Warm Spaced Blue (2016)
Black Widow Records
Dopo aver “perlustrato” un periodo storico affascinante quale il Medioevo, concentrandosi sulla Prima Crociata e immaginando, in “In Hoc Signo”, la colonna sonora di un viaggio, quello di una compagnia di crociati dell’XI secolo che decidono di abbandonare la guerra per spingersi verso un percorso mistico di crescita interiore, gli Ingranaggi della Valle spostano il tiro concentrandosi in modo preponderante sull’analisi del corpus letterario lovecraftiano, traendone riflessioni su tematiche d’ambito psicologico e sociologico, delineando un pensiero critico che in questo determinato contesto storico riteniamo risulti incredibilmente attuale (come confermato da Mattia Liberati nell’intervista alla band).
Si concretizza così Warm Spaced Blue, lavoro che vede allargarsi la formazione della band, ora a sette elementi: Davide Savarese (voce, glockenspiel, Rhodes MkV in Ayida Wedo), Mattia Liberati (Hammond B3, Mellotron M400, Mellotron M4000, Fender Rhodes Mk V, MiniMoog, MiniMoog Voyager, piano, voce), Flavio Gonnellini (chitarra elettrica, voce), Alessandro Di Sciullo (chitarra elettrica ed acustica, Moog Minitaur, Mellotron M400, Mellotron M4000, Roland TR 808 e TR 909, Akai MPC Touch, Korg Kaoss Pad KP 3, voce), Marco Gennarini (violino, voce), Antonio Coronato (basso) e Shanti Colucci (batteria, percussioni).
Sono ancora i musicisti a presentarci al meglio il contenuto del concept album: Partendo da una rilettura in chiave junghiana dei racconti del noto scrittore statunitense, abbiamo trattato le suddette tematiche [d’ambito psicologico e sociologico] affrontando brano per brano le varie tipologie di rapporto che possono intercorrere tra l’io cosciente e l’inconscio collettivo, e le dinamiche che il conflitto individuale può rappresentare sul piano sociale (in particolar modo nella suite “Call for Cthulhu”), mediante l’utilizzo di un differente narratore per brano.
È su queste basi che prende forma la musica onirica, inquieta ed ipnotica degli Ingranaggi della Valle. In Warm Spaced Blue i sette non restano ancorati al prog tout court, come abilmente dimostrato in “In Hoc Signo”, ma vanno oltre: si possono quindi notare, accanto a frangenti british e crimsoniani, sortite post che rimandano, ad esempio, ai Godspeed You! Black Emperor, e ancora spiragli jazz-rock che s’incontrano e scontrano con la sperimentazione, il tutto “immerso” in quelle atmosfere scure care al mondo scandinavo (Änglagård e Opeth su tutti). Così, come in un prisma triangolare la luce “bianca” viene separata, per rifrazione, nei colori dello spettro visibile (i sette colori identificati da Newton), con la musica degli Ingranaggi della Valle assistiamo all’effetto rovesciato: i sette colori spettrali (i musicisti) diventano, attraverso il “prisma musicale”, un flusso luminoso-sonoro unitario e compatto in cui si riconoscono, però, nitidamente le singole “sfumature cromatiche”. La band, inoltre, decide di centellinare lo strumento vocale puntando tutti, o quasi, sulla “parola suonata”, giungendo ad un vero e proprio capovolgimento della dialettica. Questa volta è la musica a detenere il primato rispetto all’album d’esordio.
Accanto ai nostri troviamo nell’album alcuni ospiti: Fabio Pignatelli (basso in Call for Cthulhu: Orison), Florian Lechter (voce narrante in Inntal), Paolo Lucini (flauto traverso in Call For Cthulhu: Promise) e Stefano Vicarelli (synth in Ayida Wedo).
E come in ogni produzione BWR che si rispetti, l’occhio e l’orecchio (mettendo un attimo da parte il contenuto sonoro reale del disco) ottengono la loro parte. Il primo è “accontentato” dall’artwork evocativo di Jacopo Tiberi corredato dalle foto di Marzia Brugnoli e Valerio Romagnoli, mentre il secondo ne esce appagato tramite l’eccellente qualità audio che rende al meglio le idee dei ragazzi romani.
L’album si apre con Call for Cthulhu: Orison, la prima parte della suite tripartita dedicata ai Miti di Cthulhu, e siamo subito catapultati negli abissi lovecraftiani grazie ad una introduzione sinistra che lascia sospesi sul prosieguo del brano: ora tutto può accadere. Ed ecco che, dopo il lento incedere del piano di Liberati, è un crescendo: Colucci “affina” col trascorrere dei secondi il suo strumento e getta le basi per i continui mutamenti sonori guidati dalle tastiere (a tratti dal tocco emersoniano) e dalle chitarre, con inserti a tema dell’intenso violino di Gennarini e del glockenspiel di Savarese che, ottimamente immersi nel clima tetro e nelle mille soluzioni tastieristiche, spingono il brano verso territori gobliniani, “convalidati” dalla presenza dell’ospite di lusso Fabio Pignatelli al basso. È un susseguirsi di atmosfere cinematografiche descrittive e coinvolgenti. E sul finire ecco emergere dalle profondità della terra la magnetica voce di Savarese, dapprima avviluppata da cori in linea con il clima, poi in solitaria, che fa sue le parole dei devoti del culto di Cthulhu, i quali sperano in un suo ritorno. Non si poteva sperare in un miglior avvio.
Inntal. Il “carillon” iniziale introduce un segmento spensierato e jazzato che fa da apripista ad un nuovo vorticoso viaggio sonoro: è una corrente ipnotica che prende consistenza e si arricchisce di dettagli nel suo fluire. Saliscendi emotivi si susseguono senza sosta con continui avvicendamenti chiaroscurali guidati dalla mutevole batteria di Colucci e dalle “visionarie” tastiere di Liberati e Di Sciullo, ornate dai molteplici e “instabili” inserti di chitarre, violino e basso. A tratti s’incrociano il prog atmosferico degli Opeth (meno “appesantito”) e quello di Annot Rhül in “Leviathan” (non a caso anche quest’album ispirato a Lovecraft e pubblicato dalla BWR). L’inserto narrato in tedesco dall’ospite Florian Lechter, che incrociamo oltre la metà del brano, guida verso un baratro compatto e violento da cui si fanno strada, sgomitando, le voci che brevemente ci raccontano la leggenda di un giovane forestiero che viene spinto dagli abitanti della valle alla ricerca del fantasma di una giovane vergine che ogni anno riemerge dalle acque del fiume Inn (Innsbruck, Austria). Realizza troppo tardi di essere la vittima del sacrificio che ogni anno viene fatto in onore della ragazza. Finale sontuoso, con tanto di breve “omaggio” ad Enrico Olivieri.
La seconda parte della suite è la nera Call For Cthulhu: Through The Stars. È l’elettronica a regnare incontrastata e a creare un profondo senso di inquietudine nei poco più di tre minuti del brano che descrivono la visione onirica di R’Lyeh, la città sommersa in cui Cthulhu aspetta sognante di poter tornare sulla terra.
Intitolare un brano con il nome di un fuoristrada, dalle linee non proprio “morbide”, prodotto in Russia a partire dagli anni ’70, e inserirlo in un contesto dalle tematiche scure si può. Ecco allora Lada Niva, episodio in cui è descritto con toni nostalgici l’incapacità dell’anziano fantasma di affrontare l’aldilà. Rimane legato alla sua vita terrestre pensando alla sua vecchia auto, una Lada Niva, l’ultima cosa capace di ricordargli i momenti più belli della sua vita. La “voce grossa”, per buona parte del brano, la fa il duo ritmico Colucci-Coronato con linee irregolari e irrequiete “indossate” alla grande, nella prima parte, dalla voce camaleontica di Savarese (a tratti si muove alla Cedric Bixler-Zavala). How many journeys / have we made, my dear? / Can’t forget the sound of rain / on the windshield. / Now it’s clean! / If i were still here / i’d buy you a gift! / A new leather steering wheel. / How many landascape / have we seen through years? / Can’t get over this frontier! / Sometimes roads are too long, / someone could stops. / Why are you living past? / Go straight ahead! […]. Con loro troviamo il solito ottimo lavoro di tastiere, chitarre e violino, abili ricamatori di atmosfere, a tratti liquide a tratti nervose.
L’avvio di Ayida Wedo, affidato al synth dell’ospite Stefano Vicarelli, sembra quasi un omaggio all’album “Andrè sulla luna” di Arturo Stàlteri, poi batteria e chitarra imprimono un ritmo decisamente più hard che si apre e s’illumina poco dopo grazie ai soavi tasti di Liberati e alla chitarra acustica di Di Sciullo. Sarà un tira e molla, ma anche una sorta di compromesso, tra queste due atmosfere antitetiche caratterizzate, in seguito, da ulteriori dettagli che ne ampliano lo spettro. Il brano strumentale racconta la rinascita di un uomo che ricostruisce la sua vita affrontando i suoi mostri interiori.
Si chiude con la terza parte della suite, Call For Cthulhu: Promise. Il brano narra di un prigioniero tenuto in isolamento che identifica la sua condizione con quella della divinità sommersa. Così come Cthulhu risorgerà dagli abissi, così il prigioniero promette che quando la società sarà pronta (“…the stars are right…”) lui avrà la sua vendetta. È un maliardo arpeggio a dare il via all’episodio, con il successivo supporto simbiotico della voce di Savarese. Poi l’organo solenne imprime un primo mutamento, seguito dalle “tenebre vocali”. A seguire il “delirio”: la mente vacilla trasportata da quella che sembra la rilettura “oscura” della world music degli Aktuala e da cui affiora, per un frangente, il flauto dell’ospite Paolo Lucini. E dopo una breve sosta “refrigerante” si cade ancor più giù, guidati dal Caronte Liberati. Una seconda pausa silenziosa lascia poi emergere dalle viscere della terra la creatura lovecraftiana. Tra suggestioni industrial alla Nine Inch Nails, elettronica sinistra e loop ipnotici si chiude magistralmente il secondo album di una band che è già diventata una certezza nel panorama progressivo italiano.
Lascia un commento