando direzione più volte tra gli alti fusti. D’un tratto, la quiete fu strappata via da un suono acuto. Un giaguaro? La paura la ridestò immediatamente e Sara si voltò, iniziando rapidamente il cammino a ritroso verso il gruppo.
“Ma sono passata di qui prima?” si chiese dopo oltre dieci minuti di strada percorsa senza trovare la via d’uscita. Intanto il panico cresceva esponenzialmente, così come i rumori della foresta.
Continuò ancora a muoversi tra gli alberi senza identificare un “punto amico” che potesse confermare l’esattezza del suo percorso, finché il suo occhio non cadde sulla sagoma di un tempio, solo in parte avvolto dalla natura.
«Ci sono!» urlò sollevata.
Camminò a passo svelto verso l’edificio in cerca di altri turisti. Non scorgendoli nell’area antistante quella che, aveva ipotizzato, fosse la facciata principale, girò intorno alla struttura. In meno di un minuto era di nuovo al punto di partenza.
«Cavolo! E ora?» e la disperazione riprese il posto della gioia.
Dopo aver respirato profondamente alcune volte, e ripreso un minimo di lucidità, Sara osservò nuovamente il paesaggio e focalizzò il suo udito in cerca di suoni umani verso cui dirigersi.
E, mentre, la sua mente era concentrata nello svolgere al meglio l’operazione, alle sue spalle, nell’oscurità delle varie aperture del tempio, qualcosa si mosse.
Sarà lo percepì e si voltò di scatto incrociando tanti piccoli occhi che affioravano da quel buio.
«Che diavolo è?!».
Lentamente apparvero anche le sagome dei proprietari di quegli occhi: un numero indefinito di bambini dalla pelle scura, scalzi e vestiti con lunghe tuniche bianche. Erano i lacandones, gli indigeni.
Sara impallidì ma trovò il coraggio di fuggire via.
Corse senza meta tra gli alberi senza mai voltarsi. Solo quando il fiato le venne meno, decise di guardarsi alle spalle scorgendo che nessuno aveva avviato una “caccia all’uomo”.
Si piegò sulle ginocchia cercando di racimolare un po’ di forze, prima di concentrarsi nuovamente sulla situazione che stava vivendo.
“Devo raggiungere il fiume, ma come?”.
Il suo sguardo fece un giro di 360° in cerca di uno spiraglio ma l’impenetrabilità della foresta non fu d’aiuto.
E, mentre si muoveva senza convinzione tra la vegetazione, giunse nuovamente quella sensazione. Qualcuno la stava osservando.
Gradualmente condusse la sua vista in quella direzione e li vide, ancora una volta. I bambini in bianco erano lì e la fissavano, immobili.
Sara pietrificò.
I bimbi non si mossero. L’espressione enigmatica sui loro volti accrebbe il terrore nella ragazza.
La fase di “stallo” durò ancora per alcuni minuti, poi, ritrovata un po’ di lucidità, Sara cercò intorno a sé una via di fuga, trovandola, forse, nello stretto sentiero alla sua destra.
Improvvisamente riprese a correre, spingendosi sempre più tra il buio degli alberi che, con le loro ampie cime, svettanti per oltre quaranta metri, impedivano quasi totalmente al sole di penetrare.
«Ahia!».
Nella sua corsa disperata, Sara non aveva notato che la via sterrata stava riducendo man mano la sua ampiezza sino a svanire e urtò un braccio contro la corteccia di un albero procurandosi un’abrasione sanguinolenta.
Piegò il volto per guardare l’entità della ferita e una radice in rilievo le “afferrò” un piede scaraventandola a terra.
La ragazza batté la testa e si ritrovò, stordita, sul terreno. Tentò di rialzarsi ma le forze erano completamente svanite.
Solo quando riuscì a sollevare un po’ il capo si ritrovò accerchiata dai bambini.
«V-vi prego, n-non fatemi del male» piagnucolò mentre il cerchio si restringeva a poco a poco attorno a lei, impercettibilmente.
Sara assunse una posizione fetale, stringendo la testa tra le mani e tremando vistosamente.
D’un tratto una fragorosa risata s’insinuò nella sua mente. Erano i bambini, l’additavano e ridevano.
Lei alzò gli occhi e incrociò lo sguardo di alcuni di loro. Sorridevano apparentemente senza motivo.
Poi, una bimba di sei-sette anni, si staccò dal gruppo e le si avvicinò. Si abbassò e le sorrise.
Sara fu colpita da quell’espressione candida, da quei pochi denti bianchi che spuntavano dalle labbra scure. Tentò di abbozzare un sorriso a sua volta.
La bambina le allungò una mano. Lei, ancora tremante, l’afferrò e si rialzò.
Riacquisito un briciolo di coraggio, Sara, tenendo ancora stretta la mano della piccola, osservò nuovamente quei bambini, quei visi gioiosi, e la tensione si sciolse.
«Volevate solo giocare, vero?» chiese alla bambina asciugandosi le lacrime.
Questa inarcò le spalle senza dire nulla.
«Mi sa che non mi capisci» disse mestamente.
La bimba rispose qualcosa di incomprensibile per Sara.
«Io» e indicò se stessa «andare casa» proseguì descrivendo a gesti l’azione e l’abitazione.
L’interlocutrice ripeté i gesti divertita.
«No, no. Diavolo! Come glielo spiego?» si domandò, conscia dei suoi limiti linguistici, con quelle dieci parole d’inglese conosciute, oltre alla sua lingua madre.
Si guardò intorno sconfortata, poi un’idea, sottoforma di parole, nella speranza utili, prese forma.
«Usumacinta».
«Usumacinta» replicò la bimba.
«Sì, Usumacinta. Io andare Usumacinta» e s’aiutò nuovamente con le mani.
«Usumacinta, Usumacinta».
«Río Usumacinta, lancha. Io, lancha, Río Usumacinta» proseguì Sara.
Le parole, poste in questo ordine, sembrarono sortire un qualche effetto. La piccola le prese nuovamente la mano e s’avviò a passo sicuro tra gli alberi, seguita dagli altri bambini.
Camminarono per alcuni minuti, in silenzio. Sara aveva deciso irrazionalmente di affidare la sua sorte a quel piccolo essere umano. Poi, dopo aver evitato di cadere in una pozza fangosa, udì un suono nuovo. Si concentrò per qualche attimo e comprese la sua natura: era il fiume. Sul suo viso esplose un sorriso.
«Usumacinta?» domandò indicando un punto qualsiasi nell’aria.
«Usumacinta» rispose la bambina.
Sara cercò di trattenere la gioia. Ormai si fidava di lei ma voleva essere certa di raggiungere la salvezza.
Proseguirono ancora per qualche centinaio di metri tra la fitta vegetazione, mentre il rumore del fiume cresceva d’intensità, ed ecco, d’un tratto, aprirsi davanti a sé la riva dell’Usumacinta.
La visione le tolse il respiro. Riuscì ad abbozzare solo un «Gracias!» con le lacrime agli occhi.
«Lancha» disse sorridente la bambina indicando il piccolo attracco che si sviluppava non molto distanti da loro.
«Gracias! Gracias!» ripeté ancora, prima di staccarsi dalla sua salvatrice e precipitarsi verso le imbarcazioni.
Si fermò quando ormai mancavano pochi metri e si voltò. I bambini erano già scomparsi nel verde della foresta.
«Piaciuta la visita?».
La domanda la colse alle spalle. Era la guida che, con un italiano spagnoleggiante, procedeva al quesito di rito con i turisti.
«Sì, sì. Molto» rispose sbrigativamente Sara, voltandosi nuovamente verso il punto in cui le strade con la bimba si erano divise e le sembrò di vederla, lì, che la salutava. Forse.
Poi salì sulla lancha, indossò il giubbotto di salvataggio e l’imbarcazione prese il largo.

(pubblicato nell’antologia “Professione viaggiatore” – Idrovolante Edizioni, 2020)

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