«Luca, la cena è in tavola».
La donna attese quasi un minuto prima di ripetere nuovamente la frase, con la stessa intonazione e la stessa cadenza, ottenendo lo stesso risultato infruttuoso.
Allora Marisa, a passo lento, lasciò la sala da pranzo e si spostò verso la camera di suo figlio. Pochi metri superati faticosamente. Quella frattura spiroide di tibia e perone, testimonianza dell’incidente d’auto occorsole quasi tre anni prima, le procurava ancora un dolore costante, impedendole di deambulare correttamente.
«Dai, Luca. Si fredda tutto».
Il ragazzo, raggiunto dalle parole della madre, non si voltò. Seduto su una vecchia sedia in pelle imbottita con braccioli, usurata dal costante utilizzo, il suo sguardo era focalizzato sull’unico oggetto che, poggiato su una colonnina di marmo bianco con venature verdastre, occupava la parete opposta all’ingresso della stanza: un’urna funeraria in vetro soffiato trasparente.
Sigillata con un tappo di sughero, a sua volta rivestito da un coperchio in ceramica grigio, al suo interno custodiva le ceneri di Alberto, suo fratello gemello.
Marisa osservò silenziosa il figlio che dondolava leggermente avanti e indietro ripetendo, quasi come un mantra recitato a denti stretti, le parole “Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario” incise sul pendente rettangolare in oro con angoli arrotondanti legato ad una collanina a maglia forzatina, dello stesso metallo prezioso, che galleggiava sospesa nella porzione superiore dell’urna.
D’un tratto, Luca si voltò gelando con un’occhiata sua madre.
Lei portò istintivamente una mano sul volto, quasi a verificare col tatto l’effettiva presenza di quella chiazza rossastra che campeggiava sulla sua guancia destra da un paio di giorni.
«Non toccarlo».
«Certo, Luca. Sto venendo con te a cenare».
«Non toccarlo!» urlò feroce.
La donna fu scossa da un brivido freddo. Poi si voltò tremante e, a passo incerto, tornò verso la sala da pranzo.
Quando Luca arrivò, quel semplice piatto di penne rigate al sugo era diventato un blocco cementizio che il ragazzo affrontò a morsi.
«Non ti preoccupare, vado io con mamma in ospedale».
«Sei sicuro? Posso fare una pausa e riprendere a studiare più tardi».
«Tranquillo, Luca. Pensa all’esame» e, sorridendo, Alberto aveva lasciato suo fratello in camera, con i libri di Antropologia culturale, ed era uscito con sua madre.
Una mammografia, semplice esame di routine. Quasi un’ora di attesa in sala d’aspetto, la visita e poi il rientro a casa.
«Alberto, visto che Luca non c’è, posso guidare io? Lo sai che lui è ansioso ma, quando andrete via di casa, io dovrò pur essere autonoma. Sono sola…» e sull’ultima parola gli occhi le si inumidirono.
«Va bene, mamma».
La donna schioccò un bacio sulla sua guancia e salì a bordo della vettura, lato conducente.
«E vai piano» suggerì il figlio.
Lei annuì sorridente.
Tra il nosocomio cittadino e l’abitazione dei tre, situata in un vicino borgo, vi erano meno di otto chilometri di strada.
Luca stava studiando la cerimonia del potlach, il banchetto rituale che si svolge tra alcune tribù di nativi americani, come i Kwakiutl della Columbia Britannica in Canada, analizzata da Franz Boas in uno dei suoi vari studi antropologici, quando il telefono squillò. Era l’ospedale.
C’era stato un’incidente, sua madre e suo fratello erano arrivati in pronto soccorso in ambulanza. In preda al panico, Luca corse in pantofole fuori casa, entrò nella sua auto e partì.
«Sì, la donna s’è salvata solo perché era alla guida. Il camion li ha presi in pieno sull’altro lato. Povero ragazzo, non so se ce la farà».
Queste parole, pronunciate con naturalezza da uno degli operatori dell’ambulanza che, al suo arrivo, stava chiacchierando sull’uscio del pronto soccorso con alcuni infermieri, come un lampo entrarono nella sua mente e, non trovando ostacoli, guadagnarono immediatamente la via di fuga.
«Dove sono?» domandò agitato al gruppetto.
«Chi?».
«Mia madre e mio fratello. C’è stato un’incidente poco fa».
«Ah, sì. Vieni con me» rispose un’infermiera e l’accompagnò all’interno della struttura.
Il ragazzo venne lasciato nella sala d’aspetto e, pochi minuti dopo, un medico l’aggiornò dicendogli che entrambi erano in sala operatoria. Nessun dettaglio ulteriore.
«Come stai? Che è successo?».
«N-non lo s-so… N-non lo s-o…».
Un paio d’ore dopo, sua madre venne traferita in camera. Luca provò a capire qualcosa di più sull’accaduto ma la donna era in stato confusionale.
«E Alberto?».
«N-non lo s-so…».
«Lei è il fratello di Alberto?» la domanda giunse alle spalle.
«Sì, perché?».
«È uscito dalla sala operatoria. Mi segua» disse con tono distaccato e professionale il medico.
«Come sta?».
«Abbiamo fatto il possibile» rispose senza aggiungere altro.
Quando entrò nella sua stanza, trovò suo fratello sdraiato sul letto senza nessuna flebo o macchina a coadiuvarlo nella lotta per la vita.
«Cosa significa?» domandò stordito al dottore.
«Non c’è più nulla da fare. Possiamo solo decretarne il decesso. Mi spiace».
«M-ma… m-ma…».
A passo incerto s’avvicinò ad Alberto. Prese la sua mano e accarezzò il suo volto con deferenza, quasi non volesse svegliarlo. Poi, percependo il freddo che avanzava nel corpo del fratello, realizzò.
Urlò rabbiosamente prima di correre via.
“Sì, la donna s’è salvata solo perché era alla guida. Il camion li ha presi in pieno sull’altro lato. Povero ragazzo, non so se ce la farà”.
«Sei stata tu».
«C-cosa?».
«Tu hai ucciso Alberto».
Quella frase deflagrò nella mente di Luca circa un mese dopo la morte del fratello. Sino ad allora il ragazzo aveva vissuto in uno stato di sospensione, chiuso in camera sua, senza contatti col mondo esterno. Aveva anche evitato di approfondire la conoscenza della dinamica che aveva portato alla scomparsa del suo gemello, quasi negandola. Ma ora qualcosa era cambiato, aveva un colpevole.
«Tu. Perché eri alla guida dell’auto?».
«I-io… i-io… S-scusami tanto Luca» e scoppiò in un pianto convulso.
La fissò con una strana espressione negli occhi.
«Lo voglio qui con me. Per sempre» disse poi all’improvviso, sorvolando sul dolore della madre.
Lei tentò di asciugarsi le lacrime, poi domandò confusa: «C-come? N-non capisco».
«Voglio che Alberto sia cremato. Le sue ceneri le voglio in camera nostra».
La madre, spiazzata dalla richiesta, dopo due giorni cedette e l’urna funeraria entrò a far parte della mobilia della stanza una volta condivisa dai gemelli.
L’inserimento della collanina all’interno del contenitore vitreo fu una volontà di Luca. Entrambi, sin dalla nascita, avevano portato al collo quel regalo del defunto padre. Dopo l’incidente, l’esemplare appartenuto ad Alberto non venne rinvenuto e Luca decise di sacrificare il proprio.
«Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario. Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario» ripeteva ossessivamente, quasi con un sibilo, Luca.
«Luca, il pranzo è in tavola».
«Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario. Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario».
«Ti aspetto di là».
Luca si voltò e disse: «L’hai toccato».
«No, Luca. Non l’ho toccato».
«L’hai toccato! Non farlo mai più!» e, alzatosi di scatto, con pochi passi rapidi fu addosso a sua madre colpendola violentemente al volto.
La donna cadde al suolo terrorizzata. Attese che il figlio riprendesse la sua posizione sulla poltrona tenendosi tra le mani il viso tumefatto. Poi, con gran fatica, riuscì a rimettersi in piedi e a lasciare la stanza.
Attese per oltre venti minuti l’arrivo di Luca in sala da pranzo e, non vedendolo apparire, in lacrime, iniziò a mangiare. Pochi bocconi freddi, poi scostò il piatto e, incrociate le braccia sul tavolo e poggiata su la testa, pianse convulsamente.
Dal giorno in cui le ceneri erano arrivate in casa, il rapporto con suo figlio s’era arenato su quell’unico scambio dialettico e la costante sofferenza dovuta alla morte di Alberto la stava erodendo dall’interno lentamente. Il dettaglio delle percosse era una novità introdotta di recente da Luca e Marisa, impotente, subiva senza reagire.
Terminato lo sfogo, la donna, alzò gli occhi senza incrociare quelli del figlio. Allora si alzò e tornò nuovamente in camera sua.
«Luca, il pranzo è ormai freddo. Ti preparo altro?» disse prima di accedere.
Una volta raggiunto l’ingresso, constatò l’assenza del ragazzo.
«Luca, d-dove sei?».
Pochi secondi di smarrimento, poi il rumore dello sciacquone proveniente dal bagno attiguo arrivò in soccorso.
Si voltò e lo trovò immobile, dietro di sé. La donna rabbrividì.
Luca passò oltre senza degnarla di uno sguardo e s’avvicinò all’urna.
«L’hai toccato».
«No, Luca. Non l’ho toccato».
«L’hai toccato! Non devi toccarlo! Mai!» gridò furibondo.
«M-ma n-non l’ho t-toccato» e, irrazionalmente, Marisa fece qualche passo verso il figlio.
«L’hai toccato».
«N-no, te lo giuro».
Luca volse d’un tratto lo sguardo verso sua madre, che era giunta al suo fianco, e la colpì con veemenza.
La donna fu presa alla sprovvista e, per evitare di cadere rovinosamente a terra, allargò un braccio in cerca di un appiglio, urtando accidentalmente contro l’urna funeraria.
Il contenitore vitreo volò seguendo la traiettoria della donna, terminando il suo percorso sul pavimento. Frantumandosi.
Il gelo avviluppò immediatamente la stanza.
Luca, senza dire nulla, si chinò sulle ceneri del fratello. Le prese tra le mani e le accarezzò, poi le lasciò fluire come sabbia tra le dita.
«Luca e Alberto. 09/02/1984. Acquario» disse a bassa voce dopo aver afferrato il pendente aureo.
«S-scusami» abbozzò Marisa cercando di rimettersi in piedi.
Senza ascoltarla, Luca adagiò l’oggetto sulle polveri e prese uno dei frammenti dell’urna, stringendolo forte nella mano sino a lacerarsi il palmo.
Con il sangue che colava sul pavimento, il ragazzo, riguadagnò la posizione eretta e concentrò la sua attenzione sulla madre.
«S-scusami, Luca» proseguiva a piagnucolare la donna, sopraffatta da tremori di terrore.
«L’hai toccato» disse freddo.
Poi fu un lampo. Luca allungò la mano sanguinolenta verso la gola della mamma e la sgozzò.
«Alberto, ti ha toccato» si giustificò fissando le ceneri del fratello.
Infine, puntò il coccio vitreo sulla sua gola e affondò.
(pubblicato nell’antologia “I signori del thriller” – Rudis Edizioni, 2021)
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