I Paralumi della Ragione (2017)
Andromeda Relix/Lizard Records
Il 2017 s’è aperto con I Paralumi della Ragione, il nuovo album della band di Rock Degressivo Italiano Astrolabio, séguito de “L’Isolamento dei Numeri Pari”.
Partiti con l’idea di realizzare un concept album incentrato sulla memoria, Michele Antonelli (voce, chitarra e flauto traverso), Alessandro Pontone (batteria), Paolo Iemmi (basso e voce) e Massimo Babbi (tastiere) hanno poi virato verso la satira politica, tratteggiando un’immagine della realtà sociale, politica e culturale del nostro tempo, e nello stesso contesto, prendendo in giro i detentori del potere, responsabili o complici dello stato delle cose. Il quartetto ha reso il tutto sotto forma di viaggio onirico vissuto da un anonimo protagonista che si scontra con questi vari mondi.
E il sound che caratterizza I Paralumi della Ragione è quello “tatuato” nel DNA degli Astrolabio: una forte componente di progressive rock, di quello hard, miscelata sapientemente a momenti più delicati e riflessivi. Nelle soluzioni di basso mai scontate e nelle voci “sempre sul pezzo”, nelle distorsioni corpose e nei fraseggi acustici delicati delle chitarre, nelle tastiere camaleontiche e nella batteria sempre puntuale e incisiva troviamo enormi dosi di originalità e capacità tecniche. Ed ecco, poi, zampillare qui e là quei velati (ma non troppo) richiami che fanno emergere la forte ispirazione settantiana della band: L’Uovo di Colombo, The Trip, Il Rovescio della Medaglia, Jumbo e altri ancora (non solo italiani).
Importante è la schiera di ospiti che ha partecipato alla realizzazione dell’album: Lucia Caffini (violino in Nuovo Evo), Francesca Marangoni (cori in Nuovo Evo e Sui muri), Marco “Marchodico” Ciscato (solo in Nuovo Evo), Andrea Calzoni (flauto traverso in Pubblico impiego e Otto oche ottuse), Massimo Piubelli e Zeno Antonelli (coro in Otto oche ottuse).
Il primo elemento de I Paralumi della Ragione che, però, salta decisamente all’occhio è senza dubbio l’affollata immagine di copertina realizzata da Marco Triolo. Un salotto “buono” che vede raffigurati, in una forma di intelligente sarcasmo, una serie di personaggi noti, da letterari a musicisti, da personaggi della TV a musicisti (da Umberto Eco a Kurt Cobain, da Uan a Frida Khalo). Per saperne di più su tutti i presenti basterà interpretare le brevi e argute descrizioni presenti in fondo al libretto (Menestrello del Re Cremisi, Pessimista di Danzica, Sbirro sempre in replica, ecc.).
L’album si apre con Dormiveglia #1 (Black), il ponte d’andata nel passaggio tra conscio e sogno, in cui le vicissitudini del Nostro cedono il passo a paure e speranze gelosamente custodite nell’io sommerso. Sono il lieve arpeggio di chitarra di Antonelli e una nutrita schiera di grilli a cullare il protagonista in un soffice incedere che richiama “Blackbird” dei Beatles, come confessato dallo stesso Antonelli, e “Dolcissima Maria” della PFM.
Con Nuovo Evo, invece, si parte fortissimo. L’acida tastiera di Babbi fa da apripista agli impetuosi chitarra, batteria e basso: soluzioni hard dritte in faccia. La voce graffiante e incavolata di Iemmi, poi, mette sul piatto tutte le storture della società attuale, situazioni grottesche che ci trascinano in un “vortice immobile”: Niente di personale ma qualcosa dovrà cambiare/ Nulla da dichiarare riguardo al porno elettorale; solo nuovi porci da candidare […] / Uomini vecchi e sordi, delegati a spender sogni, / delegati ad imbottirsi dei nostri soldi / Sistema paese e paese reale: concetti diversi ma sostanza uguale / Un Nuovo Evo è a un bivio tra vecchio e un fresco status quo. E il flusso prosegue costante e compatto con un gran lavoro di basso e ottime intuizioni di chitarra (c’è anche lo zampino di Marco “Marchodico” Ciscato) e tastiera. E sul finire compare qualche barlume à la Area, con l’ingresso in scena dei cori di Francesca Marangoni.
Si prosegue con la bizzarra e mutevole Una cosa. Inizialmente sognante e cadenzato, il brano si rivela concettualmente vicino ai Picchio dal Pozzo di “Abbiamo tutti i suoi problemi”, soprattutto nel testo nonsense (Ho scritto una cosa che si avvita su sé stessa, / si ferma una nota dove un’altra già l’aspetta […] / Ma poi questa cosa prende una piega inattesa, una piega in attesa: / la nota si posa e la penna resta appesa […] / Ma se da cosa nasce cosa, cosa nasce da una cosa / che ricorda qualcosa somigliante ad un’accusa? […]). I continui cambi di ritmo e di atmosfera danno vita ad una canzone “diversa” che prenda in giro sé stessa e che esplode sul finire. Come accaduto nel brano precedente, e come sarà nei prossimi, in questi oltre sette minuti emerge tutta l’abilità del quartetto.
Ancor più folle e articolato di Una cosa appare Pubblico impiego. Nei primi minuti l’unico “regolare” è Pontone, mentre le corde di Antonelli e Iemmi serpeggiano tra le note seventies di Babbi, con la chicca del canto distorto che ricorda Greg Lake in “21st Century Schizoid Man”. Il flusso resta intenso e vivace per oltre metà brano, lo spazio necessario per narrare il mal costume italico per antonomasia legato alla burocrazia ed ai privilegi dei dipendenti statali ed affini, raccontando attraverso una novella kafkiana la metamorfosi di un topo che, tramutatosi in impiegato, non sconta alcun pregiudizio agli occhi degli altri ma che, anzi, acquista e mantiene inalterati ruolo e privilegi del suo nuovo status. Poi segue una sorta di rilassamento da cui emergono, in un crescendo, le note andersoniane del flauto di Andrea Calzoni. Il tutto è impreziosito dal simpatico sample estratto dalla celebre scena della telefonata di “Fantozzi contro tutti”.
Arte(Fatto). Gli Astrolabio sono abili nel ricamare anche struggenti ballate come questa che si pone giusto a metà percorso, in cui il delicato arpeggio di chitarra acustica si fonde perfettamente con il canto amaro. Ad aggiungere pathos, in seguito, ci pensa il piano di Babbi che poi si ritaglia uno spazio tutto suo negli ultimi minuti. E nelle parole rivive l’“eterna lotta” tra l’artista e il fruitore, si esprime il senso d’inadeguatezza dell’artista, dibattuto fra critica e pubblico, che mai afferra il senso del proprio valore, frustrato dalla discrepanza tra la sua opinione riguardo le proprie opere ed il corrisposto economico, che quindi non lo gratifica affatto (Troppo lucido, poco avvezzo al senso pratico / È ridicolo, non ha chiesto mai un centesimo… / Eppure pagano! / Caso clinico, corrisposto ad un gusto estetico / poco economico […]).
Otto oche ottuse, come ammesso da Antonelli, è un breve brano ispirato ad una vecchia “cavalcata prog” strumentale degli Elettrosmog (precedente fisionomia degli Astrolabio), è una sciocca favoletta strumentale sul viaggio intrapreso da otto oche appunto, sui cieli dell’Inghilterra. Molto fresca nella sua parte iniziale, con rimandi alla PFM, s’inasprisce con l’ingresso in scena delle pesanti distorsioni, prima di “chiudere il cerchio”. Una curiosità: tra gli ilari cori che compaiono poco oltre la metà del percorso troviamo il piccolo Zeno Antonelli (quattro anni), il figlio di Michele.
Un doppio filo lega La casa di Davide a “Luglio, agosto, settembre (nero)” degli Area: innanzitutto il tema del testo ispirato al dramma del popolo palestinese e poi l’intro recitato da una voce femminile (in questo caso un testo di Mahmoud Darwish). È il basso di Iemmi a dettare i tempi nella parte iniziale, in un’atmosfera che gradualmente assume una fisionomia di cavalcata epica sino alla deflagrazione guidata da Antonelli e Babbi. E nel saliscendi cromatico e ritmico che contraddistingue il lungo percorso de La casa di Davide, in cui le soluzioni hard regnano incontrastate, trova spazio anche un simpatico accenno a “Black Night” dei Deep Purple. Avamposto finanziario nella terra del petrolio… / Quante vite costa ancora, un altro figlio d’Israele? […] / Questo sangue denso impasta, / ma la sabbia ora è secca; / nella fulgida ossessione / di appellarsi “razza eletta” […].
Con Sui muri gli Astrolabio affrontano il tema del decadimento psico-biologico di un essere umano rinchiuso nella propria “torre d’avorio” analizzato da un ragno che, dall’alto della sua polverosa ragnatela, testimonia il lento oblio che spazza via ogni memoria appartenuta a quel luogo e a chi lo ha abitato. È il quasi ossessivo gioco a due delle ritmiche a dare il via alla “sfida”, raccolta ben presto dalle voluminose distorsioni e dalla scintillante tastiera. Sofferte e piuttosto melodiche le sezioni cantate, intervallate da rapide sfuriate, mentre l’ultima parte, grazie ai cori cui partecipa anche Marangoni, si fa quasi onirica per poi esplodere con un crescendo.
E la parola fine è posta da Dormiveglia #2 (Bird), un nuovo stato di semi-coscienza, solo che questa volta il viaggio è verso la consapevolezza, il risveglio da un sonno che è stato quanto mai agitato (descritto musicalmente dalla soavità di chitarra acustica e flauto), anche se quanto vissuto è servito a poco: il sogno cede il passo alle routinarie attività quotidiane facendo decadere per sempre il ricordo dei vividi mondi attraversati solo fino a pochi istanti prima (e i “rumori di vita” ne sono testimoni).
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