Campo di Marte – Campo di Marte

CAMPO DI MARTE

Campo di Marte (1973)

United Artists

Il progetto Campo di Marte vede la luce agli inizi del 1971 su iniziativa di Enrico Rosa (chitarra acustica, chitarra elettrica, mellotron, voce) e Mauro Sarti (batteria, percussioni, flauto), già insieme ne La Verde stagione. A completare la formazione di questa nuova band arrivano Alfredo Barducci (corno francese, flauto, piano, organo), Carlo Felice Marcovecchio (batteria, percussioni) e Paul Richard (alias Richard Paul Ursillo) (basso e voce).

È Rosa l’unico compositore di tutti i brani dell’album. La sua idea è quella di fondere rock e classica, evidenziando il contrasto tra strumenti acustici e quelli più “duri”. Intento raggiunto alla perfezione. Nella mente dello stesso Rosa inoltre l’album doveva essere una lunga suite, così descritta dall’artista nell’intervista rilasciata ad Augusto Croce nel 2002: un viaggio musicale composto in modo da avere all’inizio e alla fine un tema di chitarra classica in La alla Vivaldi. Purtroppo non sarà preservata la sua idea.

Andiamo con ordine. Rosa compone i brani nel 1971, ma, a causa di problemi con la casa discografica, la band approda in studio di registrazione solo nel gennaio del 1973. Nel frattempo l’euforia iniziale del gruppo, soprattutto a causa di questa lunga attesa, era arrivata ai minimi termini. Completate le registrazioni, e prima della pubblicazione, Gian Borasi, direttore dell’United Artists in Italia, suggerisce, molto probabilmente decide, di cambiare l’ordine dei brani, invertendo i due lati dell’album (secondo lui i nuovi brani iniziali hanno un impatto più forte) cosicché il lato B originale diventa quello A. Non solo, vengono modificati anche i titoli (a detta di Rosa dovevano essere solo “Prologo parte I & II”, “Riflessione” ed “Epilogo“).

Durante le registrazioni del disco, inoltre, è deciso anche il nome definitivo del gruppo che, fino ad allora, ne aveva cambiati diversi. È Borasi che, durante le sessioni, chiede al gruppo di nominare alcune delle zone di Firenze e, giunti a Campo di Marte, la band capisce di aver trovato il nome giusto.

L’opera è un lavoro composito ricco di soluzioni che, per l’anno di composizione (1971), non sono di certo comuni (vedi, per esempio, l’utilizzo di due batterie o quello del corno francese, forse l’unica band italiana a utilizzarlo). È un album molto dinamico, con cambi ritmici improvvisi o sferzate chitarristiche di alto livello alternati a momenti più “rilassati”, sa coniugare le due anime alla base dell’idea di Rosa (rock e classica) magnificamente. Si ritrovano, sapientemente miscelati, elementi che portano alla mente la scena anglosassone dell’epoca (vedi “lampi” di King Crimson, ma non solo) con quelli italiani sbocciati in quei primissimi anni ’70, come Rovescio della Medaglia o PFM.

L’immagine di copertina, sicuramente una di quelle più conosciute del prog italiano, mostra cinque antichi soldati mercenari turchi nell’atto di infliggersi ferite con armi diverse per dimostrare la loro forza e coraggio e per ottenere un salario più alto, ed è collegata sia al nome della band (il Campo di Marte, o Campo Marzio, è la zona di ogni città consacrata al dio Marte e adibita agli esercizi militari, su imitazione di quella dell’antica Roma), sia ai testi che si riferiscono alla stupidità della guerra.

Quando esce l’album, Rosa ha già riformato la band con un’altra formazione in stile jazz-rock e, arrivata la possibilità di esibirsi e promuovere il disco, lo stesso artista decide di non suonare insieme ai vecchi compagni, se non in un’occasione: a Mestre, nel giugno del 1973, dove però, invece di suonare i brani dell’album con il normale set, Rosa decide di suonare una composizione di sola chitarra insieme a un breve riarrangiamento dell’album.

L’album si apre con Primo tempo. Basta un minuto e mezzo per capire che i Campo di Marte ci sanno fare. Il riff hard iniziale e l’ingresso a ruota di basso, batteria e organo, sa molto di british (ma anche di Rovescio della Medaglia). Poi il clima diventa più sognante con l’ingresso della voce di Rosa cui fa da contraltare il testo conciso ma duro: Ricordo quel prato / coperto di fiori / correvo felice / alla luce del sole chissà / Rivedo quel luogo / migliaia di croci / ricoprono il prato / oscurano il sole chissà / Uomini ignari / prendete le ossa / il solo raccolto / di tante pazze semine perché. Durante i segmenti cantati non mancano spazi più “solidi”. La seconda metà del brano si apre in modo molto romantico, con i fiati di Barducci in evidenza. Poco dopo rientra la voce e, con essa, le sonorità iniziali.

Avvio molto dolce per Secondo tempo con una chitarra acustica alla Ivan Graziani. A seguire anche flauto e basso accentuano questa sensazione portando alla mente Principe di un giorno (il brano contenuto nell’omonimo album) dei Celeste. L’ingresso seguente della batteria dà, a sprazzi, più verve al brano. Nel finale Rosa, per alcuni secondi, esce dal coro.

È l’hendrixiana chitarra di Rosa a dare il via a Terzo tempo. Poi il brano si sviluppa in tutt’altro modo, prima con il canto di Ursillo, il quale si espande in un clima emotivamente teso, successivamente con la batteria che lancia un bel segmento molto carico, ben tenuto anche da basso, chitarra e piano (un mix grandioso tra Rovescio e Metamorfosi). Una nuova svolta si ha a metà brano con il leggero flauto che crea lo spazio per un nuovo assolo ispirato di Rosa.

Quarto tempo. È il “tarantolato” organo di Barducci il protagonista della prima parte del brano, inizialmente sostenuto dalle incalzanti ritmiche “sussurrate”, poi in solitaria. Puro classicismo da brividi. Nella seconda parte c’è un lampo di “vitalità collettiva”, prima della chiusura minimal della chitarra acustica.

Quinto tempo. La leggiadra chitarra iniziale di Rosa sa molto di Mussida ne Il banchetto, e anche il flauto e la batteria seguenti confermano l’atmosfera da PFM. Tutto il brano sembra una sorta di omaggio alla grande band di Di Cioccio & co.

Sesto tempo è uno dei punti più alti dell’album grazie ai vari cambi che si susseguono lungo i suoi cinque minuti. Si va da una partenza crimsoniana agli inserti di mellotron e corno francese, da uno stacco di piano (e non solo) alla Banco, alle divagazioni della chitarra ben supportate (dai richiami western a quelli frippiani, passando per quelli psichedelico-sognanti). Solo dopo i tre minuti la voce di Rosa porta un po’ di quiete al brano, prima dello “sfogo” finale.

Settimo tempo. Poco più di otto minuti per mettere ancora una volta in evidenza le ottime qualità tecniche dei musicisti. È un continuo alternarsi di atmosfere dolci ad altre più decise. È soprattutto la batteria di Sarti a destreggiarsi alla meglio lungo il brano con continui cambi, sempre precisi. Anche la chitarra ha degli spunti davvero interessanti. Un ottimo esempio di Brano prog con la “B” maiuscola.

Un grande album, senza ombra di dubbio. Peccato per gli eventi negativi che hanno accompagnato il suo cammino.

Una nota curiosa: Enrico Rosa conosceva Alfredo Barducci come Carlo Barducci e ha scoperto il suo vero nome leggendolo sulla copertina dell’album!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *