«C’è qualcosa nello scarico del lavandino».
«In che senso?».
«Qualcosa di strano».
«Strano? Saranno scarti di sapone e capelli. Torna a dormire, Adolfo» disse con un evidente tono di fastidio la moglie.
«No, sembra vivo» ribatté lui convinto.
«Vivo? Smettila Adolfo, sono le tre di notte» e si voltò dall’altro lato troncando definitivamente la surreale conversazione.
«Non sono pazzo» e, poco convinto, l’uomo sulla quarantina, nel suo pigiama di flanella tartan a prevalenza rosso, clan Fraser, riprese la sua posizione supina accanto alla donna, dopo aver spento sbuffando la lampada sul comodino.
«Cosa sei? Ti vedo» disse a voce bassa Adolfo focalizzando la propria attenzione oltre i sei fori dello scarico metallico del lavandino del bagno.
«Vediamo se così vai via» e aprì il rubinetto dell’acqua calda.
Il getto, mulinando vorticosamente, superò la via di fuga senza ostacolo alcuno.
«È ancora lì».
Afferrò allora lo spazzolino da denti, dalla parte delle setole, e infilò il manico in uno dei fori, con forza, rovinando progressivamente i bordi della asticella di plastica. Cinque, sei, sette volte. Ad ogni colpo lo “strumento di morte” improvvisato raggiungeva una nuova profondità, pagando dazio lasciando parte di se stesso nello scarico.
Soddisfatto del lavoro svolto, l’uomo s’arrestò.
«Ancora lì? E ora ci penso io a te» e, lasciato l’ambiente, si diresse verso il ripostiglio.
Raggiunto lo scaffale che conteneva tutta la sua artiglieria da handyman, individuò un cacciavite a stella ed un martello: con il primo avrebbe concesso una libertà effimera alla “cosa”, col secondo ne avrebbe reclamato, invece, il tributo di sangue. Prima di uscire, però, l’occhio dell’uomo cadde sul flacone di candeggina, lo agguantò e lo portò via con sé.
Tornato in bagno, prima di mettere in pratica l’idea originale, versò tutta la soluzione di ipoclorito di sodio contenuta nella bottiglia nello scarico, con la speranza di procurare qualche ustione al nemico.
Dopo aver atteso qualche minuto per un risultato, e visto il suo non palesarsi, Adolfo prese il cacciavite e iniziò a svitare l’unica vite posta al centro del disco metallico forato che separava la luce del mondo esterno dal buio del tubo sottostante.
Pochi secondi e l’asticella filettata lasciò la sua guida, arrestando la sua corsa nel lavandino.
Estratto lentamente il dischetto metallico bucherellato, Adolfo gettò un occhio verso il suo interno.
«Dove ti sei cacciato?» domandò al buio restituito dal tubo che solitamente indirizzava l’acqua fuoriuscita dai rubinetti verso l’ignoto.
Percosse il cacciavite sulla vasca cercando, con il rumore, di far tornare “a galla” l’essere ignoto. Nulla.
«Non sono pazzo. C’è qualcosa lì» e s’avvicinò per osservare meglio al suo interno.
Fu un lampo. Quando il suo volto era ormai a pochi centimetri dall’apertura, una mano comparve all’improvviso e, afferratolo per la maglia, lo trascinò giù.
Preso alla sprovvista, l’uomo iniziò ad urlare solo quando la luce alle sue spalle era ormai divenuta un piccolo punto luminoso indistinto.
Poi perse conoscenza. La riacquistò solo quando il suo viso fu colpito da continue gocce d’acqua.
«Dove sono?».
Nessuno rispose.
«E perché ho tutti gli abiti appiccicosi?» si lamentò toccandosi la maglia e percependo sulle dita un liquido colloso.
«È sapone. O meglio, scarti di sapone» rispose una voce dal tono piatto.
«Chi ha parlato? Dove sei?» domandò Adolfo osservandosi intorno senza obiettivi distinguibili. Era ancora buio.
Provò allora ad abbozzare qualche passo nell’oscurità ma i suoi piedi rimasero avvinghiati in qualcosa di anomalo che stringeva sempre più ad ogni suo tentativo di liberazione.
«Perché non riesco a camminare?» urlò impaurito.
«Sono i capelli di tua moglie».
«Fatti vedere!» gridò mentre tentava inutilmente di strappare via il giogo alle caviglie, procurandosi dei piccoli tagli alle mani.
Un rumore sordo, intanto, entrò di prepotenza nel suo campo uditivo, distogliendo, per qualche attimo, la sua attenzione dai capelli.
«Che succede ora?».
«Lo vedrai».
All’improvviso, un fiume in piena lo investì alle spalle, strappandolo via dalle “sabbie mobili” e trasportandolo per un tempo e uno spazio indefinito.
«A-aiuto! A-affogo!» gridò l’uomo affiorando e scomparendo dalle acque.
Poi tutto cessò.
Adolfo si rialzò a fatica, fradicio, cercando di sputare qualcosa che gli ostruiva la gola.
«Sono peli della tua barba» disse la voce senza attendere la domanda.
L’uomo cercò ancora di liberarsi le vie respiratorie, aiutandosi con continui colpi di tosse, finché, dopo ulteriori sforzi, riprese a respirare regolarmente.
«Perché sono qui? Perché mi fai questo?» piagnucolò senza ottenere risposta.
Avanzò lentamente, saggiando ogni passo, fin quando non udì nuovamente quel rumore sordo. Si voltò di scatto, immaginando fosse la direzione da cui sarebbe giunta la nuova bomba d’acqua, e attese. Valutazione errata. Il fiume lo colpì violentemente alle spalle, impetuoso, trascinandolo nuovamente via.
Ancora una volta l’uomo lottò per la sopravvivenza, finché non accadde qualcosa di nuovo, inaspettato. Era ancora nel bel mezzo del flusso liquido, quando percepì un vuoto sotto di sé e iniziò a volare verso il basso.
Il tonfo fu forte e doloroso. Tra lamenti, riuscì a riguadagnare faticosamente la posizione eretta accorgendosi, solo dopo aver aperto gli occhi, che flebili bagliori provenivano da alcune aperture poste ai lati dello spazio in cui si trovava.
«D-dove sono ora?».
«Lo scoprirai presto» fu la risposta sibillina.
Lo strano silenzio seguito alle parole della voce fu frantumato da uno scalpiccio rapido. Numerose zampette avanzavano all’impazzata sul suolo dirigendosi verso di lui.
«C-cosa succede?» domandò terrorizzato.
«Voltati e vedrai».
Girò il capo e, in pochi istanti, una massa indistinta di pelli ispide e musi a punta, con tanto di baffi, gli venne incontro come una valanga inarrestabile.
L’uomo, con un briciolo di lucidità, balzò verso la parete alla sua destra, schivando di poco il torrente impazzito di roditori.
«T-topi giganti?!».
«Ratti, per la precisione. E no, dimensioni standard».
«Perché sto subendo questo?».
Nessuna risposta, in questo caso, venne in soccorso.
«Almeno indicami come uscire da questo incubo!» urlò.
«Usa la logica».
Adolfo si fermò a riflettere, mentre un nuovo scroscio d’acqua arrivò ad inzuppargli le gambe. I suoi piedi vennero avvolti da una poltiglia verdastra e densa.
«Che schifo è?!».
Poi, senza attende delucidazioni dall’altra parte, s’incamminò, seguendo la direzione dei ratti. Superò a fatica il tracciato acquitrinoso che s’apriva davanti a sé e, d’un tratto, un imponente fascio di luce lo colpì in pieno viso.
«L’uscita!» gridò sollevato.
Iniziò a correre verso la fonte luminosa, sempre più forte, che proveniva da un qualcosa che viveva al di là di una grata metallica posta a dividere i due “mondi”.
Giunto al “confine”, allungò il collo oltre una delle ampie aperture della griglia e osservò oltre.
«Oh dio!».
Davanti a lui, l’acqua putrida che aveva accompagnato il suo passo, compiendo un salto nel vuoto, terminava in un’infinita distesa d’acqua grigiastra.
«E ora?».
«Sta a te decidere».
Si guardò intorno e, dopo un’ulteriore occhiata verso il basso, non trovando soluzioni migliori, saltò.
«Ma cosa…».
Era in attesa di impattare con lo specchio d’acqua quando sentì degli artigli afferrarlo alla vita. Un’aquila reale, dal piumaggio fulvo, l’aveva colto al volo nel suo viaggio e ora, tenendolo stretto tra le sue zampe, lo conduceva verso la propria dimora.
«Aiuto!» urlò disperato.
Ma il viaggio fu breve. Nel giro di meno di un minuto, il rapace planava sul suo nido, lasciando la presa.
Nella caduta, Adolfo sbatté il capo contro una serie di bastoncini per la pulizia delle orecchie intrecciati sapientemente a frammenti di plastica. Il nido dell’aquila reale era quasi ultimato e pronto per accogliere delle uova.
Pochi attimi dopo, l’uccello era di nuovo in volo, scomparendo dalla vista dell’uomo rapidamente.
Quest’ultimo s’alzò dolorante, s’avvicinò al bordo del nido e guardò verso il basso notando una serie di “liane” che collegavano il ramo su cui era posta la tana del rapace al terreno. Era un ficus magnolioide e le sue radici aeree colonnari, una sorta di tronchi sottili, avevano toccato terra dopo aver “soffocato” la pianta ospite.
Adolfo decise allora che l’unica soluzione per evitare un nuovo incontro con l’uccello sarebbe stata quella di calarsi sfruttando una delle liane e, superato l’orlo di plastica del nido, abbracciò quella più vicina e si lasciò scivolare lentamente.
Non senza sforzi, cercando di tenere sempre salda la presa, l’uomo raggiunse il suolo e iniziò a camminare osservando, guardingo, il paesaggio circostante.
«Non deve mancare molto al mare. Ma una volta lì, che faccio?» domandò a se stesso, conscio di non avere una risposta esaustiva al riguardo.
Avanzò ancora, sempre vigile, finché un puzzo tremendo arrivò improvvisamente ad impossessarsi delle sue narici. Portò due dita a pinza sul naso e proseguì.
Pochi passi e la sua attenzione fu rapita da pinnacoli di fumo grigiastro che, principiando dal basso ed espandendosi verso l’alto, si fondevano in cielo con le esalazioni più prossime creando una cappa impenetrabile. Notò solo in un secondo momento la loro provenienza: il mare.
«Ma cosa diavolo è?».
«Come lo sturi il lavandino di solito?». La voce ricomparve.
«Con la candeggina» rispose meccanicamente Adolfo.
Poi comprese.
Sulla superficie dell’acqua, intanto, iniziarono ad affiorare carcasse di pesci marcescenti. E l’aria si fece ancor più irrespirabile.
L’uomo indietreggiò e, d’un tratto, uno dei pesci, in un ultimo, imprevisto guizzo di vita, salta dall’acqua verso di lui e lo ingerì.
«No! No! Aiuto!».
«Adolfo, ma cosa urli?».
«Non voglio morire così!».
«Così come? Nel letto? Sono le quattro, per l’amor di dio, dormi!».
(pubblicato nell’antologia “Racconti da sogno – Vol. 3″ – Historica, 2020)
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