«Ancora legna! Ancora!».
I due assistenti, visibilmente stanchi, coadiuvati nei movimenti da un paio di bretelle che sorreggevano dei pantaloni scuri a forma tubolare e tenevano incollata al busto una camicia bianca coperta di macchie fuligginose, proseguirono senza sosta a gettare pezzi di legna e rami secchi nella grande caldaia, sopportando a malapena l’eccessivo calore e il fumo che sfuggivano al sistema di riscaldamento della macchina e, attraverso la finestra d’immissione, raggiungevano il mondo esterno impattando nelle due figure umane.
«Ancora! Ancora!» urlò nuovamente il dottor William Burke, quasi strappandosi i baffi lunghi e appuntiti che caratterizzavano quel viso scarno.
L’uomo, abbigliato essenzialmente come i suoi aiutanti, ma senza straccali e senza chiazze grigie sulla camicia, osservava ipnotizzato attraverso l’oblò che si apriva nella parte superiore del portellone della macchina che occupava la parte nordoccidentale del laboratorio, in uno dei sotterranei dell’Advocate’s Close, non distante dalla cattedrale di St. Giles, nella Old Town di Edimburgo.
L’aria dell’ambiente, intanto, stava saturandosi di vapore e le due piccole finestre con inferriate che davano sulla strada, poste in alto sulla parete Est, faticavano ad espellerlo.
Dall’interno della macchina, una sorta di bara metallica posta in verticale, da cui spuntavano una serie di tubi collegati a decine di valvole, sfiatatoi e misuratori, intanto, arrivava attutito e costante un lamento, quello di un uomo.
Il dottor Burke incrociò il suo sguardo terrorizzato, notando il sudore copioso che grondava dal suo corpo nudo e le chiazze rosse che stavano comparendo sulla sua pelle.
Lo scrutò ancora per qualche secondo, poi si spostò verso destra dove era collocata una struttura metallica esteriormente identica alla precedente. Verificato il dato di uno dei misuratori della pressione posto accanto al portello d’accesso e quello della temperatura interna, con un sorriso soddisfatto tornò nuovamente verso la prima “bara”.
«Ci siamo quasi! Altra legna!».
L’uomo nella macchina, intanto, accentuò le sue urla di dolore, mentre dalla sua pelle iniziavano ad alzarsi piccoli pennacchi di fumo.
Quasi meccanicamente, Burke allungò una mano verso una manopola sistemata sul fianco sinistro dell’apparecchio e aumentò di poco il flusso regolato dalla stessa: fumo di oppio.
In pochi secondi vide attenuarsi il respiro affannoso e i lamenti dell’uomo che, lentamente, stava rannicchiandosi sul fondo del congegno.
Il dottore rimase ipnotizzato ad analizzare quanto stava accadendo all’interno della sua apparecchiatura, lo sguardo spiritato non si staccò per diverso tempo dall’essere umano raggomitolato in posizione fetale.
«Attenta a non sporcarti il vestito, cara».
«È solo vapore, spero».
Le voci sconosciute, anche se distanti e deboli, giunsero ad infrangere il suo stato “sospeso”. Provenivano dall’esterno del laboratorio, facendosi strada tra le barre di ferro delle finestrelle.
«Non si può più passeggiare in città senza il rischio di essere avvolti da queste nubi infernali» commentò la prima, avviluppata da un abito verde pallido con maniche ampie e voluminose e ampia gonna a campana che nascondeva una crinolina, proseguendo a camminare lungo lo stretto Advocate’s Close.
«Abbassa la voce e affretta il passo. I pericoli della Old Town sono altri» e, con un cenno del capo, l’altra donna, stretta in un vestito dalla foggia simile alla prima ma di colore rosa e motivo floreale, indicò un uomo seduto sul lastricato dell’angusto passaggio con schiena poggiata al muro e gli abiti logori.
L’uomo, ridestatosi da una sorta di sonno leggero, guardò le donne e sorrise mostrando l’alternanza di “pieni e vuoti” che caratterizzava la sua bocca.
Spaventate, e intralciate dall’ingombrante abbigliamento, la coppia provò ad aumentare il passo in direzione della “salvezza”: la New Town.
Quando le voci scomparvero dal suo raggio uditivo, il dottor Burke tornò a concentrarsi sul suo esperimento, giusto in tempo per vederlo fallire.
I capelli dell’uomo nella “bara” iniziarono a prendere fuoco, a seguire ci fu una vampata e l’uomo fu avvolto dalle fiamme. Le sua urla strazianti non invitarono lo scienziato a distogliere immediatamente lo sguardo.
«Basta con la legna. Vieni qua, Edward. Apri il portellone e buttalo via» ordinò d’un tratto ad uno dei due operatori della caldaia, appena il silenzio sostituì il dramma nell’apparecchio.
Poi si spostò verso uno dei tavoli che stazionavano al centro dell’ampio ambiente in pietra, tenendo una mano sullo stomaco e strofinando con intensità.
Sul piano di lavoro, colmo di fogli appuntati, libri, strumenti e bottiglie di vetro, Burke afferrò un piccolo flacone dall’etichetta grigia e unta: laudano. La svitò, versò venti gocce in un bicchiere d’acqua e bevve, sperando che le proprietà antispastiche e antidolorifiche dell’oppio intervenissero presto ad alleviare i lancinanti crampi allo stomaco che si presentavano puntuali, ogni volta che qualcosa andava storto nei suoi esperimenti.
Intanto, Edward Kelly aveva aperto il portellone e, dopo esser stato investito dal fumo e dall’odore pungente di carne bruciata, aveva raccolto tutto il coraggio possibile per estrarre, aiutandosi con una pala, i resti carbonizzati di quell’essere umano.
«Andate a casa».
«Serve altro?» domandò Edward dopo aver terminato di inserire in un sacco di iuta, grazie anche all’aiuto di John Dee, l’altro assistente, quanto raccolto.
«Passate domani sera. Saprò solo allora se mi servirà immediatamente altro materiale per il mio esperimento».
Senza aggiungere altro, i due uomini si avviarono verso le scale che portavano all’esterno, lasciando solo il dottor Burke, seduto a capo chino, accanto al tavolo.
«Cosa c’è che non va?».
Dopo aver trascorso una notte insonne, ingabbiato dagli incubi del nuovo fallimento, la mattina seguente Burke era di nuovo nel suo laboratorio. Ora, in piedi davanti alla macchina, cercava di capire perché, per la quarta volta, il risultato non era stato quello previsto.
Non trovando una risposta, si spostò verso il tavolo, fece un po’ di spazio sulla sua superficie e, individuati gli ultimi appunti e un paio di occhiali dalla montatura metallica circolare, indossò questi ultimi e ricominciò a ragionare.
L’idea era nata alcuni anni prima ed era partita da una semplice domanda: era possibile realizzare il trasporto istantaneo, o teletrasporto, della materia da un luogo ad un altro? Dopo aver speso mesi a riflettere sulla sua fattibilità, era giunto ad una conclusione: sì, era possibile.
Come? Utilizzando il potere delle macchine a vapore e un composto chimico formato da formaldeide, bromo e mercurio.
Secondo gli studi compiuti, il corpo sottoposto all’esperimento doveva essere riscaldato gradualmente sino a raggiungere una temperatura di 110° centigradi. Il composto chimico, iniettato all’interno dell’organismo due ore prima dell’inizio del test, avrebbe svolto una funzione protettiva, scongiurando una lenta combustione della carne e degli organi interni. Inoltre, per evitare che la sofferenza dovuta all’eccessivo calore conducesse alla morte della cavia prima del tempo, il fumo di oppio avrebbe svolto una funzione anestetica. Poi, raggiunta la soglia dei 110°, sarebbe avvenuta un’improvvisa esplosione che avrebbe fatto letteralmente evaporare il corpo. Il vapore creato sarebbe stato raccolto in un’apertura posta al centro della copertura superiore della “bara” e, attraverso un tubo, convogliato nell’altra camera, al cui interno vi era una sorta di “matrice a forma umana”, raffreddandosi progressivamente, sino a solidificarsi appena completato il passaggio nella matrice dove la temperatura sarebbe stata di -5 gradi, grazie ad un doppio rivestimento in metallo inframezzato da ghiaccio. Durante la fase di solidificazione, infine, da alcuni fori presenti sulle pareti della matrice, sarebbe fuoriuscito a poco a poco del sangue, prelevato dalla cavia prima di avviare l’esperimento nella quantità di circa mezzo litro, che avrebbe aggiunto la parte di “fluido vitale” al tutto.
Ma se ottenere gli elementi chimici e l’oppio era un’operazione relativamente semplice, il problema iniziale fu la realizzazione della macchina. E qui nacque la collaborazione con i due avventurieri John Dee ed Edward Kelly.
Conosciuti già di fama per le loro particolari doti affaristiche, il dottor William Burke li aveva salvati un pomeriggio da un garantito linciaggio che stava per avvenire in strada, non distante dal suo laboratorio. In cambio della salvezza, e di un tetto, i due avventurieri avrebbero offerto le proprie conoscenze e i propri servigi, ma anche lavoro fisico, al dottore.
E fu grazie a loro che entrò in possesso della caldaia di una locomotiva Rocket, sottratta ad uno dei vecchi mezzi abbandonati nei vari depositi della Waverley Station. E fu sempre grazie alla coppia che riuscì a realizzare, tramite fabbri di dubbia caratura umana, le due “bare” e il sistema di tubi che collegava il tutto.
«Devo variare le proporzioni degli elementi nel composto. È l’unica soluzione» rifletté a voce alta rileggendo le formule su uno dei fogli che reggeva tra le mani.
Afferrò allora la penna d’oca con pennino metallico che giaceva semisepolta dalle carte e, intinta la punta nel calamaio in porcellana, iniziò ad appuntare nuovi dati nel poco spazio ancora bianco dell’ultimo foglio letto.
Quattro ore e tre fogli fitti di numeri, sigle ed appunti dopo, poté ritenersi soddisfatto.
Senza provvedere dapprima ad un pasto, fece spazio sul tavolo e poi si spostò verso l’armadio a due ante posto non distante dalle scale. Recuperati alcuni flaconi e un alambicco, tornò verso il piano di lavoro. Poi si mosse nuovamente verso l’armadio per prendere anche un paio di guanti sottili in pelle d’agnello e una sorta di calotta, anch’essa in pelle, con inserti di vetro all’altezza degli occhi e un filtro per il naso, che avrebbe indossato per proteggersi dalle esalazioni risultanti dal processo di creazione del composto.
Poi iniziò a lavorare.
«Buonasera dottor Burke. Come va oggi? Le serve il nostro aiuto?».
«Buonasera signori. Direi proprio di sì».
«Ogni suo desiderio è un ordine» rispose servile Edward Kelly, accentuando le parole con un inchino e un sorriso beffardo, accompagnati dalla rimozione della bombetta dalla testa.
Erano da poco trascorse le diciannove e, da almeno un’ora, il buio aveva avvolto la città di Edimburgo. La coppia, dopo una giornata trascorsa in ambienti poco edificanti, tentando di giungere ad affari con personaggi poco raccomandabili, era ora nuovamente nel laboratorio dello scienziato.
«Solito?» domandò secco e risolutivo John Dee.
«Sì, solito».
Alla conversazione non fu aggiunto altro e i due uomini riguadagnarono di nuovo il mondo esterno, incamminandosi lungo il Royal Mile, in direzione Castello.
Superata Lawnmarket, rischiarata dalle poche luci fioche che, sorgendo dall’interno degli sporadici pubs che s’aprivano ai due lati della via, morivano all’esterno filtrate dai vetri opachi dei locali, Dee e Kelly proseguirono dritti lungo Castlehill. Ad ogni passo la luce diminuiva progressivamente mentre aumentava la presenza umana lungo i bordi della strada.
Figure malmesse, abbandonate, coperte da stracci e accartocciate su se stesse, erano decine e decine gli “invisibili” che avrebbero trascorso la notte all’aperto.
«Quello va bene?» disse d’un tratto Kelly indicando con un cenno del capo un uomo che distava circa venti metri dal loro punto d’osservazione.
«Credo di sì».
A prima vista, grazie al chiarore della luna, i due poterono ipotizzare un’età di circa trent’anni e, anche se non era possibile analizzarne tutte le caratteristiche fisiche, eccezion fatta per la palese immagine da mendicante, decisero che sarebbe stato quello giusto.
Dee estrasse dalla tasca interna della sua marsina una pipa e, portatala alla bocca, spenta, diede un colpetto al socio e iniziarono a camminare parlottando in direzione del prescelto.
«Il mio socio dice che non riuscirò a convincerla a seguirmi per offrirle un pasto caldo. Lei dice vincerà?» disse d’un tratto John Dee in direzione dell’uomo, appena giunti nei pressi, rimuovendo la pipa dalle labbra e indicando Kelly.
«Lasciatemi in pace» rispose infastidito senza alzare lo sguardo.
«Visto? Scommessa vinta!» esclamò l’altro.
«E lei non vuole un bel piatto di haggis, neeps and tatties stasera? Magari bevendo una buona birra scura? Ha già sfamato il suo organismo?».
«No. E voglio solo essere lasciato in pace».
«Un peccato davvero. Scommessa persa. Proverò con lui allora» dichiarò allargando le braccia Dee, indicando poi un altro uomo disteso poco distante da loro.
«Il vecchio Carl? No, se vai da lui allora accetto io» rispose di scatto il senzatetto risvegliandosi dal torpore.
«Visto? Scommessa vinta!» esclamò Dee e ammiccò all’altro.
Kelly chinò il capo in segno di sconfitta.
«Andiamo mio buon nuovo amico».
«Eccole il nuovo volontario».
«Dove siamo?» domandò il mendicante confuso.
«Tra amici, tranquillo» e Kelly lo colpì forte alla testa lasciandolo a terra privo di sensi.
«Ben fatto. Grazie».
Pochi minuti dopo l’adescamento, i tre, tra una battuta e l’altra scambiata con l’uomo senza nome, avevano raggiunto nuovamente il laboratorio.
Adesso, con una nuova cavia, un nuovo tentativo di trasporto istantaneo poteva prendere il via.
«Legatelo» ordinò il dottore.
La coppia afferrò l’uomo, lo adagiò senza cortesie su una sedia in legno e legò con delle corde i polsi ai braccioli. Poi fece lo stesso con le caviglie, allacciate strette alle gambe della sedia.
Lo scienziato, senza badare all’operazione svolta da Dee e Kelly, stava armeggiando sul tavolo con un paio di siringhe e alcuni contenitori. Una di esse era già carica, con il composto chimico formato da formaldeide, bromo e mercurio pronto per essere iniettato. L’altra, vuota, avrebbe ospitato, a più riprese, il sangue dell’uomo.
Afferrata la seconda, si spostò verso la cavia e, inserito l’ago nell’unica vena visibile nel braccio destro, avviò ad estrarre la linfa vitale del pover’uomo.
«Passami il recipiente».
Kelly, senza attendere dettagli aggiuntivi alla richiesta, raggiunse il tavolo, prese a colpo sicuro il contenitore giusto e lo porse al dottore.
Burke ripeté l’operazione più volte, finché il recipiente fu colmo.
Poi, tornò nuovamente verso il tavolo e, poggiati i due strumenti, prelevò con cura l’altra siringa.
«C-che succede? D-dove sono?» chiese stordito l’uomo ripresosi lentamente dal colpo.
«Shhh. Non ti preoccupare, sei tra amici» gli sussurrò all’orecchio Dee.
«C-cosa mi state facendo?» urlò poi in preda al panico, notando i lacci intorno a polsi e caviglie.
«Tranquillo. Stai per cambiare il corso della storia della Scienza» disse impassibile, con uno strano brillio negli occhi, lo scienziato mentre tornava accanto a lui.
Alla vista della siringa, l’uomo iniziò a scuotersi tutto, cercando in qualche modo di divincolarsi dalla stretta delle corde.
«Fermo, non voglio farti male».
Burke provò ad avvicinarsi alla vena ma i movimenti frenetici della cavia gli impedirono di compiere l’intera operazione.
«Bloccategli il braccio» ordinò appena intuito che sarebbe stato impossibile procedere.
Dee e Kelly eseguirono rapidamente e il dottore poté iniettare il composto, avvolto dalle urla del malcapitato.
L’uomo s’irrigidì e, pochi secondi dopo, perse nuovamente i sensi.
«Mettetelo nella macchina» comandò due ore dopo.
Immediatamente, i due assistenti, che intanto avevano speso il tempo dell’attesa giocando a dadi, liberarono la cavia dalle corde e, trascinatolo senza complimenti sul pavimento, lo gettarono nella “bara”.
In seguito, senza attendere un nuovo ordine, si avvicinarono alla caldaia e, tolte di dosso le marsine, attivarono la combustione al suo interno, pronti per alimentare le fiamme sino a raggiungere la temperatura richiesta dall’esperimento.
Il dottor Burke controllò lo stato della macchina, di alcune delle valvole e degli indicatori prossimi alle due “bare” annuendo soddisfatto.
«Andate con la legna».
E, mentre gli assistenti davano il via all’operazione, lui attivò il flusso di fumo d’oppio nell’apparecchio. Poi azionò una leva posta accanto alla “bara” che conteneva l’uomo e il vapore cominciò ad invadere il laboratorio.
Gradualmente la temperatura iniziò ad aumentare all’interno della macchina e fu solo quando superò i 40° che l’uomo riprese conoscenza. Giusto il tempo di osservare le pareti metalliche che lo ingabbiavano e sentire il calore che diveniva sempre più soffocante, e iniziò a gridare di terrore.
Burke, con gli occhi fissi su di lui, carezzandosi i lunghi baffi decise che sarebbe stato saggio aumentare la quantità di fumo d’oppio nella “bara”.
«Ancora legna! Ancora!» incitò i due uomini controllando il termometro che, al momento, aveva raggiunto i 60 gradi.
La sua eccitazione aumentò esponenzialmente quando, quasi a 80°, constatò che il corpo, anche se coperto da ustioni, non aveva preso fuoco e l’uomo sembrava addormentato sul fondo. Allora ordinò con più foga che venisse inserita altro legname nella caldaia.
D’un tratto, un crepitio sordo iniziò a farsi largo nell’ambiente. In un primo momento, il dottor Burke non riuscì ad individuarne la provenienza. Solo alcuni secondi dopo intuì che arrivava dall’interno della macchina. Il corpo stava reagendo alla temperatura giunta poco oltre i 90 gradi.
«Dottore, ehm, sta friggendo». Fu Edward Kelly che, incuriosito dallo strano rumore, aveva abbandonato per qualche attimo la sua attività per spostarsi accanto a Burke e osservare, attraverso l’oblò, l’interno dell’apparecchio.
Improvvisamente i due scattarono all’indietro all’unisono. Il corpo dell’uomo era esploso spalmandosi, sotto forma di poltiglia sanguinolenta, sulle pareti interne della “bara” e sul vetro della finestrella colpendoli alla sprovvista.
«Maledizione! Maledizione!» sbraitò portandosi immediatamente una mano al ventre e strofinando con forza.
I due assistenti restarono in silenzio, seguendo con lo sguardo i movimenti dello scienziato che, furioso, aveva raggiunto il tavolo e, in preda alla rabbia, aveva scaraventato a terra buona parte dei fogli e alcuni degli strumenti presenti su di esso. Poi, afferrata la boccetta di laudano, Burke versò venti gocce in un bicchiere cercando di attenuare il dolore allo stomaco.
«Aprite la macchina, pulite tutto e poi andate via».
«Buonasera dottor Burke. Come sta? Sono giorni che non abbiamo sue notizie ed eravamo preoccupati».
«Oh, cari! Capitate giusto a proposito! Entrate, entrate» rispose Burke con un tono strano, nuovo, quasi innaturale.
Dopo aver sperimentato ancora con altre quattro cavie, senza risultati, lo scienziato era entrato in uno stato di alterazione psichica profondo. Ossessionato dall’esperimento, e in preda a cieca rabbia, dopo l’ultimo fallimento aveva intimato ai due assistenti di non tornare mai più.
Aveva trascorso tutto il tempo in quell’ambiente, su quel tavolo, a scrivere, calcolare, analizzare, fare esperimenti: doveva individuare e risolvere il problema.
Intanto, dopo circa dieci giorni dall’ultimo incontro, Kelly aveva convinto Dee a ritornare nel laboratorio, almeno per constatare lo stato di salute del dottore e assicurarsi che la concessione dell’alloggio offerto loro tempo addietro non venisse meno.
Ed ora il dottor Burke era lì, con uno strano sorriso stampato sul volto, i segni della calotta protettiva sul viso, gli occhi spalancati e iniettati di sangue.
A terra, una montagna di fogli appallottolati, frammenti di contenitori di vetro, scarti di cibo, chiazze liquide: tutto contribuiva ad accrescere il lezzo acido che aveva colto di sorpresa i due uomini appena entrati.
«Va tutto bene?» domandò nuovamente Edward Kelly.
«Oh, sì sì! Va tutto a meraviglia! Ho risolto l’enigma! Siamo pronti per entrare nella storia della Scienza!» esclamò euforico.
«Siamo felici per lei».
E, senza che i due domandassero quale fosse l’errore, Burke spiegò che, banalmente, era l’assenza di acqua il problema. Il corpo è fatto per buona parte di acqua e, l’assenza di tale elemento frenava la riuscita dell’esperimento. Quindi ha aggiunto una parte di acqua nel composto chimico e uno strato di ghiaccio all’interno della camera ricevente, quella con la “matrice” che, al contatto con il “vapore umano” e il sangue, si sarebbe sciolto per entrar a far parte integrante della ricostruzione del viaggiatore.
«E funzionerà?» chiese dubbioso Dee, dopo aver ascoltato le parole del dottore, accompagnate da ampi gesti delle mani e un frenetico andare avanti e indietro tra le due “bare”.
«Certo!».
«Quindi andiamo a procurarci un nuovo volontario?».
«Oh, no no! Il volontario è già qui!».
I due scambiarono uno sguardo interrogativo cercando di capire chi tra di loro, secondo il delirio dello scienziato, avrebbe dovuto trovare la morte in quella macchina infernale.
«No, tranquilli! Non sceglierò voi… Ci andrò io!» dichiarò enfatico alzando una mano aperta al cielo.
«Ma è sicuro? Non ci vorrà molto, come sempre, a recuperare qualcuno» rispose sempre più perplesso Dee.
«No, no! Questa volta nulla andrà storto».
«Sarà» disse sottovoce Kelly.
«Ora vi spiego cosa fare, poi avrà inizio l’esperimento».
Terminata, sin nei minimi dettagli, l’esposizione dei passaggi da compiere, il dottor Burke si sedette accanto al tavolo, posizionando vicino a sé tutti gli strumenti necessari alla preparazione. Afferrata la prima siringa vuota e portato l’ago verso il suo braccio sinistro, con estrema naturalezza iniziò a prelevare il proprio sangue.
Ultimata l’operazione, mentre i due assistenti osservavano quasi ipnotizzati la semplicità di quei gesti, lo scienziato prese la siringa che conteneva il composto chimico e la iniettò nel suo corpo.
Pochi secondi e il suo corpo si spense.
«Ora toccherà attendere due ore prima di metterlo lì dentro, giusto?» domandò Kelly.
«Esatto».
Precisamente centoventi minuti dopo, i due assistenti ponevano con cura il corpo del dottore nella “bara”.
«A me sembra tutto pronto qui» disse Dee, grattandosi la testa, dopo aver verificato i dati degli indicatori.
«Vado con la legna?».
«Sì. E speriamo bene».
Dopo aver attivato il flusso di fumo d’oppio e la leva, il vapore cominciò a riempire l’ambiente, mentre John Dee raggiungeva l’altro per aiutarlo con l’alimentazione della caldaia.
A cadenza regolare di cinque minuti, Dee lasciava la sua postazione e raggiungeva la “bara” per verificare la temperatura e le condizioni del dottore al suo interno.
«Vieni! Dovremmo esserci ormai!» urlò all’altro quando i gradi all’interno della macchina erano ormai prossimi ai 110.
Kelly, con passi rapidi, fu subito accanto al collega.
Neanche il tempo di gettare lo sguardo oltre l’oblò e un lampo accecante investì i due facendoli arretrare.
Riconquistato l’uso della vista, i due uomini scrutarono nuovamente all’interno della macchina notando solo una sorta di denso vapore che, muovendosi verso l’alto, scompariva all’interno di un’apertura.
«Ma… ma…» balbettò Kelly
«Sembra ci sia riuscito davvero».
«È incredibile».
I due uomini, increduli, diedero un’ultima occhiata all’interno, constatando nuovamente l’effettivo vuoto.
«E adesso?».
«Toccherà attendere un’ora per il passaggio completo del corpo in forma gassosa nell’altro apparecchio e poi la sua solidificazione».
Trascorsero i minuti con uno strano nervosismo addosso. Nonostante, in tutto questo tempo, non avessero mai provato un reale interesse nell’esperimento, ora, forse per l’aver avuto finalmente una parte attiva, forse perché sembrava davvero prossimo alla riuscita, Dee e Kelly faticavano a restare calmi e lucidi in vista del risultato finale.
«È ora!» esclamò d’un tratto John Dee.
Di corsa raggiunsero la seconda “bara” e, dopo aver controllato il valore del termometro collegato alla camera interna, Kelly elemosinò con lo sguardo la possibilità di azionare la leva che avrebbe aperto il portello.
L’altro annuì.
Su questo apparecchio non vi era un oblò che permettesse la visione al suo interno e, impaziente, Kelly abbassò velocemente la barra.
La porta emise un forte sibilo, poi fuoruscì del vapore.
D’un tratto, Dee sentì freddo ai piedi, come fossero bagnati. Abbassò lo sguardo e notò una pozza di acqua e chiazze rossastre sul pavimento che avviluppava le sue scarpe.
Di scatto allungò una mano verso il portello e tirò. L’interno della macchina era vuoto.
«Mi sa che qualcosa è andato storto. Di nuovo» commentò amaramente Kelly.
«Peccato».
«Io, comunque, l’alloggio non lo lascio».
(pubblicato nell’antologia “Steam Tales” – NeroPress Edizioni, 2021)
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