Un caro benvenuto a Jacopo Bucciantini (J.B.), Davide Lucioli (D.L.), Francesco Presentini (F.P.) e Francesco Zuppello (F.Z.): Trauma Forward.
J.B.: Grazie infinite Donato.
D.L.: Grazie Donato, è un piacere
F.P.: Grazie mille
F.Z.: Grazie!
Iniziamo la nostra chiacchierata dalle origini: come nasce il progetto Trauma Forward finalizzato alla realizzazione di musica svincolata da una classificazione in generi, che si basi su concezioni filosofiche? E cosa c’è prima dei Trauma Forward nelle vite di Jacopo e Davide?
J.B.: Il progetto è nato ufficialmente nel 2012, circa un anno dopo che io e Davide ci siamo conosciuti: benché abitassimo in comuni limitrofi, in pratica, abbiamo iniziato la nostra amicizia a Parigi. Al tempo, io suonavo la batteria in alcune band di musica rock e, di conseguenza, componevo anche dei brani; alcuni di essi, comunque, non erano adatti allo stile dei miei gruppi e dunque li avevo messi da parte. Davide, perciò, mi propose di avviare un progetto studio per pubblicare queste mie composizioni “orfane” insieme ad altri suoi lavori. Decidemmo di chiamarci “Trauma Forward” e, senza pretese, rilasciammo una grezzissima demo – realizzata con mezzi di fortuna (tablet, file MIDI, VST et similia) – che attirò l’attenzione di molte persone. Essendoci resi conto del potenziale, allora, ritenemmo opportuno strutturare con maggiore ponderazione la nostra idea e, ripensando alle ispirazioni alla base dei componimenti, ci accorgemmo di esserci, involontariamente, rivolti ad una domanda classica della psicologia: “Posso conoscere davvero me stesso?”. Il nostro “viaggio artistico” è realmente partito a quel punto.
Questo a parte, ad ogni modo, nella mia vita c’è sicuramente molta filosofia: mi sono laureato in questa disciplina nel 2017 e poi mi sono specializzato in neuroestetica, con particolare attenzione al ramo musicale, negli anni successivi. Mi dedico allo studio del cervello umano in relazione alla comprensione della musica come fenomeno ben distinto dal linguaggio verbale e dal rumore. Nondimeno, mi piace molto il cinema e l’arte visuale, infatti ho preso parte ad alcuni festival di cortometraggi e lungometraggi come direttore operativo e ho curato alcune mostre di pittura e scultura.
D.L.: Sicuramente la filosofia, come attitudine al pensiero, che dapprima ci ha fatto avvicinare ed ha alimentato la nostra amicizia è divenuta poi il fondamento del nostro progetto: ci ha permesso di individuare gli argomenti essenziali da trattare nelle nostre composizioni e ci ha suggerito alcune soluzioni musicali. Le domande più recondite che assillano gli esseri umani sono quelle che vogliamo indagare e alle quali cerchiamo di rispondere. Benché mi sia innamorato della filosofia al liceo ed abbia proseguito a leggere alcuni testi, non ho approfondito i miei studi in questo campo ma ho dato ascolto alla mia natura più analitica intraprendendo la carriera universitaria, che si concluderà a breve, dato che sto terminando la tesi, come ingegnere elettronico. Coltivo numerose passioni quali la poesia, il sound design – forse influenzato dai miei studi in telecomunicazioni –, la fotografia ed il graphic design; in questo ultimo ambito ho assimilato competenze che mi hanno permesso di dedicarmi alla direzione artistica di una rivista culturale ed alla realizzazione di video musicali.
Trauma Forward: come nasce il nome e qual è il suo preciso significato?
D.L.: Nel periodo in cui prendevamo consapevolezza di questa unione di intenti, ricordo che fu facile trovare qualcosa che rappresentasse il nostro pensiero, anche perché passavamo molto tempo insieme e percepimmo subito un’ottima sintonia. Volevamo scegliere una parola che potesse avere numerose chiavi di lettura per poterci sentire liberi di veicolare qualsiasi messaggio il nostro “viaggio” avesse richiesto. Dunque, ci venne l’idea di “Trauma” che in primo luogo rimanda ellenicamente alla ferita (τραῦμα), che noi intendiamo soprattutto come lacerazione dell’animo – e quindi come un punto di accesso – anche se riconosciamo che comunemente essa abbia una valenza negativa. La seconda interpretazione della parola deriva dal termine tedesco (traum) e significa sognare: questa accezione, invece, vuole sottolineare l’aspetto positivo del termine e, al contempo, indicare il fatto che il discorso musicale è da noi condotto in modo onirico, ergo non è strettamente legato alla realtà. “Trauma” riassume quindi la fusione di due significati che possono sembrare molto distanti ma non lo sono, in quanto dolore, ferita, accesso e sogno sono per noi riconducibili ad un unico e inclusivo concetto di intuizione.
J.B.: Non potevamo, però, chiamarci solo “Trauma”: almeno una band con questo nome esisteva già. Pertanto, abbiamo riflettuto intorno a quale concetto avremmo potuto aggiungere al sostantivo in questione, che esso già non esprimesse. Abbiamo convenuto, quindi, che nessuna chiave di lettura potesse, nemmeno lontanamente, comunicare l’idea di uno slancio verso il futuro, di una propensione in avanti, che, tutto sommato, noi abbiamo percepito durante la nostra ricerca musicale e filosofica. “Forward” ci è sembrata la parola più efficace a significare ciò. “Trauma Forward”, per cui, è una denominazione che intende manifestare la volontà di rivolgere sogni, intuizioni, pensieri e anche dolori verso il futuro, al fine di formulare risposte originali ad interrogativi intramontabili.
Fin da subito, dunque, iniziate a comporre musica e, tra provini registrati in casa, collaborazioni a distanza con altri musicisti, l’“aiuto” di Francesco Zuppello e Michael De Palma (rispettivamente a chitarra e basso) nel registrare una demo di quello che sarà “Scars”, l’attenzione della L.M. European Music, la registrazione ufficiale dell’album e la sua uscita (30 dicembre 2016), passano all’incirca cinque anni. Mi raccontate, dunque, la genesi dell’album e i motivi di questa lunga “gestazione”?
J.B.: Ad onore del vero, dopo l’esperienza di “Scars”, ci siamo dati circa cinque anni per la realizzazione di ogni album di questo progetto! In realtà siamo anche molto svelti, volendo, tant’è che durante il lockdown occorso fra l’autunno e l’inverno del 2020 abbiamo – io e Davide insieme ad altri musicisti – sfornato praticamente quattro album che saranno pubblicati prossimamente.
Trauma Forward, però, è un progetto diverso da tutti gli altri: in un certo senso potremmo dire che si tratta della massima espressione del nostro perfezionismo e della nostra pignoleria. Ogni aspetto, anche il più insignificante in apparenza, trova una giustificazione grazie ad una fenomenologia che ideiamo prima di metterci al lavoro sui brani. I brani, poi, devono anche descrivere una trama quasi narrativa e, ancora, tutto ciò deve trovare una ineccepibile sincronia anche con lo studio delle grafiche e del booklet. Prendiamo come esempio “Scars”, giustappunto. Questo album intende, sì, rispondere alla domanda “Posso conoscere davvero me stesso?”, ma al contempo racconta, su un altro livello, la storia metaforica di due feticci che si perdono e si incontrano nuovamente in un mondo metafisico. Insomma, abbiamo cercato di trasformare la semantica della fenomenologia di “Scars” in sintassi musicale, attribuendo valori precisi ai tempi, agli strumenti, alle timbriche, agli effetti, al panning e così via per tutto l’album. Abbiamo costruito e fotografato interi paesaggi in miniatura per illustrare, mediante il booklet, la storia che è metafora narrativa della fenomenologia di “Scars”. Abbiamo dovuto discutere di tutto questo e fare un ulteriore labor limae insieme ai nostri co-produttori, Luca Masperone e Aaron Caldarella. Penso sia palese che, in fin dei conti, tutto ciò abbia richiesto un bel po’ di tempo!
D.L.: Dopo questa perfetta argomentazione di Jacopo, che ci permette di non essere etichettati come dei procrastinatori seriali, posso solo ribadire come l’intreccio fra la sensazione che ci spinge a scrivere una determinata canzone, la sua orchestrazione, la trascrizione visuale del componimento all’interno di un corpus che coerentemente la presenti e ne esponga i legami con le altre canzoni, sia un equilibrio difficile da raggiungere. Sicuramente questo equilibrio è stato raggiunto anche grazie all’apporto di Francesco Zuppello e Michael De Palma: buoni amici ed indubbiamente persone molto sensibili che ci hanno permesso di dipanare alcune perplessità e di trovare nuovi spunti.
“Scars” è un concept album che prende il via dal Movimento Spazialista di Lucio Fontana e, attraverso i suoi “tagli”, esplora il dolore, la sofferenza. Vi va di approfondire, dunque, la tematica dell’album e il modo in cui è stata affrontata? E quali sono le concezioni filosofiche (di cui si parlava in apertura) presenti in questo lavoro?
J.B.: Da ragazzi, Davide ed io abbiamo riscontrato che la nostra spinta alla composizione musicale, nonché alla nostra creatività in genere, è stata determinata prevalentemente dalla sofferenza. Personalmente, maturando, mi sento di dire che, ora come ora, quasi ogni attività artistica che svolgo dipende dalla soddisfazione che provo nell’esprimermi liberamente, nonostante, invece, la composizione vera e propria continui a dipendere da stati d’animo inquieti. Comunque sia, al tempo concordammo circa il fatto che i tagli sulle tele di Fontana, benché dalla prospettiva dell’autore significhino ben altro, potessero rappresentare con estrema eleganza l’idea della ferita che, appunto, simbolizza l’origine dei brani di “Scars”. In altre parole, abbiamo ipotizzato che una parte significativa di chi siamo possa essere individuata attraverso l’esperienza del dolore emotivo. Ammesso che non conosciamo nulla di noi stessi, il dolore ci permette comunque di individuare con immediatezza almeno ciò che non ci piace e, in effetti, non è cosa da poco. La domanda su cui si fonda la nostra speculazione musicale è propria del pensiero di Freud, nondimeno, all’interno dell’album si trovano, fra gli altri, rimandi al metodo cartesiano, al concetto di esperienza secondo Hume, alla caverna di Platone, alla volontà schopenhaueriana e all’eterno ritorno nietzschiano.
D.L.: Personalmente ritengo che il bisogno di comporre derivi da una condizione di inquietudine, poiché questa sensazione ci fa tendere al cambiamento che a sua volta genera il linguaggio musicale. Per tornare all’album, il dolore è ciò da cui si parte come una sorta di accesso all’animo umano, per poi toccare molte tematiche quali l’attesa, l’amore, la percezione della coscienza, la memoria. Forse, benché le conclusioni delle nostre ricerche siano per me ancora oggi condivise, l’album è velato da una sorta di pessimismo che ci siamo cuciti addosso in quegli anni di adolescenza burrascosa.
Mi parlate un po’ dell’artwork davvero intrigante che arricchisce l’album? Come nasce la figura del manichino protagonista delle immagini che accompagnano i singoli brani?
D.L.: Per noi ha sempre avuto grande importanza accompagnare l’ascolto con delle immagini che potessero evocare le sensazioni che il concepimento dei brani ci aveva suggerito; da qui l’idea di trascrivere il concetto di ferita con un linguaggio visuale immediato (il rimando a Fontana) e lasciar cogliere le nostre conclusioni ai lettori più attenti (tramite i fiori posticci in secondo piano). Tutto ciò è stato inserito in copertina affinché esemplificasse il significato del disco. Il booklet, invece, consta di dodici piccoli paesaggi che si susseguono rapidamente e presentano le vicende dei nostri alter ego alle prese con i temi di ogni brano: il nostro inconscio che affronta le sensazioni che la vita gli prospetta e le sintetizza costruendo nuovi mondi, come in un sogno.
J.B.: L’idea della copertina è nata da Davide. Ricordo ancora quando me ne parlò e io, immediatamente, recuperai dalla soffitta una vecchia tela che avevo scarabocchiato da bambino, la tinsi di nero con una bomboletta spray e mi accinsi a lacerarla con un taglierino, accorgendomi di quanto fosse difficile farlo con precisione. La metafora di questa opera, infondo, è piuttosto univoca: sotto alle ferite dell’animo (i tagli) possono celarsi enti positivi (i fiori), nondimeno questi enti possono rivelarsi mendaci (non sono davvero fiori ma una rappresentazione dei fiori, stampata su carta per pacchi) e, nuovamente, aprire delle ferite in un ciclo continuo.
Ogni album della nostra trilogia musicale-filosofica sarà accompagnato dalla presenza di una sorta di mascotte. In “Scars” è presente il manichino da disegno poiché esso simboleggia l’individuo all’interno della psiche umana. Non c’è bisogno di un complesso sistema meccanico perché esso possa agire, come avviene all’esterno, ma la semplice immagine, ovverosia la sua rappresentazione, nella psiche vive e funziona, quasi bidimensionalmente. In sostanza, “Scars” è un viaggio all’interno della propria mente e, in quanto tale, può essere affrontato esulandosi, in una certa misura, dalla dimensione biologica.
“Scars” porta in “dote”, appunto, anche Francesco Zuppello (e Michael De Palma), mentre nel 2017 entra nella squadra anche Francesco Presentini. Ma cosa c’è nelle vostre vite artistiche prima di Trauma Forward e come entrate in “collisione” con la creatura di Jacopo e Davide?
F.Z.: La sola vera esperienza musicale fatta prima di Trauma Forward è stata con Jacopo, con la band Fatal System Error. Abbiamo portato questo progetto in giro per tutta l’Italia e anche all’estero, con un tour in Olanda. Oltretutto, il bassista della band, per un certo periodo, è stato proprio Michael De Palma che venne poi coinvolto nelle registrazioni di “Scars” insieme a me. Jacopo e Davide, in occasione della realizzazione della seconda demo di “Scars”, nel 2014, avevano bisogno di un chitarrista e, dato il nostro rapporto oramai consolidato, pensarono subito a me. Per l’album vero e proprio, successivamente, coinvolsero anche Michael. A pensarci bene, un po’ mi dispiace di non aver mai potuto esibirmi nei live di Trauma Forward ma una serie di motivi mi hanno puntualmente impossibilitato. Forse ci sarà modo di rimediare in futuro!
F.P.: Musica e natura. Sono sempre state delle costanti in vita mia: colorano da sempre il mio mondo e, in un qualche modo, sembrano avere un enorme nesso artistico e spirituale per me. Sono le cose di cui il mio animo si nutre, sia a livello contemplativo che esplorativo. L’esplorazione è stata sicuramente il punto d’incontro tra me e Trauma Forward; la voglia di spingersi fino ai propri limiti e di imparare. Insomma, la miscela è stata micidiale, e senza esitazione ho accettato di unirmi al progetto.
So che siete alle prese con la registrazione del nuovo album “Aeshtesys”. C’è qualcosa che è possibile anticipare?
J.B.: In realtà le registrazioni si sono concluse nell’estate del 2020, eccetto che per qualche ritocco, con tutte le difficoltà da attribuire alle misure anti-Covid: la maggior parte delle riprese sonore, infatti, è stata effettuata nel mio studio che, però, durante le varie quarantene, ho potuto utilizzare io soltanto. Questo album parte dalle conclusioni di “Scars” e le sviluppa su un altro piano, quello del mondo esterno. La domanda a cui intendiamo rispondere, appunto, è: “Cosa posso davvero conoscere del mondo esterno?”. Non è un caso che la mascotte sia cambiata: abbiamo passato diverse giornate nell’officina di mio nonno, che era un fabbro, a costruire – saldatrici alla mano – una sorta di uomo meccanico alto circa due metri che abbiamo portato in località di mezza Italia, tanto suggestive quanto difficili da raggiungere, per poter rappresentare le tappe del viaggio raccontato mediante questo secondo capitolo.
D.L.: In questo momento ci stiamo confrontando col nostro produttore artistico Fabio Zuffanti per quanto riguarda gli ultimi dettagli dei brani. Anche rivelare che lui ci ha aiutato durante la gestazione di questo album è sicuramente un ottimo scoop.
C’è qualche altro legame, ad esempio una sorta di continuità nei suoni, con “Scars”? O è un lavoro, in qualche modo, “nuovo”?
J.B.: Trattandosi del secondo capitolo di una trilogia musicale-filosofica, sicuramente esiste un forte legame fra “Aesthesys” e “Scars”, nondimeno si tratta di un rapporto più concettuale che sonoro. Lo stile, per esempio, in questo secondo album, è molto più complesso sul piano tecnico e compositivo. I suoni sono più vicini fra loro tra una traccia e l’altra rispetto al primo capitolo. Restano, comunque, il leitmotiv del viaggio in un modo ideale, la ricerca filosofica e la relativa espressione mediante elementi sonori.
D.L.: A livello visuale, invece, c’è una chiave di lettura cromatica che si avvicenderà lungo tutta la trilogia. Non dico altro.
F.P.: Credo di avere un luogo d’osservazione tutto mio a riguardo, parlando dal punto di vista musicale, dato che sono entrato nel gruppo poche settimane prima della pubblicazione di “Scars” e quindi non ho contribuito artisticamente al disco. Credo che ci sia stata una grande evoluzione con il nuovo lavoro ma che sia allo stesso tempo la perfetta prosecuzione del precedente. Dal punto di vista stilistico c’è molto in comune ma, d’altra parte, come l’introspezione è differente dal modo in cui si percepisce il mondo esterno, allo stesso modo credo che vi sia la giusta inconfrontabilità tra i due lavori.
Al netto di quanto detto sinora, Trauma Forward è un progetto sperimentale apertissimo alla contaminazione, essenza percepibile nitidamente nel lavoro d’esordio “Scars” (in cui si “passeggia” senza patemi tra atmosfere dark, elettroniche, acustiche, hard, eteree e lampi di melodia). Ma, in generale, come nasce un brano di Trauma Forward?
J.B.: Ad oggi, quasi tutti i brani hanno seguito questo iter: una sola persona, di regola io o Davide, inizia a comporre il brano “sulla carta”, ossia sullo spartito; il brano viene quindi strutturato e poi arrangiato con varie linee strumentali dal medesimo individuo. Successivamente il componimento viene sottoposto agli altri che lo commentano e suggeriscono modifiche. Generalmente anche gli assoli sono abbozzati o, addirittura, totalmente composti. In pratica, le nostre idee vengono presentate agli altri quando già hanno assunto una forma ben precisa e riconoscibile che, inevitabilmente, finisce con l’essere raffinata dall’intervento di tutti. Sotto questo aspetto, ammetto di essere la persona più puntigliosa fra noi: difficilmente condivido un pezzo che non sia stato ancora definito in ogni senso, nondimeno, col tempo, ho imparato ad aprirmi ai suggerimenti altrui, tant’è che traggo grande soddisfazione dal passare ore e ore a cercare, quando ce n’è bisogno, una soluzione che metta tutti d’accordo, piuttosto che un rapido compromesso. Immagino che ci distinguiamo davvero dalla maggior parte degli altri progetti, però, perché non abbiamo mai lavorato ad un brano, prima di registrarlo, in sala prove: tutto ciò che precede la registrazione è puro lavoro teorico ed esercizio individuale; le prove le facciamo solo se decidiamo di esibirci dal vivo.
D.L.: Riguardo la metodologia, confermo quello che è stato detto da Jacopo, con rarissime eccezioni. Mi piacerebbe soffermarmi, però, su cosa per me rappresenti quella scintilla che mi dà l’input per comporre un brano: solitamente è un’esperienza sensoriale – un odore pungente, la vista di un gioco di luci, qualcosa che stimoli un ricordo – che mi lascia in uno stato d’animo fortemente scosso: una volta sperimentata questa condizione, le note vengono spontanee una dopo l’altra.
F.P.: Jacopo e Davide hanno le idee molto chiare sull’emotività che intendono trasmettere nelle composizioni, ma sono assolutamente aperti a punti di vista differenti e questo mi ha permesso di dare un contributo alle composizioni. Sono entrato nella squadra mentre “Aesthesys” era in fase di lavorazione: anche se la maggior parte dei pezzi era già stata composta, c’era ancora molto lavoro da fare ed è stata una bella sfida completare l’opera. Ho potuto anche partecipare alla composizione di qualche canzone insieme ai ragazzi e, personalmente, mi ritengo molto soddisfatto.
F.Z.: Io ho sempre contribuito all’arrangiamento e, se vogliamo, all’arricchimento dei brani ma non ne ho mai composto uno per questo progetto. Ciò che ho creato, in gran parte, è derivato dalla pratica: i miei arpeggi e i miei riff in “Scars” e in “Aesthesys” sono frutto di alcune ore passate ad improvvisare sui brani e a seguire la mia sensibilità in relazione alle emozioni trasmesse da quelle musiche.
Credo si possa dunque affermare che la “creatura” Trauma Forward “corra” su due binari: il progetto e la band. Vi va di approfondire i due aspetti e il loro “legame”?
J.B.: Il progetto Trauma Forward è nato, come dicevamo prima, dal mio sodalizio con Davide, quasi per non “buttare” brani scartati per altre band. In altre parole, tutta la concezione a lungo termine del progetto è derivata da noi due prima che altri si aggregassero, per questo, in fin dei conti, si è creata questa sorta di separazione fra progetto e band. Tutti gli artisti che hanno lavorato e che lavorano con noi hanno apportato e apportano tuttora un contributo insostituibile al progetto, difatti ci hanno aiutati con le grafiche, con le mascotte e così via, al di là, certamente, dell’apporto in termini strettamente musicali. Il punto è che io e Davide abbiamo pensato ad un percorso – che poi si è rivelato dover essere quantomeno – quindicennale (ergo abbastanza ambizioso) prima ancora di incominciare a fare sul serio, conseguentemente questo percorso è stata adottato in toto da chi è entrato a far parte del nostro mondo – compresi i collaboratori e le collaboratrici che ci hanno aiutati una tantum.
D.L.: Il progetto per noi ha il significato di ricerca artistica, come degli obbiettivi che ci poniamo per riuscire a sondare ciò che è ineffabile. Al momento Jacopo ed io abbiamo messo i paletti entro cui le nostre canzoni si muoveranno, ma magari finita questa trilogia ci troveremo a ridiscutere insieme gli argomenti da trattare in futuro.
La band è comunque per me come una seconda famiglia, poiché se non si va d’accordo difficilmente si può far musica. Con gli altri membri c’è un rapporto di stima reciproca, sia intellettuale che musicale. Vorrei anche sottolineare che i collaboratori esterni sono per noi molto importanti: ogni occasione di condivisione ci permette di accrescere la nostra sensibilità e di ampliare le nostre vedute.
F.P.: La band ha delle radici molto profonde. Ancor prima che entrassi a far parte del gruppo, quando ancora ci conoscevamo da pochi mesi, si è subito creato un legame immediato, e siamo sempre stati in grado di comunicare e scambiarci idee con naturalezza. È stato fin troppo facile finire nella stessa stanza a suonare e discutere di argomenti assurdi, magari contemporaneamente!
Elemento di certo rilevante nell’economia del progetto è l’aspetto che definirei “esteriore”, sia riguardante l’immagine dei singoli elementi coinvolti, sia la parte grafica dei vostri lavori (come “sviscerato” in precedenza per “Scars”). Chi si cela, dunque, dietro quelle maschere bianche? E quanto lavoro c’è dietro l’elemento “non sonoro” di Trauma Forward (e quanto è, appunto, davvero importante)?
J.B.: Se mi viene chiesto di definire più sinteticamente possibile cos’è Trauma Forward, posso solamente rispondere che si tratta di un progetto artistico. In breve, per come la vedo io, la musica è un elemento necessario ma non sufficiente all’interno di questo progetto. Idem per la filosofia; idem per le immagini; idem per le storie. Ognuno di questi enti ricopre un ruolo paritario e tutti si trovano in perfetto equilibrio. Certo, potremmo dedicarci alla musica e tralasciare tutto il resto, oppure potremmo dedicarci alla filosofia e tralasciare tutto il resto – e velocizzarci non poco – ma, a quel punto, secondo me, non faremmo più parte del progetto Trauma Forward ma di qualcosa di differente.
L’utilizzo delle maschere bianche per le nostre apparizioni pubbliche, invece, credo che debba essere contestualizzato nella dimensione di “Scars”: un po’ come i due feticci protagonisti del viaggio del primo capitolo, attraverso quelle maschere bianche, abbiamo cercato di spersonalizzarci per rendere i concetti di questa opera i veri e soli protagonisti sopra ai palchi. Probabilmente, in occasione delle apparizioni pubbliche collegate ad “Aesthesys” sfoggeremo un look differente!
D.L.: Anche per questo secondo capitolo l’aspetto grafico ha richiesto notevole impegno: solo per citare alcuni passaggi, dopo aver realizzato il concept della nostra mascotte, abbiamo dovuto disegnare e commissionare dei giunti d’acciaio personalizzati in modo che la nostra creatura potesse assumere molteplici posizioni. Abbiamo cercato degli scorci che si confacessero ai nostri scopi e abbiamo scattato foto in località molto distanti fra loro.
Per quanto riguarda le maschere: io le vedo come un modo per nascondere le nostre emozioni al pubblico e far sì che esso possa genuinamente discernere ciò che vogliamo comunicare, senza l’intromissione della nostra interpretazione: una sorta di tela bianca che lo spettatore può dipingere con le emozioni che prova al momento. Probabilmente però ci inventeremo qualcos’altro per le prossime esibizioni: quelle maschere sono alquanto scomode!
F.P.: Come ha già detto Jacopo, come “Scars”, quest’altra opera è davvero multiforme. E la complessità sicuramente ripaga di significato, poiché credo che sia un modo di comunicazione multisensoriale estremamente efficace, che pone sotto critica il messaggio da comunicare da tutti i punti di vista. Quindi sì, penso che ne valga la pena. E poi, posso dire che ci siamo divertiti parecchio a curare tutti i vari aspetti, soprattutto a costruire la nostra mascotte gigante!
F.Z.: Il mio contributo in tal senso, credo che sia stato minimo. In breve, mi son limitato a prestare servizio musicalmente perché mi è sempre piaciuta la musica di Trauma Forward e ho sentito il bisogno – e anche il privilegio – di poter aggiungere qualcosa di mio alle canzoni. Probabilmente, mi son perso anche qualche concetto per la strada!
Cambiando discorso, il mondo del web e dei social è ormai parte integrante, forse preponderante, delle nostre vite, in generale, e della musica, in particolare. Quali sono i pro e i contro di questa “civiltà 2.0” secondo il vostro punto di vista per chi fa musica?
J.B.: Ritengo che oramai la rete non si possa più considerare un vero e proprio strumento di comunicazione di massa. Certo, grazie alla rete alcune persone riescono ad ottenere visibilità e ricchezza ma, in linea di massima, è innegabile che stiamo assistendo ad una saturazione poderosa in quanto a contenuti multimediali. In altre parole, internet è un mezzo comodissimo per restare in contatto con le persone con cui si hanno rapporti pregressi, per fare qualche nuova conoscenza, per trovare informazioni e, soprattutto nel caso della maggior parte della musica di nicchia – collegandomi alla questione della ricerca di informazioni – per renderne possibile la fruizione ma, perlopiù, solo a seguito di una ricerca assai mirata. Insomma, penso che se in passato fosse estremamente difficile riuscire a salire sopra quel metaforico palco che conferisce visibilità significativa agli artisti, adesso, con l’avvento del web, sia diventato così semplice salirci sopra che si fatica incredibilmente a tenere d’occhio tutti coloro che vi si trovino. Per adesso, dunque, ci siamo concentrati – magari troppo – nel realizzare un prodotto che, secondo i nostri standard, sia di qualità. D’altro canto, dovremo anche pensare anche ad un metodo originale per promuoverlo nel migliore dei modi!
D.L.: Penso che per chi fa musica il problema più annoso sia il concetto – oramai piuttosto diffuso – che la musica sia un bene che deve essere reso gratuito a tutti, senza riconoscere minimamente lo sforzo artistico e l’investimento di tempo necessari per la produzione musicale. Fortunatamente, ancora esiste un nutrito gruppo di amanti della musica, collezionisti ed addetti ai lavori che comprano, promuovono e pubblicizzano nuova musica. E poi, a parer mio, una persona che ascolta Rock Progressivo solitamente ha delle vedute abbastanza ampie, e ciò forse ci facilita un po’ le cose.
F.P.: Credo che il web abbia portato degli enormi cambiamenti positivi al nostro rapporto quotidiano con le informazioni, non senza lati negativi con cui, personalmente, tendo a volte a convivere con difficoltà. Condivido, comunque, quello che hanno già detto i miei compari; e personalmente credo anch’io che la sovrabbondanza di informazioni ci stia facendo tornare ad una selettività dell’informazione, a non accontentarci più di quello che ci viene proposto, diciamo. E questa è una cosa molto importante.
F.Z.: Trovo che il web sia davvero diventato un gran ginepraio! C’è poco altro da dire, per me: di base, oramai, c’è talmente tanta roba nella rete che è impossibile non perdercisi all’interno.
E quali sono le difficoltà oggettive che rendono faticosa, al giorno d’oggi, la promozione della propria musica tali da ritrovarsi, ad esempio, quasi “obbligati” a ricorrere all’autoproduzione o ad una campagna di raccolta fondi online? E, nel vostro caso specifico, quali ostacoli avete incontrato lungo il cammino?
J.B.: Penso che, per lo stesso motivo che ho ipotizzato alla domanda precedente, da alcuni anni a questa parte sia diventato estremamente controproducente per le case discografiche, specialmente per quelle piccole, investire denaro sugli artisti emergenti. Sarebbero così tante le produzioni che difficilmente il pubblico potrebbe permettersi di acquistarle tutte, per cui questo business si incaglierebbe e andrebbe ad affondare. L’alternativa più semplice, dunque, sembrerebbe essere stata quella di invertire la tendenza, così da chiedere agli artisti di finanziare il proprio lavoro.
Nel suo libro “Come funziona la musica”, David Byrne afferma di guadagnare più dalle autoproduzioni (con meno vendite) che dalle pubblicazioni attraverso le major (con molte più vendite), nondimeno questo sistema – che rispecchia a pieno anche la maggior parte dei contratti odierni fra musicisti ed etichette – può funzionare virtuosamente soltanto quando un artista conosciuto come Byrne pubblica autonomamente una propria opera. Noi, francamente, non abbiamo incontrato molte problematiche: abbiamo studiato per imparare a suonare gli strumenti, abbiamo studiato per apprendere l’editing musicale, abbiamo studiato come realizzare video, fotografie ed animazioni, abbiamo studiato come creare grafiche accattivanti, abbiamo studiato come costruire le mascotte e gli ambienti in cui fotografarle, abbiamo studiato varie discipline accademiche e così via. In questo modo siamo sempre riusciti a ridurre all’osso i costi di produzione ma sappiamo bene che, se avessimo dovuto affidarci ad altri per tutti questi aspetti del progetto, avremmo sicuramente speso un patrimonio. Fortunatamente, siamo stati anche aiutati da tante persone stupende e competenti nel momento del bisogno.
D.L.: Sicuramente possiamo dare un consiglio, derivato dalla nostra esperienza diretta, a chi ci legge e vuole pubblicare un disco: quando abbiamo iniziato ed abbiamo inviato in giro la nostra demo abbiamo ricevuto molto interesse, ma anche diverse richieste di contratto svantaggiosissime, quindi è bene fare attenzione. Purtroppo, ci sono alcune etichette alle quali non interessa davvero la qualità della musica bensì soltanto un ritorno economico immediato.
F.P.: È sempre stata una grande sfida, soprattutto per me, che col marketing non credo di avere un buon rapporto. C’è da dire che se da una parte le difficoltà sono molte, dall’altra si impara a reinventarsi nei ruoli più disparati e a diventare un po’ “multitasking”.
Qual è la vostra opinione sulla scena Progressiva Italiana attuale? C’è modo di confrontarsi, collaborare e crescere con altre giovani e interessanti realtà? E ci sono abbastanza spazi per proporre la propria musica dal vivo?
D.L.: Seguo alcuni gruppi molto interessanti, come i Basta! o i Sintonia Distorta, e ritengo che ci siano delle ottime potenzialità per il Rock Progressivo Italiano anche se l’ambiente non riesce a valorizzarle al meglio. Come sappiamo, spesso queste band sono più apprezzate all’estero.
Per quanto riguarda le collaborazioni mi sono già espresso: la musica è un linguaggio ed i monologhi dopo un po’ stancano: è bello rinnovarsi conoscendo nuovi artisti.
Nella nostra zona, ci sono diversi spazi per portare fuori la nostra musica ma negli ultimi anni sono andati scemando sia per numero che per qualità della proposta musicale.
J.B.: A mio avviso la scena Progressiva Italiana odierna è un po’ fiacca: ci sono molti artisti di altissimo livello indubitabilmente ma, talvolta, temo che i gusti degli ascoltatori e delle ascoltatrici di questo genere si siano fermati a qualche decennio fa. Per intenderci: io adoro la musica Progressiva del passato tant’è che in automobile ho quasi soltanto produzioni di questo tipo, ma credo che, come suggerisce il nome stesso del genere, sia importante percorrere vie nuove anziché permanere nelle vicinanze delle solite soluzioni stilistiche consolidate, benché ciò possa determinare qualche critica; del resto, proprio Franco Mussida ha detto, durante un’intervista, che suonare Prog significa suonare tutto ciò che diverte e piace. Anche l’età media del pubblico di questo genere, inoltre, mi sembra abbastanza alta, tutto sommato, e mi piacerebbe che si abbassasse un po’, col tempo. Questo a parte, soprattutto in occasione della realizzazione di “Aesthesys”, abbiamo avuto modo di collaborare con tantissimi artisti diversi, fra cui Ciccio Li Causi, Leon Seti, Darmabams, Ryan Spring Dooley, Leonardo Ricci, Pynch, Francesco Lenzi e altri ancora. Insomma, il confronto con altre realtà proprio non ci è mancato, ma contiamo di proseguire su questa linea anche in futuro.
Per quanto riguarda le esibizioni dal vivo, invece, credo che Trauma Forward sarebbe quasi più adatto a palchi di teatro insieme a performance attoriali o di danza anziché ai locali di musica dal vivo, anche se, per esperienza personale con diverse band, posso affermare che, tutto sommato, qualche posto realmente attivo prima del Covid c’era. Ora è tutto da vedere: sono venuto a conoscenza del fatto che una di quelle attività alle quali mi riferisco ha chiuso i battenti di recente, purtroppo.
F.P.: Sarà un paradosso, ma sono un completo ignorante in materia di scena contemporanea. Ciò non toglie che ho gran piacere di partecipare alla vita musicale locale, e devo ammettere di essere rimasto anche molto contento di esser potuto finire a contatto con molta gente e molte band. Data la zona in cui risiedo e in cui sono stato attivo finora, sono rimasto abbastanza stupito.
Esulando per un attimo dal mondo Trauma Forward e “addentrandoci” nelle vostre vite, ci sono altre attività artistiche che svolgete nel quotidiano?
J.B.: Sì, ci sono. Come anticipato, mi occupo della curatela per le opere e per le mostre di alcuni artisti, fra cui Andrea Roggi e Raffaele De Rosa; ho lavorato ad alcuni film e faccio tuttora parte del direttivo di alcuni festival di cinema. Inoltre, dirigo una rivista d’arte di cui Davide è il creative manager.
D.L.: Come ha detto Jacopo, mi occupo della rivista d’arte dell’associazione “L’ulcera del signor Wilson”. All’interno di questa realtà portiamo avanti numerosi progetti: organizzazione di eventi musicali, performance art, recensioni musicali, piccole produzioni di cinema indipendente e svariate altre cose. Nel tempo libero mi diletto come designer realizzando pacchetti di brand-identity, loghi, locandine e supporti di vario genere.
F.P.: Amo disegnare da sempre e, nei periodi più liberi, capita che mi dedichi un giorno a mettere a colori i miei stati d’animo, anche se accade sempre più raramente. Oltre a questo, non ho particolari attività artistiche al di fuori della musica, su cui negli ultimi tempi, ho piacere a dedicarvi tutte le mie energie.
F.Z.: Sicuramente mi son dedicato molto al gaming, nel corso degli anni, anche se non si tratta di una disciplina artistica. Un altro interesse che coltivo da diverso tempo, comunque, specialmente da quando ho deciso di trasferirmi in Germania, è lo studio delle lingue per cui mi sento piuttosto portato.
E parlando, invece, di gusti musicali, di background individuale (in fatto di ascolti), vi va di confessare il vostro “podio” di preferenze personali?
J.B.: Domanda molto difficile, soprattutto perché si tratta di ridurre il tutto a tre nomi. Sicuramente non posso escludere i Primus dal podio: la loro unicità, la loro sfrontatezza e il loro groove per me sono una trinità intoccabile. A parimerito, poi, non può mancare Lucio Battisti: le atmosfere che creano alcuni dei suoi brani, la sua voce e gli arrangiamenti mi fanno venire la pelle d’oca. Il problema dell’ultima nomina è che potrebbe essere tranquillamente conferita ad almeno cinque o sei progetti diversi. Dovendo proprio scegliere, comunque, penso che citerò gli Area – International POPular Group, perché (a parte il fatto che son certo che alcuni degli altri nomi che ho in mente saranno rivelati dalle preferenze degli altri) la loro sintesi sonora, l’esaltazione del jazz e del rock che hanno operato, la voce di Stratos e, davvero, proprio tutto il resto, li rendono dei musicisti che non mi stanco mai di ascoltare.
D.L.: Allora, premetto che molti sono gli artisti che hanno influenzato il mio stile compositivo e che solitamente l’idea di classifica musicale un po’ mi infastidisce – la musica, del resto, non è una competizione –, d’altronde capisco il ruolo sociale e pratico che la cernita di alcuni rispetto ad altri svolga nella comunicazione fra appassionati di musica. In primis, penso che citerò Buckethead (probabilmente uno dei nomi nella mente di Jacopo), non tanto per il suo lato virtuoso, che forse è il più conosciuto, quanto per i suoi dischi più emotivi in cui atmosfere dilatate vengono lumeggiate da note sapientemente disposte. Ammetto di esser stato colpito da Il Volo – mi riferisco ovviamente al gruppo Progressive degli anni Settanta –, in loro ho rivisto a tratti quella spontaneità musicale che mi piacerebbe emulare. E, infine, direi i Tool (probabilmente un altro nome nella mente di Jacopo), soprattutto per le sonorità, impreziosite dall’utilizzo in composizione dei modi, dal sound design, più strettamente parlando, e dai tempi dispari.
F.P.: Questa domanda sarà croce e delizia di tutti noi! Scherzi a parte, la mia vita musicale è stata sempre una strada piacevolmente tortuosa in cui sono passato da amare il Progressive Rock ad un periodo full immersion nella musica country, e chi più ne ha più ne metta, anche se devo dire che chilometro dopo chilometro è stata definita una direzione, che è un po’ il ritorno sui propri binari, e non posso che associarla al blues-rock. Tuttavia, il mio amore intellettuale è sicuramente Frank Zappa, e qualcuno mi aiuti a trovarne il motivo! Credo sia proprio la poliedricità più pura, ed anche un po’ di sfacciataggine, perché no? L’amore incondizionato nel podio è invece rappresentato dai Deep Purple, che salutano le mie orecchie da quando ero nella culla: credo che ormai mi siano entrati nelle vene. Adoro in particolare lo stile chitarristico di Ritchie Blackmore, che credo mi abbia influenzato più di chiunque altro come chitarrista. L’ultima scelta probabilmente va a Crosby, Stills, Nash & Young: l’amore più romantico e quello che più mi riconduce all’idea di natura.
F.Z.: Io sono stato svezzato dai grandi classici del metal, come Metallica, Megadeth e Pantera, però il mio approccio alla chitarra è stato influenzato di più dalla musica dei System of a Down che inserisco nel podio. Buckethead è un altro artista che avrei nominato volentieri ma, a quanto pare, ci ha già pensato Davide, quindi penso che citerò i Muse: ho passato tantissime giornate ad eseguire i loro brani nella mia cameretta, da ragazzino. Infine, come potrei non menzionare i Rammstein? Sono mitici.
Restando ancora un po’ con i fari puntati su di voi, c’è un libro, uno scrittore o un artista (in qualsiasi campo) che amate e di cui consigliereste di approfondirne la conoscenza a chi sta ora leggendo questa intervista?
J.B.: Ce ne sarebbero a centinaia! Nel mio percorso accademico, ho trovato illuminante, in particolare, la produzione di Ray Jackendoff, di cui consiglio, fra i vari testi di cui è autore, “Linguaggio e natura umana”. Comunque, dato che si tratta del mio scrittore preferito e, in una certa misura, è stato pure “coinvolto” in “Aesthesys”, consiglio anche la lettura di James Joyce e, in questo caso, di “Ulisse” (benché a me piaccia più, forse, “Finnegans wake”).
D.L.: Probabilmente Vladimir Majakovskij è stato l’autore che più ha influenzato il mio modo di scrivere; lo consiglio per allenare la lateralità del pensiero: un ottimo esercizio per sviluppare un flusso creativo originale. Posso citare anche David Cronenberg, regista canadese che, con molti dei suoi film, quali ad esempio “Il pasto nudo” ed “eXistenZ”, ha suggerito numerose soluzioni per sviluppare una vicenda in maniera non lineare e fuori dagli schemi.
F.P.: In questo periodo di quarantena ho avuto il piacere di leggere “La scimmia nuda (studio zoologico sull’animale uomo)” di Desmond Morris: è un lavoro molto scientifico, ma anche davvero curioso e ricco di spunti per riflessioni.
F.Z.: Non sono un gran lettore: l’ultimo libro di narrativa che ho sfogliato penso che sia “Piccoli Brividi” nel 2006; comunque era un best-seller!
Tornando al giorno d’oggi, alla luce dell’emergenza che abbiamo vissuto (e che stiamo ancora vivendo), come immaginate il futuro della musica nel nostro paese?
D.L.: Secondo me, l’investimento sulla cultura e sull’arte in ogni sua forma riuscirà a far progredire la percezione che le persone hanno della musica, ma sarà un processo indiscutibilmente lento, per questo abbiamo fondato l’associazione che citavamo precedentemente, per portare sul nostro territorio un’immediata consapevolezza. Solitamente sono pessimista, quindi comunque mi attengo a questa natura, pur dedicandomi a modificare la situazione.
J.B.: Spero che i vari problemi legati alla crisi culturale – soprattutto in ambito professionale – che sono emersi in Italia durante la pandemia possano sensibilizzare l’opinione pubblica e determinare un miglioramento generale. Prima di tutto sarà importante ripensare la musica anche come professione anziché solo come passatempo, così, anche nelle scuole, essa assumerebbe un ruolo di maggiore importanza; oltretutto i benefici neurologici determinati dallo studio della musica sono davvero sorprendenti. L’educazione alla musica, infine, provocherebbe anche un miglioramento generale della qualità dell’offerta. Insomma, guardo al futuro con positività; spero di non restare deluso!
F.P.: Una domanda molto difficile. Sinceramente fatico ad avere una visione chiara. Spererei in una rinascita in qualche modo, della musica e della cultura in generale: credo che ne gioverebbero tutti.
F.Z.: Il futuro della musica in Italia non mi lascia ben presagire. Vedendo quali sono le proposte di Sanremo negli ultimi anni, mi sembra proprio che la maggior parte delle persone faccia musica giusto per moda, altrimenti non si spiega come mai l’offerta mainstream abbia sempre questo retrogusto di “già sentito”. Tutto si è ridotto, da diversi anni, ad una gara a chi sforna la hit dell’estate. Ci siamo già nel futuro o, come diceva un mio professore, “siamo avanti nel passato”.
Prima di salutarci, c’è qualche aneddoto che vi va di condividere sui vostri primi anni di attività?
J.B.: Se mi è concesso, racconterei volentieri un aneddoto più recente: riguarda la realizzazione di una foto per il booklet di “Aesthesys”. Ci trovavamo in provincia di Firenze, nei pressi di un mulino idraulico abbandonato, al fine di scattare la foto che accompagna il brano “Honeybunch”. Il nostro nerboruto uomo meccanico rosso, forse perché adirato con me, mi ha colpito con forza vicino ad un occhio, causandomi un bel taglio di cui ancora ho la cicatrice – tanto per tornare in tema “Scars”! In verità, il meccanismo che permette di muovere il braccio del protagonista del secondo album si era inceppato e, per risolvere il problema, ho tirato con troppa forza una chiave inglese, sbloccando improvvisamente l’articolazione e ricevendo, quindi, una bella sprangata in faccia!
D.L.: Anche il mio racconto è legato alle foto per questo album. Quando ci recavamo al “Site Transitoire” dell’artista Jean Paul Philippe – un bellissimo monumento nel mezzo del Deserto di Accona – per la foto del brano “Gate in-sight”, siamo rimasti impantanati con la macchina due volte e siamo usciti in cerca di legna o pietre per poter ripartire. Inoltre, c’era un vento fortissimo ed ho dovuto tener ben saldo il manichino, che è molto pesante poiché il telaio è composto da tubi di acciaio, mentre Jacopo scattava le foto; mi sono beccato anche un bel torcicollo! Siamo tornati a casa stanchi, sporchi, sudati ma incredibilmente felici.
F.P.: Ho un dolcissimo ricordo della registrazione di un pezzo dell’album “Aesthesys”, in cui ci posizionammo nel bel mezzo del pianerottolo delle scale a casa di Jacopo per poter sfruttare il riverbero naturale generato dalle pareti. Portammo un intero armamentario composto da mixer, tre microfoni e chilometri di cavi che ovviamente scendevano per tutte le scale come dei serpenti. A ripensarci adesso muoio dal ridere.
F.Z.: Ricordo con molta nostalgia quando Jacopo stava costruendo il labirinto rugginoso per la foto di “Into the labyrinth”; quando realizzammo insieme il sentiero col muschio e il microscopico cartello di legno per la foto di “Sense of consciousness”; e quando facemmo una passeggiata al parco archeologico del Cassero a Castiglion Fiorentino per scattare la foto di “Cloud in a bottle”: quel giorno c’era un cielo quasi indaco, molto intenso.
E per chiudere: c’è qualche altra novità sul prossimo futuro di Trauma Forward che vi è possibile anticipare?
D.L.: Possiamo dire che abbiamo pronte alcune sorprese e curiosità che accompagneranno la campagna pubblicitaria per “Aesthesys”.
J.B.: Beh, sicuramente possiamo rivelare il titolo e la domanda filosofica del terzo capitolo della nostra saga. Il terzo album si intitolerà “Febris” – termine tratto da “Nascita della clinica” di Foucault – e cercherà di proseguire la dissertazione di “Aesthesys”, attraverso il quesito “Cosa posso conoscere di dio?”. Almeno sulla carta, siamo a ¾ dell’album.
Grazie mille ragazzi!
J.B.: Grazie a te, Donato!
D.L.: Grazie a te per averci permesso di raccontare la nostra musica.
F.P.: È stato un vero piacere, grazie a te!
F.Z.: Per citare “Arancia meccanica”: a presto, carissimi ed affezionatissimi.
(Giugno, 2021 – Intervista tratta dal volume “Dialoghi Prog – Volume 2. Il Rock Progressivo Italiano del nuovo millennio raccontato dai protagonisti“)
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