“E le sere d’inverno restavo rinchiuso in casa ad ammuffire”.
Diversamente da quanto cantato da Franco Battiato in “Sequenze e Frequenze”, i Métronhomme, durante l’“inverno pandemico” che ha colpito la nostra civiltà, non sono di certo rimasti immobili.
Forza di volontà, ispirazione e ingegno: queste le carte vincenti messe sul piatto da Tommaso Lambertucci (piano, synth, voce), Marco Poloni (chitarra, piano, maschine, voce), Mirko Galli (basso, pedal synth), Andrea Lazzaro Ghezzi (percussioni assortite) e l’ospite Mohammed Amir Ibrahim (oboe ne La città di K.), e che sono racchiuse sotto il titolo Tutto il Tempo del Mondo – 1.òikos.
Voglia di sperimentare, innanzitutto, e nessuna volontà di seguire “schemi progressivi” ma solo l’istinto. Il modo più libero di affrontare un isolamento forzato. Ed è così che nell’opera si trova tanta elettronica, ma anche guizzi sanremesi (?!), del buon prog (of course) e molto altro, una miscela di un’intelligenza tale da lasciare piacevolmente colpiti. Nessun “filo rosso” teso da tener stretto tra le mani ma solo la sicurezza di poter avanzare ad occhi chiusi senza pericolo di cadute. A detta della band, l’album non narra direttamente del lockdown: non ne racconta le sofferenze e non ne rappresenta le cronache, ma contiene e ne coglie tutta la carica emozionale provata ed espressa in musica.
Prima di approfondire l’ascolto, c’è (almeno) un altro elemento da sottolineare, sugli altri: la bravura di Ghezzi nel reinventarsi batterista senza batteria! Una bacinella per il bucato, spazzole per capelli, dispenser del sale, monete, tappi, bottiglie, matite, il respiro, ecc.: queste le “pelli” presenti nell’album (leggi l’intervista).
Il brano d’apertura, una sorta di sospensione onirica alla Radiohead, di certo volutamente intitolato Quarantine, ci apre le porte di Tutto il Tempo del Mondo – 1.òikos. Tutto viene ben presto affidato alle “mani libere” delle tastiere che, d’un tratto, sembrano quasi “atterrare” tra le note di Ray Manzarek, con le ritmiche che tengono un buon passo, prima di calare i giri (collettivamente) sul finire.
Candida (come la neve narrata nel testo) arriva Come la Neve, una pennellata malinconica che vive tra David Sylvian e il cantautorato italiano (con una punta sanremese!). L’amalgama dei suoni pesati singolarmente, centellinati, quasi rarefatti, è una carezza materna che giunge per dissolvere ogni preoccupazione.
Di tutt’altra pasta la prima parte di Di una Moneta che Cade, dove i quattro danno ampio spazio alla sperimentazione e all’elettronica, dall’avvio estraniante affidato alla chitarra di Poloni che fa il verso ai computeroni fantascientifici di un certo cinema “datato”, alle fughe in territori teutonici guidati dalle tastiere, il tutto avviluppato da una cappa scura e a tratti impenetrabile. Poi, a metà percorso, i Métronhomme aprono uno “spiraglio”. Le ritmiche home-made di Ghezzi cambiano il passo del brano, ma i colleghi restano ancorati ai territori kraftwerkiani.
Supermarket. E ancora una volta i Métronhomme cambiano le carte in tavola. Elettronica che si muove tra Nine Inch Nails e Bluvertigo, inserti vocali estemporanei, basso e ritmiche “casalinghe” azzeccatissime e un piano classicheggiante posto “di traverso” al tutto, un mix ipnotico che si conclude, purtroppo, troppo presto.
Una tensione crescente è quella vissuta in Arkè, affidata alle dita di Lambertucci. Il suo piano avanza lento, inquieto, sofferente. E poi corre in soccorso anche la chitarra che va ad incrementare la solennità dell’episodio, prima che tutto si “raccartocci”.
Un po’ Depeche Mode, un po’ Soerba e un po’ videogame anni ’80/’90: questa l’anima sonora di fondo de Il Rumore del Mare, con quelle tastiere piuttosto consistenti e le ritmiche “rumorose”. E il refrain, molto “estivo” e musicalmente canzonatorio (e battiatiano), non lascia presagire un luce in fondo al tunnel del lockdown: L’estate dipinta sul muro.
Colma di una palpabile pressione emotiva si presenta il brano conclusivo La Città di K.. Il basso pulsante di Galli crea la giusta carica per l’arpeggio “sporadico” di Poloni, mentre i piccoli dettagli ritmici di Ghezzi aggiungono un velo “speziato” al quadro che si apre cinematograficamente con l’arrivo in scena dell’elettronica acquistando, poco oltre, anche un tocco crimsoniano. E, mentre l’atmosfera si fa sempre più tesa, ecco comparire anche l’oboe ispirato dell’ospite Mohammed Amir Ibrahim che fa la sua bella figura.
Ed ora non resta che attendere la conclusione dell’opera. Impazientemente.
Intanto una valida testimonianza di come non esiste cosa al mondo che possa frenare l’Arte.
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